Foto di Paola Cazzaniga




Giovedì

Meron


di Miriam Camerini



Vi ricordate quando dicevo che le cose qui in Israele succedono molto in fretta? Ecco, questa settimana anche di più, ma cerchiamo di fare ordine, ché per questo gli dei ci hanno donato la scrittura. (Questo proemio la dice lunga sull’atmosfera pagana dell’intera esperienza: astenersi rigidi monoteisti).

BeMeron, sham rabbi Shimon, adonenu bar yochay ... A Meron, là rabbi Shimon, il nostro signore figlio di Yochay…

Cantavamo in un’estate indimenticabile di qualche anno fa all’Yiddish Summer Weimar, festival di musica klezmer e cultura yiddish nelle selve della Turingia. Suonava un po’ pagano, lo ammetto, ma la musica era accattivante e a insegnarcela era niente meno che Moshe (chiamato dai suoi amici e colleghi musicisti arabi: Mussa) Berlin, uno dei più incredibili clarinettisti klezmer viventi, accompagnato dalla figlia, l’altrettanto meravigliosa Odelya, pianista e cantante israeliana, ortodossa, incredibilmente riccia, punk. Da loro - che da anni ne sono animatori e ospiti - per primi, credo, sentii parlare del festival di Meron, di quella montagna in Galilea dove secondo la leggenda è sepolto l’eroe della canzone, il Maestro del Talmud Shimon Bar (figlio di) Yochay, vissuto nel I-II secolo d.C. in una Palestina già sotto dominazione romana e morto nel 161 d.C, cioè 30 anni dopo la repressione della rivolta anti-romana di Bar Kokhva appoggiata dall’altro grande maestro del Talmud, Rabbi Akiva. La morte di Bar Yochay sarebbe avvenuta durante un periodo particolare del calendario ebraico, in cui - si può dire - ogni giorno conta, oppure si conta ogni giorno: ne parlerò più sotto. Durante quel periodo, o poco prima, erano morte decine di migliaia di studenti di Rabbi Akiva, a causa di una tremenda pestilenza scatenata – sempre secondo la leggenda, dall’Eterno – allo scopo di punire questi studenti che non “si rispettavano a vicenda”.

Ma facciamo un salto avanti di quasi 2000 anni.

Lo scorso giovedì pomeriggio verso le 16 finisco una riunione qui in uno dei caffè-giardini più idilliaci di Gerusalemme, chiudo il computer e – d’impulso – decido di partire per la Galilea nella speranza di arrivare entro sera al Monte Meron, meta di pellegrinaggi da parte della popolazione haredi-hassidica di Israele, i cosiddetti Ultraortodossi, per usare un termine improprio e condiviso. Non farò qui la storia di questo luogo, dello strano “culto”, né delle sue ragioni e radici (in questi giorni, purtroppo, trovate tutto su qualunque giornale), ma vi dirò che – da parte mia – desideravo da tempo vederlo, respirarne l’aria, sentirne i suoni, proprio in questa misteriosa giornata di Lag BaOmer, ossia il 33esimo giorno dell’Omer.

Il periodo dell’Omer congiunge Pesach, la Pasqua, a Shavuot, o Pentecoste: per 7 settimane è precetto contare ogni sera il nuovo giorno in ricordo della misura di orzo (l’omer, appunto) che la Bibbia in Levitico comanda di presentare al Tempio, giorno dopo giorno, un po’ come per pagare a rate quella libertà che la divinità elargisce a credito, liberando dall’Egitto il popolo ebraico e sperando che poi - una volta libero - sia anche in grado di meritarselo; è un periodo da sempre delicato, in cui l’orzo è già mietuto, ma il grano ancora cresce, in cui il precario clima della ragione va sorvegliato con cura particolare, nella speranza che non faccia troppe follie rovinando il prezioso raccolto. È forse il periodo in cui maggiormente il contadino invoca l’aiuto della Divinità creatrice - e per questo si sente ad essa anche molto vicino: mentre si esce dalla primavera e si marcia verso l’estate tutto è sospeso e tutto dipende dalla bontà eterna. Secondo la tradizione, questo periodo, che nella Bibbia è un periodo di festa, ancorché di tensione, in epoca rabbinica divenne un periodo di lutto a causa delle persecuzioni romane e della già ricordata pestilenza, che si interruppe proprio nel giorno LaG (in ebraico i numeri, e quindi le date, si scrivono con le corrispondenti lettere dell’alfabeto, in un sistema semplice e intelligente di decine e unità: 33 è dunque pronunciato LaG), ossia lo stesso della morte di Bar Yochay che non è giorno di lutto ma di festa, poiché in esso, per i seguaci di Rabbi Shimon, la sua natura di grande maestro si rivelò definitivamente nella morte. In suo onore si accendono fuochi, attorno ai quali si canta e si balla tutta la notte. L’intreccio tra festa e lutto, tra morte e vita, è dunque particolarmente evidente in questa circostanza.

Prendo l’autobus, raggiungo Tiberiade, salgo su un altro autobus: è - appunto - quasi notte, la notte di Lag Baomer, quando arrivo a Meron; la folla è già immensa e sale come un serpente umano sul monte, sempre più su. La musica sta iniziando allora e io cammino fra tutte le tende e i barbeque e i falò delle famiglie e dei gruppi che da giorni campeggiano nei boschi. La luna è poco meno che piena: siamo al 34esimo giorno dall’inizio di Pasqua, quindi sta calando.

Mi aggiro da un palco a un altro, ascolto musiche diverse, salgo perfino, con una scala di fortuna - fatta con la rete di un letto - su un tetto di lamiera, per sbirciare gli uomini che ballano nella sezione dedicata solo a loro, mentre le donne si accalcano con i bambini e seguono l’evento su uno schermo, e sentono la musica e vedono il fuoco che sale al cielo dall’enorme falò acceso dalla parte degli uomini. Un gruppo di ragazze ama la mia idea: salgono anche loro sulla lamiera e iniziano a ballare sul precario tetto; cerco di dire che non mi pare il caso, non ascoltano, scendo io, sperando in bene per loro.

Ci sono troppe, troppe, persone, ovunque, e ognuno e ognuna sembra preoccupata solo del proprio spazio vitale: parlandone due giorni dopo con l’amica Livia Levine scoprirò che il Talmud babilonese (nel trattato di Yebamot, pagina 62b) dice che durante il periodo dell’Omer morirono decine di migliaia di studenti di Rabbi Akiva “perché non si conducevano con rispetto l’uno con l’altro”: il rispetto – mi fa notare Livia – è prima di tutto garantire e riconoscere a ognuno un giusto spazio in cui possa respirare e sentirsi sicuro. Rispetto, onore in ebraico è kavod, ossia letteralmente peso: la base del rispetto è dare a ognuno il proprio peso, che in un periodo come quello dell’Omer, dove ogni giorno si conta il tempo in un’unità di misura solida, di peso, fa riflettere.

Chissà se le persone a Meron, quando le ambulanze già cercavano di aprirsi un varco, i paramedici correvano sul monte con le barelle in spalla e gli altoparlanti strillavano: “Attenzione, è questione di vita o di morte, lasciate passare, date kavod!” (di nuovo quella parola pesante)... Chissà che cosa pensavano quei pii pellegrini, chissà se sentivano come la responsabilità di quelle ambulanze fosse su ognuno di loro, se riuscivano a capire che ognuno conta, che l’azione di chiunque in una situazione del genere può salvare o condannare una vita? Sapevano che ogni vita conta e pesa come un mondo intero? E sì che, appena un’ora prima, un gruppo di chassidim aveva aperto un varco per il suo rebbe, il venerato maestro e rabbino del loro gruppo, con poche parole sussurrate e alcuni cenni della mano: la folla si era aperta come un mare, obbedendo a una legge non scritta, ma vecchia di 300 anni: davanti al rebbe si sgombera il passaggio, si libera la via, come per un re del medioevo.

E allora – mi chiedo un’ora più tardi, mentre le barelle salgono a spalle perché le ambulanze faticano troppo a fendere quel mare – non conta forse ogni vita umana come quella del re-bbe?

Ci dovrò pensare ancora, ci dovremo pensare tutti e tutte.

Per oggi mi fermo qui, sono ancora molto affaticata.

Foto di Paola Cazzaniga