«Mosè, Mosè!» (Es 3,4)


di Paola Franchina

Lasciamoci travolgere da un racconto senza tempo ambientato in Egitto, terra del papiro, della ninfea loto, canna e acacia. Su questo suolo, popolato da ippopotami, ghepardi, leoni e una invidiabile avifauna, nacque Mosè. La venuta al mondo del profeta non ebbe luogo in un momento propizio per un ebreo: a motivo dell’incessante crescita e proliferazione degli israeliti, infatti, il nuovo re aveva emanato un’ordinanza che ingiungeva di gettare nel Nilo ogni figlio maschio.

La madre di Mosè, per sfuggire al decreto regio, dopo aver concepito il figlio, lo tenne nascosto per tre mesi, per porlo, in un secondo momento, in un cesto di papiro tra i giunchi.

A trovarlo fu la figlia del faraone, la quale lo accolse come un figlio a cui diede il nome di Mosè, dall’ebraico Moshe; come suggerisce la locuzione latina, nomen omen, il nome, che in senso passivo indica l’essere salvato dalle acque, suggerisce come un presagio il destino di Mosè, chiamato a salvare il popolo di Israele attraverso le acque del Mar Rosso. Mosè crebbe, così, tra gli agi e i fasti della corte, fino a che un giorno, dopo aver visto un Egiziano vessare un ebreo, decise di fare giustizia e di colpire a morte l’egiziano, nascondendo in un secondo momento il cadavere sotto la sabbia. Il fatto, però, non passò inosservato, la notizia ebbe eco e giunse fino all’orecchio del faraone, il quale ordinò di far cercare Mosè per metterlo a morte. In questo momento della storia, il protagonista in preda al timore fugge dalle sue origini e dal suo passato, rifugiandosi nella terra di Madian, ove sposerà Sipporà, la figlia di un sacerdote. Il Signore, tuttavia, non permette a Mosè di divetare straniero a se stesso e interviene, mostrandosi quale fiamma ardente al centro di un roveto. La scena, che da sempre incanta i lettori, viene rappresentata da Chagall con un’arte che sfugge alle leggi di profondità e di tridimensionalità.

Al Museo Nazionale del Messaggio Biblico è conservato il quadro Mosè davanti al roveto ardente capace di impressionare l’osservatore per la straordinaria capacità di evadere da ogni misura o canone. L’artista sollecita lo spettatore a leggere il quadro da destra verso sinistra, come avviene per la scrittura ebraica. Procedendo da destra, vediamo Mosè indossare una tunica bianca, immagine della debolezza umana. Mosè non indossa i calzari: essi vengono tolti prima di avvicinarsi al luogo sacro. Evidente il rimando al rito dello scalzamento, secondo il quale il gesto di levarsi le scarpe ha lo scopo di consegnare il diritto al riscatto al parente più prossimo. Pertanto, la riproposizione di tale gesto in questo contesto sembra suggerire l’atto di consegna da parte di Mosè del compito di riscattare il popolo al parente prossimo, ovvero Dio stesso: se Mosè, per legame di sangue, risulta essere fratello del popolo ebraico, Dio, invece, si trova in un grado di prossimità maggiore in quanto padre. Questa sottigliezza, dunque, ci rivela il legame viscerale e figliale che unisce Israele al suo Dio, qui rappresentato come un angelo, le cui ali, al contatto con i rami, determinano l’accendersi di fiamme dalle tonalità calde in forte contrasto cromatico con il blu che impera sulla tela, evocando alla memoria le acque da cui è stato salvato Mosè alla nascita e, nel contempo, le acque del mar rosso.

Proseguiamo nella lettura del quadro, fino a giungere al bordo destro, ove troviamo la vicenda cruciale del racconto esodico: la traversata del mar Rosso. Al centro un’onda in forma di nuvola bianca si insinua tra la compagine degli Ebrei e l’esercito di Egiziani. Questi ultimi sono guidati nell’impresa da una testa luminosa, immagine di Mosè, il cui sguardo è rivolto alle tavole della legge che il popolo riceverà come dono sul monte Sinai.

Come ci ricorda il testo di M. Walzer Esodo e Rivoluzione, infatti, non basta sconfiggere il faraone per approdare nella terra promessa: la libertà richiede un giudizio costante e critico nei confronti di tutti quei sistemi di oppressione e corruzione che possono continuamente riproporsi nell’oggi: occorre, pertanto, il dono della legge, la quale diviene strumento di disciplina costante contro il rischio del faraone di ogni tempo, sia esterno che interno.


Numero 672 - 31 luglio 2022