Il figliol prodigo (continua)
di Dario Culot
Il ritorno del figliol prodigo - Rembrandt - Museo Hermitage (San Pietroburgo, Russia) - celebre dipinto in cui il padre misericordioso ha una mano maschile e una femminile, immagine tratta da commons.wikimedia.org
10. L’altra parabola fondamentale per capire come si comporta il Dio di Gesù è quella del figliol prodigo, che però – per essere compresa correttamente - dovrebbe essere meglio presentata col titolo del padre misericordioso (Lc 15, 11-32); ma anche questo titolo è insufficiente.
È evidente che, con questa parabola, Gesù ha voluto lasciare bene in chiaro che il «Padre» di cui lui parlava, non era il «padre autoritario», che proibisce, censura e traumatizza, bensì il «padre buono» che sta sempre vicino al figlio ed è accogliente e comprensivo, qualunque sia la condotta di questo figlio[1]. Insomma, assomiglia più a una madre che accetta il figlio per quello che è. E Rembrandt, col suo quadro, dimostra di aver perfettamente capito che in Dio dovremmo trovare sia l’amore saldo e sicuro del padre (Is 59, 16), sia quello gratuito e totale della madre (Is 49, 15-16); esattamente come ha osato affermare, ma solo pochi decenni fa e dopo secoli in cui si offriva solo l’immagine di un Dio padre autoritario, papa Giovanni Paolo I: «noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile: è papà, più ancora è madre»[2]. Poco dopo aver effettuato questa dichiarazione, scandalosa per la tradizione, quel papa è morto, dopo un pontificato brevissimo.
È indubbio, stando a questa parabola, che Dio si comporta più come una madre amorevole, e nessuno ha paura della propria mamma; pertanto se il dio in cui ci hanno fatto credere e continuiamo a credere ci mette paura, dobbiamo sbarazzarcene, perché quello non è il Dio in cui crede Gesù. Non è vero che l’uomo peccatore deve pentirsi, purificarsi, fare penitenza per avvicinarsi a Dio, e che senza tutto questo umiliante atteggiamento il suo peccato è imperdonabile. La Buona Novella – come si è detto al §8 dell’articolo Cristiani non credenti e laici credenti del 18 agosto - è che nessuna persona deve sentirsi esclusa dall’amore di Dio, che ci ama sempre ed attende sempre con ansia che noi ci avviciniamo (il nostro ritorno). È la religione a dirci che l’uomo deve togliersi di bocca le sue primizie per offrirle a Dio, che l’uomo deve avere paura di Dio, che il rapporto fra l’uomo e Dio è regolato dal norme ben precise, creando con ciò una distanza abissale fra l’uomo e Dio. Una delle regole fondamentali che la religione sosteneva essere voluta da Dio, era quella della purificazione. Nell’episodio della moltiplicazione dei pani (Mt 14, 15-21) risalta l’assenza di qualsiasi invito a purificarsi, com’era invece obbligatorio fare: secondo la religione Gesù avrebbe dovuto ordinare ai suoi di purificarsi prima di mangiare. E questo si ripete di continuo: ogniqualvolta Gesù si trova a pranzo o a cena – e i pranzi e le cene nei vangeli anticipano sempre l’eucaristia – mai chiede o impone di fare le rituali abluzioni. Perché Gesù non comanda alla gente che lo segue di purificarsi? Evidentemente perché non ritiene vero quello che insegna la religione: che gli uomini devono purificarsi per avvicinarsi a Dio,[3] per partecipare al banchetto del Signore; al contrario è partecipare al banchetto del Signore quello che li purifica. Basta cioè avvicinarsi a Dio per essere purificati. Non è neanche vero che bisogna prima pentirsi, confessare le proprie colpe, fare penitenze per riuscire poi ad ottenere il perdono di Dio, perché, come ben risulta da questa parabola, Dio perdona per primo. Questa è la grande novità portata da Gesù, che ci presenta un Dio che non divide mai fra puri e impuri, fra santi e peccatori. È un Dio che offre a tutti la stessa possibilità di diventare suoi figli adottivi (vedremo fra poco, spiegando la parabola, la consegna della veste e dell’anello). Basta accettare la sua offerta che è rivolta a tutti, senza escludere nessuno. Se Dio ama il peccatore, ciò avviene malgrado il peccato: l’amore di Dio non si lascia condizionare dal comportamento dell’uomo.
Eppure, nella vita cristiana, ancora presiste l’idea di dover essere, se non proprio schiavi, almeno servi di Dio, visto che ci hanno insegnato che siamo nati per servire Dio[4]. E cosa fa il servo? Si mette al servizio di Dio, ma poi si aspetta naturalmente una ricompensa; si legge, ad esempio nell’Apocalisse (Ap 11, 18): “È giunta l’ora della tua ira, il tempo di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai tuoi servi.” Infatti la retribuzione è dovuta per azioni riconosciute buone, afferma ancora oggi il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 2006 ss. Catechismo).
Ma la conferma che questo atteggiamento è lontanissimo dalla Buona Novella proclamata da Gesù, la troviamo per l’appunto nella parabola del figliol prodigo, e faccio notare come raramente dal pulpito si sente dire quello che, invece, dovrebbe essere sottolineato. Come ricorderete, il figlio maggiore – per il quale istintivamente noi parteggiamo, proprio perché non abbiamo capito il senso profondo della parabola visto che non ce l’hanno adeguatamente spiegata[5] - esprime tutte le sue rimostranze al padre che ha appena accolto con gioia il ritorno del figlio più giovane scapestrato. Se però guardassimo con più attenzione al racconto, capiremmo che il fratello maggiore esprime il suo rifiuto ad entrare in casa attraverso le immagini trite e ritrite dell’atto servile, del comando, della ricompensa, che sono sempre rimasti alla base della nostra religione, e che Dio – almeno quello raccontato Gesù – non accetta. All’inizio, cosa aveva fatto il padre? Il vangelo dice che il padre, il quale non era obbligato a farlo,[6] aveva diviso il suo patrimonio tra i due figli, quindi aveva dato anche al figlio maggiore la sua quota, esattamente come al figlio minore, che se n’era andato e poi l’aveva sperperata (Lc 15, 12). E allora, perché questo figlio maggiore sta blaterando che “non mi hai mai dato neanche un capretto”? Poteva prenderselo: era ormai roba sua! Cos’è, allora, che ha impedito a questo figlio di godere delle cose ormai sue dategli dal padre? Semplicemente c’è il fatto che lui non ha un rapporto filiale con il padre, ma ha un rapporto servile con un padrone: “ti servo, obbedisco ai tuoi comandi, poi però mi aspetto la ricompensa: diamine! almeno un capretto!” Il figlio maggiore vede sé stesso come buono, è orgoglioso di esserlo e perciò disprezza il fratello perduto[7]. Allora l’indicazione che ci dà l’evangelista, e che normalmente non ci danno i preti dal pulpito, è questa: chi ancora ha, nel rapporto con Dio, il rapporto di un servo nei confronti di un padrone ha un’idea sbagliata di Dio, perché non solo non crescerà mai, ma non arriverà mai a godere delle cose che Dio ci ha già dato. Gesù non vuole nessun uomo al servizio di Dio che non ha affatto bisogno di essere servito, ma solo uomini che per amore scelgono di servire (aiutare) altri uomini[8]. Non serve inginocchiarsi in chiesa davanti a Dio; meglio inginocchiarsi per sollevare l’uomo che è prostrato nella vita e ha bisogno di aiuto. O, come diceva frate Giovanni Vannucci, «Dio non lo trovi in chiesa, lo incontri inginocchiandoti ai piedi di chi soffre».
La parabola è perciò indirizzata principalmente a tutti coloro che si comportano come il figlio maggiore, a coloro che pensano di ottenere l’amore di Dio grazie ai loro sforzi e ai loro impegni, osservando strettamente le regole. E proprio come il figlio maggiore si comportano normalmente le persone religiose.
Invece la parabola spiega come Dio si comporta col peccato e con i peccatori, e mette innanzitutto in evidenza come Dio (il Dio di Gesù) perdona. Il dio della religione viene presentato come un dio assiso sul trono; l’uomo gli si avvicina tremebondo, pentito, inginocchiato e poi si vedrà se questo dio si degnerà o meno di concedergli il perdono. Il Dio di Gesù è completamente diverso, ecco perché non rientra in nessun schema religioso. Dunque, il figlio più giovane ha preteso la sua quota d’eredità, cioè ha considerato suo padre come morto, perché l’eredità si riceve con la morte del genitore. Dio, che invece è ben vivo, non pensa alla propria eredità, al suo patrimonio. Non si offende quando un figliolo lo dà per «morto» e gli chiede la propria parte di patrimonio, per cui non pensa neanche al suo onore. Con tristezza lo vede partire da casa, ma non lo dimentica mai. Questo figlio irriconoscente potrà sempre tornare a casa senza alcun timore, e questo padre (che difficilmente esiste sulla terra) accoglierà a braccia aperte quei figli che vagano «perduti», e perfino supplica anche quelli che gli sono formalmente fedeli perché anch’essi imparino ad accogliere tutti (anche quelli che non lo meritano) con amore [9]. Da notare, in effetti, che neanche il figlio più grande viene sgridato, né riceve ordini; semplicemente viene supplicato. In altre parole, siamo davanti a un Dio che non tiene in minimo conto il proprio onore, e quindi è esattamente l’opposto del Dio descritto da Paolo che, essendosela legata al dito, pretende il sacrificio di sangue del proprio figlio innocente per soddisfare il suo smisurato senso di onore. Questa parabola toglie ogni appiglio alla dottrina dell’espiazione proclamata da san Paolo. Del resto, l’espiazione, al posto della misericordia, andrà forse bene in un freddo rapporto giuridico, ma non certamente in un caldo rapporto d’amore, come quello che questo padre-madre (Dio) dimostra verso i figli.
Dunque, cosa fa il figlio più piccolo? Va lontano dopo aver tramutato i beni in denaro contante, dimostrando gran fretta di “avere” e in poco tempo riesce a dissipare tutto in terra pagana (di per sé già impura), dimostrandosi un amministratore incapace. Ha puntato tutto sui soldi. Ora, senza denaro non è più nessuno, per cui deve andare a fare il guardiano di porci, animali impuri per eccellenza: impuro fra gli impuri, bestia fra le bestie. Ha lasciato il padre per trovare alla fine un vero padrone,[10] il padrone dei porci. A quel punto la fame lo fa ragionare: non gli manca il padre, gli manca il pane[11]. Sa che anche i servi sono ben trattati e ben nutriti nella casa del padre; sa anche che avendo avuto la sua parte di eredità, considerando il padre come morto, non può tornare ad essere suo figlio; ma come suo servo avrà almeno da mangiare a sufficienza. Quindi torna per interesse e, sapendo di averla fatta grossa, per addolcire il padre si prepara l’atto di dolore (Lc 15, 18: «padre, ho peccato contro il cielo e contro la terra e non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati): va rimarcato che nel racconto, non c’è traccia di alcun pentimento, non c’è alcuna conversione,[12] ma solo uno scaltro calcolo utilitaristico[13].
Il padre lo vede da lontano: significa che era in attesa e, al contrario del figlio, non aveva mai dato il figlio per morto. Gesù ci sta dicendo che Dio, col peccatore, si comporta come quel padre misericordioso che scruta sempre l’orizzonte, aspettando il ritorno del figlio (Lc 15, 20) Ha sempre aspettato fiducioso, come quel padrone che, di fronte all’albero che non dà frutti, anziché abbatterlo preferisce ancora zappettare attorno alle radici (Lc 13, 8) e attendere fiducioso. Dunque il padre gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia, quando nella mentalità orientale era assai disdicevole che un superiore si mettesse a correre incontro all’inferiore. Quindi a Dio non importa perdere di nuovo il suo onore, con quella corsa, dopo aver dato in anticipo il suo patrimonio al figlio. Questo comportamento scandaloso, per la cultura di allora, a differenza della costruzione teologica di Paolo, dice chiaramente che Dio accetta tranquillamente l’uomo peccatore, visto che gli corre perfino incontro, e non aspetta che il peccatore si avvicini in ginocchio invocando umilmente il perdono.
La Chiesa continua a chiedere umilianti confessioni e sacrifici per ottenere il perdono. Sembra che invano Gesù abbia ripetuto più volte: “misericordia voglio, non sacrifici” (Mt 9, 13; Mt 12, 7). Se Gesù non chiede mai agli uomini di fare penitenza, non chiede mai di fare un digiuno religioso, di fare sacrifici, ovviamente richiama un’immagine di Dio che corrisponde a quella dei profeti, mentre volge le spalle al dio legislatore dei sacerdoti, che è anche quello di Paolo, perché sostiene che Dio è amore e l’amore si esprime solo attraverso opere che comunicano vita.
Il bacio, poi, è biblicamente il simbolo del perdono (Gn 33, 4). Secondo la religione, l’impurità del figlio avrebbe dovuto trasmettersi al padre; con queste poche parole Gesù ci fa invece capire che non occorre essersi purificati per avvicinarsi al padre, e che il perdono viene dato prima che il figlio cominci l’atto di dolore. Il figlio, dopo il bacio, comincia a snocciolare – senza essersi pentito – l’atto di dolore, ma il padre lo blocca, non lo lascia finire,[14] non vuole che si autoaccusi, che si umili con una confessione[15]. Dio non chiede la previa confessione per dare il suo perdono. Questo lo chiede la Chiesa: infatti quando mai un prete in confessionale ha bloccato il penitente impedendogli di terminare la confessione, prova dell’avvenuto suo pentimento?
Per di più, questa idea di un Padre così misericordioso e amorevole, il quale non pretende che questo figlio scapestrato si presenti davanti a lui solo dopo essersi lavato e purificato, stride con l’idea del purgatorio presentataci dalla Chiesa cattolica[16]. Certo, l’idea del purgatorio è comprensibile perché soddisfa la nostra richiesta di una giustizia che prevede una espiazione per chi ha commesso il male su questa terra senza essersi compiutamente purificato prima di morire. Ma la parabola, che sembra indicare l’inverso, dimostra che non sappiamo niente di sicuro su questo tema.
Poi va aggiunto che questo padre (Dio), dopo aver rifiutato di sentire ogni giustificazione dal figlio, gli fa:[17]
- portare subito un abito nuovo e di lusso: l’abito è il simbolo dell’onorevolezza. Il faraone, quando ha riabilitato Giuseppe, lo ha rivestito di abiti (Gn 41, 42). Dio restituisce la dignità al peccatore, e non vuole umiliarlo.
- Gli dà l’anello, reintegrando nell’amministrazione della casa; proprio a lui che si era dimostrato un amministratore chiaramente incapace. Il faraone, quando ha riabilitato Giuseppe, si toglie e gli consegna l’anello perché amministri il suo regno (Gn 41, 42). Dio concede piena fiducia al peccatore, senza nessuna garanzia per il futuro, e senza prima metterlo alla prova per essere convinto che si è ravveduto.
- Gli fa mettere i sandali. I servi giravano scalzi. Il figlio, ormai servo del padrone dei porci, girava scalzo. Il padrone aveva i calzari. Quindi il padre lo riaccoglie come figlio non come servo, come persona pienamente libera. Dio non vuole servi, ma persone libere.
- infine si festeggia tutti assieme questo ritorno che il padre ha atteso tanto a lungo. Dio non chiede offerte, purificazioni, penitenze, sacrifici. Dio non chiede, dà. Si fa festa assieme.
Secondo il papa emerito[18] tutti questi sono piccoli dettagli senza importanza: sinceramente non mi sembra affatto che sia così, perché solo valutando ad uno ad uno tutti questi elementi della parabola si capisce come viene completamente rovesciato l’insegnamento ufficiale della Chiesa in punto perdono dei peccati. Il Dio di cui ci parla Gesù accoglie, perdona e fa festa col figlio ritrovato, senza chiedergli nessun sacrificio, nessuna giustificazione, nessuna penitenza, e senza neanche rimproverarlo. Non sembra avvertire neppure la necessità di manifestargli il suo perdono. Non ce n’è bisogno. Non ha mai smesso di amarlo. Il Dio di Gesù è per l’appunto quello che “fa sorgere il sole sui cattivi come sui buoni, che fa piovere sui giusti come sugli ingiusti” (Mt 5, 45), per cui è infondata l’affermazione di Paolo secondo cui Gesù è morto per gli uomini ingiusti (Rom 5, 6), per gli empi peccatori (e siccome siamo tutti peccatori è morto anche per noi)[19].
Certo che un simile padre ricorda più una madre umana che un padre umano:[20] è difficile immaginare un padre terreno talmente accogliente che, di fronte a scelte così avventate e disastrose di un figlio, gli corra incontro e faccia finta che tutti i “casini” in cui il figlio stesso si è cacciato volontariamente siano irrilevanti. Ma proprio così, secondo il vangelo, si comporta Dio-Padre, mentre un padre umano direbbe più facilmente al figlio: “Cosa ti avevo detto? Così la prossima volta te ne ricordi!” e poi magari lascia anche che si arrangi da solo.
Dobbiamo però renderci conto che anche ai tempi di Gesù un’idea di un padre così era inaccettabile; era scandalosamente diversa e pericolosa perché tendente a sovvertire l’intera struttura sociale di allora fondata proprio sul principio di autorità del padre, capo indiscusso della famiglia. Quindi per la religione ufficiale di allora Gesù era un sovversivo eretico perché stava offrendo un’immagine di Dio completamente diversa da quella che veniva insegnata dalla religione ufficiale[21]. Gesù ci ha offerto l’immagine di un Padre (Abba) amorevole e misericordioso, che ama incondizionatamente e gratuitamente, in contraddizione con l’immagine di un Dio censore e giudice severo che incute paura, che soppesa freddamente ogni azione di ogni singola persona. Con Gesù tutto questo è finito. Ecco l’insegnamento nuovo: Gesù non è il servo obbediente di Dio, ma è il figlio di Dio, non per i miracoli e dimostrazioni di poteri divini, ma per la fiducia in Dio e la fedele esecuzione della sua volontà. Lui non impone, volendo che tutti siano liberi; offre e propone un’alleanza non tra dei servi e il loro padrone, ma tra dei figli e il loro padre.
Quando Gesù, anziché giudicare, condannare e castigare, accoglie e va a pranzo con tutti i peccatori (Lc 15,1-2), già scandalizza tutti i ben pensanti, ma con la parabola del figliol prodigo chiarisce che proprio così si comporta Dio (Lc 15, 11-31), perché al pari di questo padre misericordioso anche Dio non chiede pentimenti o penitenze perché non gl’interessa giudicare, ma aprire un futuro di vita. Eppure le persone pie e religiose (allora, come oggi) non accettano una simile immagine di Dio, così lontana da come un vero Dio onnipotente dovrebbe essere.
Ma non basta, perché non solo in questa, ma anche in altre parabole (ad esempio, quella della pecora perduta, della moneta perduta - Lc 15, 1-10), Gesù insiste nello spiegarci che il Padre non guarda ai peccatori come gente perversa che va allontanata, ma come qualcosa di molto amato che si è perso, e quando viene ritrovato si festeggia. Il Dio di Gesù non giudica, non respinge, non censura e non rinfaccia nulla a nessuno, ma accoglie e se si vede accettato si rallegra. Quindi esercitare il potere di condannare, allontanare, escludere chi si comporta in modo contrario alla morale cristiana, da parte di persone che si reputano rappresentanti di Dio, significa comportarsi all’opposto del Dio indicato nella parabola evangelica, significa tradire la Buona Novella e tradire Gesù. A me, questo sembra piuttosto chiaro, e non mi percepisco come eretico se penso così.
Vuoi vedere che aveva ragione il concilio Vaticano II a dire che nella genesi dell’ateismo attuale possono aver avuto non piccola parte proprio i credenti che ci hanno presentato un’immagine assolutamente inadeguata di Dio[22]? Stiamo parlando di quei credenti che vogliono il Dio tremendo della religione, che ci ama solo se lo meritiamo dopo aver fatto tanti sacrifici.
Per concludere, un’ultima importante annotazione: la parabola – si è detto all’inizio - è indirizzata a tutti coloro che si ritengono i figli maggiori, a coloro che pensano di dover meritare l’amore di Dio. Luca, infatti, non chiude la parabola con la festa, dove tutti sono gioiosamente riconciliati con un happy end (una fine gioiosa); chiude con un pugno al nostro fegato. Infatti aggiunge che c’era il figlio maggiore che stava nei campi a lavorare. Quando torna a casa e da lontano sente gli schiamazzi allegri della festa si fa sospettoso, e quando poi viene a sapere dal servo che ha mandato in avanscoperta che la festa è per il fratello ritornato, è preso da sacra e furiosa indignazione. Non vuole proprio entrare a far festa. Non siamo davanti alle altre 99 pecore che non capivano neanche perché il loro pastore se n’era andato lasciandole sole, o alla monetina persa incapace di pensare. Qui è il figlio che ha ricevuto lo stesso trattamento dell’altro: quell’altro ha buttato via la sua vita, tanto da dover ammettere di non poter essere più chiamato figlio. Il figlio più grande, invece, che è rimasto col padre, si sente ormai come l’unico vero il figlio: “ti ho servito tutta la vita in obbedienza, ho lavorato sodo, sono sempre stato con te, e non mi hai dato mai neanche un capretto per far festa[23]; questo tuo figlio (non mio fratello) ha buttato via la vita[24] e tu gli fai festa: non è giusto!” Ecco la mentalità farisaica, il lievito dei farisei: il figlio maggiore vede sé stesso come il buono, perché è stato ligio alle regole; è anche orgoglioso di esserlo e perciò disprezza il fratello perduto[25]. Vi rendete conto dell'attualità della parabola? E, sotto sotto, non abbiamo sempre pensato che questo figlio maggiore ha ragione, e che quello minore era uno stronzetto che non meritava il perdono?
Il Vangelo di Luca è a finale aperto, non ci dice se alla fine il figlio maggiore è entrato e si è seduto a tavola col fratello minore, impuro peccatore. La storia rimane in sospeso perché questa è una storia raccontata per noi, oggi, magari convinti di essere veri credenti e veri seguaci di Gesù, mentre lui ci fa capire che non lo siamo affatto. Noi, ferrei osservanti delle regole religiose, rispettosi dei diritti di Dio, che credevamo di essere i pastori che correvamo dietro alla pecorella smarrita, ci troviamo improvvisamente ad essere paragonati al fratello maggiore che si arrabbia di brutto perché il papà (Dio) fa la festa per quell’individuo che ha buttato via la sua vita[26]. Tocca a noi scegliere se entrare a unirci alla festa o disdegnarla. Dio ci considera adulti, per cui affida alle nostre mani le decisioni più importanti della nostra vita.
Dunque Luca chiude questo quadretto, scritto duemila anni fa ma attualissimo anche oggi, dove c’è tanta festa, ma dove forse c’è anche uno che non è entrato a mangiare insieme a suo fratello. Per noi, che ci consideriamo già invitati, forse sarebbe meglio non chiudere questa parabola riempiendoci la bocca soltanto della misericordia del Padre, del suo grande amore che perdona il figliol prodigo, ma fare un passo ulteriore e chiederci cosa ce ne facciamo noi di questo grande amore; noi che non crediamo di aver bisogno di conversione, perché siamo già bravi cristiani. Ancora oggi Luca interpella tutti noi e ci chiede con chiarezza: cosa stiamo facendo della vita che nostro Padre ha dato a noi e a tanti fratelli nostri, che forse disprezziamo, che forse vorremmo restassero fuori di una casa che deve essere aperta soltanto per noi, lontani da un tavolo dove solo noi abbiamo scontatamente il diritto di sederci perché siamo i migliori; e se ci sono gli altri, preferiamo non sederci[27]. Non sarà che forse oggi stiamo affrontando il problema degli immigrati, o degli omosessuali, come il fratello maggiore della parabola? C’è allora da trarre una conclusione inevitabile: qui, il vangelo ci sta dicendo che se alle nostre tavole, se nei nostri altari non c’è posto per gli ultimi, per i peccatori impuri, per gli stranieri, per gli omosessuali, per i divorziati risposati, Gesù non si siede in mezzo a noi, anche se continuiamo a credere di essere gli unici suoi invitati[28].
Vogliamo ridurre il tutto a uno slogan? Dio ha chiesto agli ebrei di essere d’esempio al mondo in tre cose: onestà, moralità e compassione[29]. Forse basterebbe osservare queste tre qualità anche per essere buoni cristiani, perché la cosa fondamentale è il comportamento dell’uomo verso l’uomo[30]. In altre parole, il tragitto della storia umana dovrebbe far diventare l'uomo sempre più umano. Questo tragitto è alimentato dalla forza creatrice di Dio. Chiunque accoglie questa forza creatrice, diventa figlio di Dio come Gesù, e quindi può dirsi cristiano.
(continua)
NOTE
[1] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 93s.
[2] Riportato in Madre nostra dove se nei cieli?, in “La Repubblica”, 43.
[3] E l’acquasantiera, nelle nostre chiese, è un chiaro retaggio di questa idea, secondo cui, per avvicinarsi al sacro, occorre purificarsi.
[4] L’uomo doveva amare e servire Dio; cfr. ancora n. 358 del Catechismo, nonché Messaggio per l’Avvento del vescovo Crepaldi di Trieste, novembre 2022, p.7.
[5] Neanche il papa emerito ci ha spiegato perché questo fratello maggior vede solo l’ingiustizia nel benevolo trattamento de fratello minore (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 242ss.).
[6] Se il volto di Dio corrisponde al Padre misericordioso descritto da Gesù in questa parabola, ci troviamo davanti a un Dio follemente innamorato dei due figli che invece non lo amano; ciononostante questo Dio è capace di deformare la Legge pur di lasciar libero il figlio più piccolo (in nessun ordinamento l’eredità va al figlio erede finché il padre è in vita) di andarsene e cercare una sua strada; e non lo rimprovera neanche quando torna a casa per interesse (ha fame) senza essersi pentito.
[7] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2011, 179s.
[8] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi,1989, 98.
[9] Pagola A., omelia su Luca 15, 11-32, in data 15 sett. 2019.
[10] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 64.
[11] Idem, 65.
[12] Così, invece, Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 242 ss. Così anche Cenci A.M. La confessione, ed. Gribaudi, Milano, 1996, 28.
[13] Tettamanzi D., Il Vangelo cambia la vita, “Famiglia Cristiana”, n. 10/2013, 13.
[14] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 70. Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2011, 179.
[15] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 243, afferma invece che il padre ascolta la confessione del figlio. Ma leggiamo Lc 15, 18-19 e poi 15, 21-22: la confessione viene troncata; il padre non la vuol sentire, tant’è che il figlio non riesce a dire di voler essere trattato come uno dei servi.
[16] I protestanti (che non credono nel Purgatorio) hanno sempre affermato che l’esistenza di un luogo ultraterreno di purificazione sia stata un’invenzione della Chiesa medioevale.
[17] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 69ss.
[18] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 244.
[19] E anche di Giovanni è di questa idea (1Gv 2, 2): Gesù è la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche quelli di tutto il mondo.
[20] Si spiega perché il padre misericordioso del quadro iniziale ha una mano di maschio e l’altra di femmina.
[21] Anche Talete e Socrate avevano subito un processo e una condanna per empietà, allora considerato reato gravissimo, perché non riconoscendo le divinità tradizionali si corrompeva in particolare la gioventù, più facilmente influenzabile con idee nuove. C’è da dire che né Talete né Socrate erano atei; semplicemente non erano allineati con quello che insegnava la religione ufficiale. Perciò si contestava agli accusati di causare con le loro idee diverse una ferita al comune sentimento religioso, nonché un allontanamento dagli usi e costumi consolidati nel tempo. Potere religioso e politico, che all’epoca formavano un tutt’uno, non potevano tollerare questo uscire dal tracciato, perché si veniva a creare un turbamento dell’ordine costituito, si minacciava l’identità del popolo corrompendolo col rischio di arrivare al sovvertimento della società.
Si vede allora come neanche il clero ebraico avesse inventato nulla di nuovo con Gesù, vedendolo come un disturbatore che distoglieva il popolo dalle pratiche del culto ufficiale del Tempio e come un sovvertitore che metteva a rischio la sottomissione e l’obbedienza passiva del popolo-gregge ai pastori, legittimi rappresentanti di Dio. E l’intolleranza contro persone di grande profondità spirituale, ma non omologate, è continuata nella nostra Chiesa: a partire dal vescovo Cirillo che aveva aizzato i suoi fedelissimi ad ammazzare Ipazia, la più grande scienziata del IV secolo; pensiamo al rogo di Giordano Bruno del 1600, e alla riduzione allo stato laicale dell’abate Franzoni in tempi assai più recenti, nel 1976. C’è da dire – ad onore della Chiesa, - che non si ricorre più all’omicidio, ma il dissenso fa ancora fatica ad essere accettato.
[22] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes § 19 – del 7.12.1965.
[23] La parabola ribadisce che la persona religiosa, obbediente, non è figlia di Dio, ma lo serve; resta immatura e capace solo di obbedienza non ragionata: il figlio più grande (Lc 15, 29) non ragiona, tutto preso com’è dall’osservanza della legge, per cui non capisce che il capretto era ormai suo, e vanifica così l’eredità che pure lui ha ricevuto, al pari del fratello scapestrato.
[24] In italiano si parla di patrimonio, ma il termine greco è bìon, vita.
[25] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2011, 179s.
[26] Gallazzi S, Cap 14 e 15 il tavolo al quale ci sediamo o no: in https://www.youtube.com/watch?v=zkNl2EX0iMk&feature=youtu.be
[27] Gallazzi S, Cap 14 e 15 il tavolo al quale ci sediamo o no: in https://www.youtube.com/watch?v=zkNl2EX0iMk&feature=youtu.be
[28] Ibidem.
[29] Berger M., Il giardino della luce, ed. Piemme, Milano, 2011, 106.
[30] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 60.
Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/