The Rabbi is in


Del non aver tempo, del non aver luogo, dell’averne molti?

di Miriam Camerini

Le ultime due settimane sono state una corsa continua.

Ho accolto il fatto che Milano non è più - almeno per il momento - il mio luogo di residenza fisso, come è stato negli anni passati, e che da esso non viaggio più, come facevo invece fino all’inizio della pandemia, verso le destinazioni del mio lavoro e di tutto il resto per poi tornare “a casa”, starci il tempo necessario per una doccia, una lavatrice, un cambio valigia e ripartire.

Sto - piuttosto - tentando di dar voce e forma e un sistema a ciò che sento oramai da mesi e forse anni (tra poco due) e cioè che forse non ho voglia – in questo momento – di un posto da chiamare “casa”, ma che ovunque io vada quella è la mia casa e non c’è bisogno - non lo sento - di ripassare ogni volta per la città in cui sono cresciuta, fra un viaggio e l’altro.

Correggo: forse non è vero che “non ho voglia di un posto da chiamare casa”: ne ho moltissima, ma non l’ho trovato ancora.

Dentro di me al momento quell’immagine non c’è, credo, e questo rende difficile trovarla fuori. E allora intanto vado avanti così, e cerco di fare il massimo che posso con quel che invece sì ho.

Molti buoni amici e amiche, per esempio. Amiche che mi accolgono in qualsiasi momento io passi per la città, con bambini da accudire e case da rifare, con lavori da chiudere o fidanzati e mariti da frequentare trovano il tempo, anzi: lo cercano per stare con me, ridere, nutrirmi e ascoltarmi, raccontarmi gli ultimi mesi e le loro novità. Amici indaffarati, con vite complicate e lavori impegnativi che mi accolgono in un frammento della loro vita quandunque, per quanto e ovunque io mi manifesti.

In queste due settimane a Milano ho trascorso - come sempre oramai - moltissimo tempo online, seguendo le lezioni della mia scuola rabbinica da Gerusalemme, partecipando a convegni e riunioni, registrando video e scrivendo articoli. L’ho fatto spesso dai tavolini di un caffè o di un altro, quasi sempre vicino a casa, sul Naviglio grande, soprattutto nei bei giorni di sole che ci sono stati. A volte invece dal mio divano-letto, l’unico angolo di casa che sono riuscita a sentire mio e non minaccioso, nel quale ho dormito e dal quale ho lavorato: una vera cuccia, un piccolo angolo di pace nel caos di una casa non abitata. Ho studiato qualche volta con mio padre, andando in bici e in tram a casa dei miei genitori, altro luogo di quiete.

Finite queste due settimane di corse e insonnie sono salita sul placido treno che attraversa il Gottardo e Zurigo mi ha accolta, come sempre fa, riempiendomi di ossigeno.

Il pensiero di vedere i miei nipoti e la loro madre, mia sorella, mi aveva confortata dall’ansia dei frenetici giorni milanesi ed ora ecco Zurigo: già un po’ natalizia, con le lucine sulla Bahnhofstrasse, ma anche ancora un po’ autunnale, con le ultime foglie gialle e arancioni… una meraviglia.

Casa di mia sorella ha profumo di bambini e di giochi, di vita famigliare e pace domestica, rumore e frenesia, certo, ma anche routine, ore dei pasti, spese, pannolini, storie, bagnetti e pianti notturni.

Una casa.

Entro da sola, loro sono tutti ancora fuori, e sul tavolo del soggiorno c’è una cosa che non c’era mai stata prima, in alcune delle mie visite, e che mi riempie di meraviglia: quaderni e libri di scuola aperti, astucci e matite.

Certo!

Che emozione: hanno iniziato la scuola dall’ultima volta che li ho visti, i gemelli sono ora in prima elementare. Tornano a casa, abbiamo pochi minuti per le prime coccole e frettolosi racconti perché io ho già una lezione da dare online: da Zurigo parlo agli americani, per degli ungheresi, di ebrei italiani. Perfetto.

L’indomani i miei nipoti vanno a scuola e io lavoro e poi passeggio con mia sorella, al pomeriggio li vado a prendere, facciamo un picnic improvvisato sulle sedie che qualcuno ha lasciato in mezzo alla strada per buttarle via e poi camminiamo nel parco bevendo cioccolata calda: che felicità!

Finalmente entra Shabbat, il tempo per stare tutti assieme sul divano, accoccolati e accartocciati, leggere qualche cosa, cantare i Salmi che accolgono il Sabato, giocare e cenare con calma.

Respiro.

Dormo.

L’indomani i gemelli si infilano – appena svegli – nel mio letto: li ho invitati io a farlo, dicendo: “A qualsiasi ora ... Hem, nel senso di dopo le 8, giusto?”.

Mio cognato ha riso.

Quando entrano non guardo l’ora, li abbraccio e infilo sotto al piumone e lì mi ricordo di una frase che ho appena letto nel mio bel libro sul Talmud: “Quando il nostro amore era forte potevamo dormire assieme anche sulla punta di una spada” (TB, Sanhedrin 7a).

Credo che noi ci amiamo molto: costruiamo burattini con avanzi di carta e stoffa, cuciamo loro capelli e antenne, leggiamo e guardiamo Il Trovatore su Youtube, spesso mi fanno compagnia durante le lezioni della yeshiva su Zoom: ora che sanno leggere, leggono anche in ebraico con facilità che mi sconcerta e rallegra.

Tutta la settimana - ogni mattina - dormiamo per un po’ assieme abbracciati, noi tre, mia nipote, suo fratello e io e ogni volta io dico: “Perché noi ci amiamo così tanto che possiamo dormire anche...” e loro: “Su una punta di spada!”.

Vorrei che questa settimana non finisse mai.


Foto di Paola Cazzaniga