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Qual è il Dio vero?


di Dario Culot

Tutte le religioni parlano di Dio, ma, per il cristiano, Dio tace nelle altre religioni e parla esclusivamente nella sua, sì che solo il cristianesimo è l’unica vera religione. Esattamente lo stesso identico discorso lo fa, però, anche l’ebreo, e lo fa anche il musulmano, e poi lo fanno chissà quanti altri fedeli di altre religioni. E allora, come la mettiamo?

Nella pièce teatrale Nathan il Saggio, Saladino pone all’ebreo Nathan, detto il saggio, la domanda delle domande: qual è la fede o la religione più convincente di ogni altra?[1]

“Sultano, io sono ebreo” cerca di prender tempo Nathan.

“E io sono musulmano” gli risponde Saladino. “E fra noi c’è pure un cristiano. Ma di queste tre religioni che pretendono di essere le uniche vere ovviamente una sola può essere quella vera. Quale?” Saladino gli lascia un po’ di tempo per pensare, e quando torna vuole una risposta. Nathan deve dimostrare di meritare la fama di saggio, e quando Saladino torna gli racconta questa storia.

C’era una volta, in Oriente, un uomo che possedeva un anello la cui pietra aveva un potere segreto: rendere gradito a Dio e agli uomini chiunque portava la gemma con fiducia. Egli lasciò l’anello al suo figlio più amato; e questo passaggio si ripeté di generazione in generazione, senza mai tenere conto della nascita ma solo della forza dell’anello. Un giorno l’anello giunse a un padre di tre figli. Egli li amava tutti esattamente allo stesso modo, per cui promise l’anello a tutti e tre. Ormai vicino alla morte, il padre si trovò in serio imbarazzo. Non sapeva come fare. Alla fine ebbe un’idea: chiamato in segreto un gioielliere fece fare due copie dell’anello che erano talmente perfette che neanche il committente riusciva più a distinguere l’originale. Allora chiamò i figli ad uno ad uno, li benedisse e ad ognuno diede un anello. Poi morì.

Saladino interrompe il racconto dicendo che se tre gemme possono apparire uguali, le tre religioni sono talmente diverse che si possono distinguere persino nelle vesti, nei cibi, nelle bevande. “Ma non nei principi fondamentali,” replica Nathan. Non nei principi di spiritualità. Il problema è che ogni religione interviene poi con delle definizioni, ed ogni definizione è necessariamente un limite. Maggiore è la definizione, più dettaglio si dà alla forma, e maggiore è la lontananza rispetto al principio. Non solo. Mentre il principio è immutabile e non ha limiti, quello che si riesce a cogliere del principio è sempre limitato, per cui può sempre cambiare. Il principio cioè non cambia, ma può cambiare il modo d’intenderlo.

In effetti, quando, nel 1219, San Francesco è andato in terra santa, si è ritrovato col sultano d’Egitto sui principi, perché l’universalità porta alla pace, mentre la particolarità porta al conflitto. Se avesse cominciato a dire che bisognava accettare il dogma della Trinità gli avrebbero tagliato la testa. In questo senso si può dire che, anche quando tutte le religioni riconoscono un solo Dio, questo stesso Dio unisce, ma anche divide. Il saggio ebreo allora, per dar maggior peso al suo racconto, aggiunge: “non si fondano tutte le religioni sulla storia scritta o tramandata? E la storia non è accettata solo per fede? E di quale fede dubiteremmo? Quella dei nostri avi, sangue del nostro sangue, quella di coloro che dall’infanzia ci diedero prova del loro amore, e che mai c’ingannarono, se l’inganno per noi non era salutare? Può uno credere ai suoi padri meno che a quelli degli altri? O viceversa? La stessa cosa vale per i cristiani, gli ebrei e i musulmani. E allora, come si fa a dire qual è l’unica vera religione?”

Ma Saladino, per quanto d’accordo su tutto questo, non si accontenta e vuole una risposta più precisa e univoca; e allora Nathan continua la sua storia:

I figli si accusarono reciprocamente in giudizio; ognuno era certo di non essere stato ingannato dal padre, per cui l’ingannatore doveva essere necessariamente l’altro fratello.

Il giudice disse: “voi dite che l’anello vero ha il magico potere di rendere chi lo porta amato, gradito a Dio e agli uomini? E allora sia l’anello stesso a decidere. Su ditemi: chi di voi tre è il più amato dagli altri?” Tutti e tre i fratelli non sapevano che dire e stavano in silenzio. “Voi tacete? Questo vuol dire che ciascuno di voi ama solo sé stesso. Allora tutti e tre siete dei truffatori che sono stati a loro volta truffati. Probabilmente l’anello vero si perse e vostro padre ne fece tre per celare la perdita.

Allora come giudice non emetto alcuna sentenza, ma vi do solo un consiglio. E il mio consiglio è questo: accettate le cose come stanno. Ognuno si comporti come se fosse sicuro che il suo anello è quello autentico. Vostro padre non volle umiliare due di voi per favorire il terzo. Sforzatevi allora di imitare il suo amore senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare davanti a tutti la superiorità della gemma dell’anello che ha ricevuto. E aiuti la sua virtù con dolcezza, con indomita pazienza, amore e con profonda devozione a Dio. Quando le virtù degli anelli appariranno nei nipoti e nei nipoti dei nipoti, fra mille e mille anni, solo allora si potrà tornare davanti al giudice e ottenere una sentenza che dica qual è la gemma autentica.

La storia di Nathan sul giudice saggio, pensata da un protestante tedesco nel ‘700, resta sempre attuale: bisogna guardare al comportamento, a come uno vive, a cosa una fa, non a cosa uno dice di credere («Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello»:[2] cioè mostri ognuno col suo comportamento l’autenticità e superiorità della propria gemma, della propria religione), perché le parole sono tante come le foglie, mentre solo le opere sono frutti (1Cor 4, 20), proprio come nella parabola del fico maledetto (Mc 11, 12-20), che se non spiegata adeguatamente ci fa prendere Gesù per uno fuori di testa[3].

Le affermazioni di principio, le più ardite dottrine fondate sulle sole parole, magari roboanti, oggi non incantano più nessuno se non sono accompagnate da fatti sinceri, da gesti concreti. Per questo, forse, le mere formule dottrinali della fede cristiana non sono più uno strumento adatto alla trasmissione della fede, che passa da esperienza ad esperienza,[4] e non da una formulazione dottrinale a un’altra. La fede va cioè trasmessa per contagio, non scolasticamente attraverso l’istruzione, perché nessuna spiegazione può sostituire l’esperienza diretta. Che l’esperienza dell’uomo sia più importante di qualunque dottrina, di qualunque dogma lo afferma da sempre il vangelo, dove si vede che l’amore del Padre non si manifesta mai nella dottrina, ma si dimostra solo nella vita[5]. Anche il sufismo,[6] in perfetta sintonia col vangelo, afferma che la via verso Dio è la conoscenza sperimentale.

Lo stesso Gesù ha parlato di vino nuovo in otri nuovi (Mc 2, 22), per farci capire che l’omogeneità, conseguente all’obbedienza di fronte all’insegnamento del magistero, non è la soluzione. Niente da fare! il magistero continua a imporre il suo insegnamento. Inutilmente aveva ammonito il Cardinal Tonini che la gente ha bisogno di vedere preti che ci credono, non di preti che insegnano. L’insegnamento deve venire dalla vita, non dai libri di teologia. Il prete che parla deve ricordarsi di essere un testimone, non un insegnante, per cui non conta tanto la verità di quel che dice, ma se quel che racconta riflette la sua vita[7]. Già millenovecento anni fa il Vangelo di Giovanni aveva affermato la supremazia della propria esperienza e quindi della libera coscienza sull’autorità dottrinale del magistero docente:[8] nell’episodio del nato cieco, dopo che questi aveva riacquistato la vista grazie al “peccatore” Gesù, il quale aveva operato di sabato in violazione della Legge, i capi religiosi hanno fatto pressione sull’ex cieco affinché desse adesione al dogma del riposo del sabato: «Da’ gloria a Dio! noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (Gv 9, 24). Ma anche se il magistero di allora – come al giorno d’oggi papa Benedetto XVI,- non accetta opinioni diverse da quelle ufficiali e pretende che nessuno possa andare contro la verità di un suo enunciato dottrinale,[9] il guarito risponde in base alla sua esperienza senza entrare nel campo dottrinale e ribatte «Se sia peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9, 25), cioè: “io di leggi e di teologia non capisco niente, ma so che prima non ci vedevo, mentre adesso ci vedo, per cui, per me, va bene così” (Gv 9, 25). Ogni magistero, ancora oggi, va normalmente avanti con le sue certezze dogmatiche, con la sua verità, certo che essa corrisponda alla realtà effettiva; ma di fatto si disinteressa della realtà: «noi sappiamo» e altro non gli interessa; «noi sappiamo» e siamo stati costituiti da Dio per essere maestri per gli altri. E per difendere il proprio sistema teologico si preferisce by-passare la realtà della guarigione. Di più: per glorificare il proprio dio che è interessato solo all’osservanza della Legge, non ci si cura della sofferenza degli uomini. Il cieco guarito ha invece sperimentato sulla sua pelle la misericordia di Dio,[10] facendosi a quel punto una sua idea su Dio e dalla sua esperienza trae le conclusioni: «una cosa io so», infischiandosene del rapporto inscindibile fra peccato e Legge che sta tanto a cuore al magistero: «Se sia peccatore, non lo so». L’esperienza concreta dell’uomo è più importante di qualunque verità dottrinale fatta scendere dall’alto. Infatti la luce viene comunicata al cieco attraverso un’esperienza, non attraverso una dottrina. Invece per i sacerdoti, essere da Dio dipende dall’osservanza della Legge divina, quando per Gesù essere da Dio dipende dall’amore per l’uomo (Gv 9, 1ss)[11]. Si può dire che, guarendo il cieco, Gesù lo ha liberato dall’oppressione religiosa, mentre chi è sottomesso non conosce alternative[12].

Ma per fare questo Gesù ha veramente peccato come riteneva il magistero docente di allora? “Certamente no!” replicherà inorridito il cattolico tutto d’un pezzo di fronte a un’ipotesi così blasfema. “L’ha detto anche il papa[13] che Gesù è uguale in tutto all’uomo tranne che nel peccato” (Eb 4, 15). Eppure la risposta dipende solo da cosa s’intende per peccato: se per peccato intendiamo la trasgressione alla legge divina come chiaramente precisava il n.951 del Catechismo di san Pio X e come tuttora precisa il n.1855 dell’attuale Catechismo, è evidente che Gesù è stato un grande peccatore; di ciò, del resto, era fermamente convinto il magistero del suo tempo (Mc 2, 6; Gv 9, 26). Le autorità religiose di tutti i tempi vanno sempre avanti con certezze dogmatiche: «Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Perché? La risposta è facile: perché ha violato gravemente la legge divina del riposo del sabato che Dio in persona osserva[14]. E questo lo sanno perché Dio stesso lo ha rivelato nella Bibbia. Quindi, con questa violazione Gesù ha offeso Dio. Le autorità religiose non sono mai sfiorate da dubbi, che liquidano frettolosamente con l’etichetta spregiativa di “relativismo,” e sono sempre convinte di essere la luce dei ciechi; invece, dice il vangelo, queste autorità non si rendevano conto che la loro cieca ideologia[15] le rendeva a loro volta guide cieche (Lc 6, 39). Ma non è cambiato molto nel corso dei secoli: il catechismo di Pio X definiva peccato mortale una trasgressione della legge divina, per la quale si manca gravemente ai doveri innanzitutto verso Dio; ancora nel 1950 il peccato in genere era ritenuto un’offesa a Dio e si condannava chi cercava di modificare questo concetto[16]. E l’attuale Catechismo come definisce il peccato? Seppur con molte più parole rispetto al Catechismo di Pio X che aveva il grande pregio di essere chiaro e sintetico, continua a definire il peccato come una parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna (n.1849), o una violazione grave alla legge divina (n.1855), ed essendo diametralmente opposto all’obbedienza di Gesù è un’offesa a Dio (n.1850). Qui qualcosa non quadra: abbiamo appena visto che Gesù ha disobbedito alla legge divina, e quindi ha offeso Dio; allo stesso tempo il magistero ci insegna che egli è senza peccato, ma anche che il peccato è un’offesa a Dio. Come si scioglie questa evidente contraddizione? Se Gesù non è peccatore la definizione di peccato non può essere quella che continua a fornirci il magistero[17]. Deve essere cambiata. E non mi si venga a dire che Gesù non ha peccato perché quelle violazioni riguardavano la legge ebraica: Gesù, col cieco, ha violato il terzo comandamento (ricordati di santificare le feste), riportato pari pari nel nostro cristianesimo, tanto che se uno non va a messa di domenica commette peccato mortale ancora oggi, secondo l’insegnamento del magistero odierno.

Quanto fin qui detto è comunque sufficiente a dimostrare come la dottrina cattolica sia ancora tenacemente ancorata al giudaismo sul piano dell’obbedienza alla legge divina così come insegnata dal magistero (n.1269 Catechismo), e come non sia stato ancora sciolto il nodo fra teoria e pratica, per cui anche se teologicamente il cristianesimo ha preso le distanze da una visione religiosa che si esaurisce nelle norme, di fatto, però, non è riuscito a staccarsene, rimanendo abbarbicato all’osservanza dei precetti; c’è stato l’ultimo concilio, ma ancora fatichiamo per realizzarlo, perché il dogma e la legge ancora prevalgono.

Invece, se concordiamo sul fatto che l’esperienza è più importante del dogma, compito di ogni religione e della nostra Chiesa dovrebbe essere, allora, quello di introdurre a un’esperienza concreta di Dio, non di parlare di Dio in senso metafisico; la preoccupazione dovrebbe essere per il caso concreto che si ha davanti agli occhi, non per gli alti principi metafisici astratti[18]. Nella religione cristiana, poi, questa esperienza dovrebbe indurre ad imitare il Padre misericordioso che ci è stato manifestato da Gesù. Lo stesso papa emerito sembra di quest’idea quando riconosce che Gesù non ha redento il mondo con le parole (con l’insegnamento), e solo chi spende la sua vita nel mondo può fornire un modello di nuova vita,[19] diventandone testimone. La vita non serve per conservare i dogmi così come si surgelano le cose in frigorifero, ma è da spendere per qualcosa che merita. La nostra Chiesa, allora, dovrebbe semplicemente diventare fonte d’acqua fresca per ogni viandante che vi transita, da qualunque strada arrivi, in qualunque luogo sia poi diretto, senza porsi come bacchettona di etica per l’umanità.

Ma soprattutto, da cristiani, non dovremmo più domandarci qual è il nostro rapporto con quel Dio trascendente lontano nei cieli che detta regole valide per tutti, ma qual è il nostro rapporto con gli altri uomini che incrociamo qui in terra, nei quali possiamo incontrare Dio, perché solo di questo possiamo fare esperienza diretta. Non dobbiamo cioè pensare che, se Dio si trova solo al di là, in un altro livello di realtà separata completamente dalla nostra realtà immanente, non avremo mai alcun contatto con Lui. Se così fosse, se Dio fosse incapace di comunicare e agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di dare quella felicità che promette. I cristiani confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale; amore che è incontrabile,[20] concretamente incontrabile nella relazione con altri uomini. La solitudine, magari per dedicarsi alla preghiera, ma che rifiuta gli altri e la comunità, non porta ad alcun incontro con gli altri, e quindi neanche con Dio[21]. Ma se incontriamo Dio negli altri non c’è neanche più bisogno di andare al Tempio per incontrarlo. Nella Bibbia (Es 26; Lv 26,11; 1Cr 17, 5) Yhwh si era fatto dapprima costruire una tenda per dimorare in mezzo al suo popolo; in seguito la sua casa era diventata il Tempio di Gerusalemme[22] (Zc 8, 3). Con Gesù, Dio abbandona il Tempio e pone la sua tenda fra di noi (Gv 1, 14), in ogni singolo uomo che amerà come lui ha amato (Gv 14, 23), sì che ogni suo seguace diventa una dimora divina (1Cor 3, 16): ogni uomo è un santuario di Dio; non lo è più, invece, l’edificio chiesa. Il Dio che entra nella storia attraverso l’incarnazione (umanizzandosi) rende inutile qualsiasi rivestimento sacrale, perché d’ora innanzi il divino è accessibile senza alcuna mediazione. Per la religione, l'uomo profano deve essere sottomesso all'uomo sacro, sì che è il sacro che ha creato una frattura nella realtà. Invece il bene dell’uomo, non il bene del Tempio, non l’osservanza della legge, non l’obbedienza all’uomo sacro diventa il punto focale: tutto ciò che concorre al bene di quell’uomo concreto che si ha lì davanti può essere fatto e va fatto, a prescindere da quello che dice la legge (divina o meno). Tutto ciò che accresce la dignità dell’uomo[23] è bene dell’uomo, e il bene dell’uomo è l’unico valore non negoziabile del cristianesimo. I sacerdoti di allora, e tanti pii credenti di oggi, sono convinti che i diritti di Dio siano il primo valore del cristianesimo. In altre parole, pensano esattamente come pensano gli integralisti dell’islam, che ci fanno tanta paura.

Pur vivendo una relazione intensa con il Padre del cielo, Gesù non ha mai inserito questa relazione nell’ambito del sacro, bensì l’ha vissuta nella laicità, nel profano, fra la gente che la religione escludeva e rigettava, mostrando che Dio agisce così nel mondo. Ribadisco allora questo concetto che mi sembra fondamentale: la presenza di Dio non si realizza nella sacralità, bensì nella laicità, in ciò che è comune a tutti, siano credenti o meno, anche a prescindere dalla religione che professano[24]. Chi legge i vangeli non è abituato a fermarsi a pensare che in quelli mai si menziona che Gesù abbia organizzato atti religiosi o assemblee di culto sacro.

Per i sacerdoti di allora, Dio lo si incontrava nel Tempio, nel luogo sacro. Gesù dice invece che lì Dio non c'è: con la parabola del fico maledetto che s’inaridisce, Gesù chiarisce intatti che, se si elimina il culto, il Tempio finisce (Mt 21, 18-22; Mc 11, 12-14). Il Tempio di Gerusalemme escludeva di fatto dall’azione di Dio le persone che secondo la cultura dell’epoca non erano degne di avvicinarsi: ad esempio, il cieco nato – di cui si è detto sopra - era considerato escluso dall’azione creatrice e non aveva accesso al Tempio. Per Gesù questo è intollerabile perché l’immagine del vero Dio viene deturpata. Il nuovo santuario che lui descrive non è immobile, statico, ma è dinamico. I singoli formano la comunità di Gesù (la chiesa), ed è una comunità che accoglie gli esclusi della società. Dio manifesta la sua santità fra gli esclusi, e il nuovo santuario non attende che gli uomini si avvicinino, ma è la stessa la comunità/santuario che va in cerca degli esclusi della società. E questa comunità in movimento ha come compito quello di inondare d’amore quelle persone che si sentono indegne di accogliere il Signore. Infatti, la strepitosa novità portata da Gesù è questa: non è vero, come insegna la religione, che bisogna essere degni per accogliere il Signore, ma è vero il contrario. Accogliere il Signore è quello che ti rende degno[25].


NOTE


[1] Lessing G.E., Nathan il Saggio, ed. Garzanti, Milano, 2000, 149 ss.

[2] Lessing G. E., Nathan il saggio, ed. Garzanti, Milano, 2000, 163.

[3] Vedasi Maggi A., Come leggere il Vangelo e non perdere la fede, ed. Cittadella, Assisi, 2006, 133 ss. Vedasi l’articolo Guai a voi! al n.487 di questo giornale.

[4] Enciclica Lumen Fidei, §37 di Papa Francesco, in www.vatican.va: La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma. Per i luterani, invece, la fede non si basa su niente di proprio, né sulle proprie esperienze, né sull’amore, perché ogni propria capacità non conta nulla: la fede viene suscitata solo dalla Parola di Dio (Kampen D., Introduzione alla spiritualità luterana, ed. Claudiana, Torino, 2013, 44).

[5] Maggi A., Cos’è il peccato, incontro di Assisi 2013, in www.studibiblici.it/Multimedia/audio conferenze.

[6] Il sufismo può definirsi l’esoterismo islamico, che partendo da un punto sulla circonferenza immaginaria, attraverso una porta che è il maestro sufi, fa avvicinare verso Dio che si trova al centro del cerchio, e si fonda sull’amore, sul timor di Dio e sulla conoscenza di Dio; questa via stretta, non per tutti perché pochi arrivano al centro, porta per tappe a livelli di conoscenza sempre superiori. Chi sta sulla circonferenza mira alla salvezza individuale dell’anima; il sufi che arriva al centro estingue la sua parte individuale e resta assorbito in Dio. Basta appena avvicinarsi al sufismo per capire com’è infondata la tesi che riduce l’islam a una religione retrograda, legalista e fanatica. Per chi volesse approfondire, ricordo fra i vari grandi maestri Sufi: Al Hallaj, Al Gazhali, Rumi, Ibn’Arabi, Ahmad Sirhindi.

[7] Parole del Cardinal Tonini riportate in “Il Piccolo” 29.7.2013, 5.

[8]Maggi A., Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore, in www.studibiblici.it/Multimedia/audio conferenze/tre giorni biblica 2012.

[9] Ancora durante il suo pontificato, anche papa Benedetto XVI negava che la propria coscienza potesse validamente ancorarsi alla propria esperienza, e insisteva che essa si dovesse ancorare esclusivamente all’insegnamento del magistero (Ratzinger J. – Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 117), proprio come pensavano i capi religiosi del tempo di Gesù.

[10] È stato fatto notare come una creazione senza male manifesterebbe la bontà e la sapienza di Dio, ma non manifesterebbe pienamente la sua misericordia (Congar Y., Il problema del male, in “Dio, l’uomo e l’universo,” a cura di de Bivout de la Saudée. Ed. Marietti, Genova, 1952, 574).

[11] Maggi A. Commento al vangelo di Gv 9, 1ss. – domenica 22.3.2020.

[12] Idem.

[13] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 44s. Vedasi ancora § 1 udienza generale di Papa Giovanni Paolo II del 3.2.1988, in www.vatican.va/Sommi pontefici/Giovanni Paolo II/Udienze.

[14]Maggi A., Versetti pericolosi, ed. Fazi, Roma, 2011, 56. Il racconto della creazione strutturato su sette giorni (il numero sette indica completezza) afferma la completezza dell’azione di Dio. Secondo l’interpretazione più rigidamente ortodossa, la creazione è finita col sabato, non con la creazione dell’uomo, perché Dio ha creato per poi godere Lui, di sabato, del lavoro fatto.

[15] Ideologia è la dottrina che non ha alcun fondamento nella realtà e nella cui origine, diffusione e conservazione si intrecciano degli interessi sociali (Hasler, Come il papa divenne infallibile, Claudiana, Torino, 1982, 237).

[16] Enciclica Papa Pio XII, Humani generis, § II, 12.8.1950, in www.vatican.va/Sommi pontefici/ Pio XII/Encicliche.

[17] Vedasi cosa si dice del peccato nell’articolo sul peccato al n. 471 di questo giornale, https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-471---23-settembre-2018/il-peccato-non-e-violazione-della-legge-divina.

[18] Vedasi questa illuminante spiegazione: “Lo specchio del comportamento etico non è la propria coscienza, ma il volto di coloro che vivono con me. Quando questo volto esprime pace, speranza, gioia e felicità, perché il mio comportamento genera tutto questo, allora è evidente che il mio comportamento è eticamente corretto” (Castillo J.M., Fuori dalle righe, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 62).

[19] Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 123 e 127 s.

[20] Enciclica Lumen Fidei, §17 di papa Francesco.

[21] Così Padre Franco dell’eremo camaldolese di San Giorgio, in Antonioli F., Un eremo è il cuore del mondo, ed. Piemme, Milano, 2011, 134.

[22] Erode il Grande iniziò l’ampliamento del Tempio verso il 20-19 a.C., e l’opera fu terminata dopo la morte di Erode, perché sarebbe durata 46 anni (Gv 2, 20).

[23] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes §9 e soprattutto 12 e 27 – del 7.12.1965.

[24] Ribadisco sempre che Gesù non ha mai chiesto a nessuno di abbandonare la propria religione; anzi ha riconosciuto la grande fede di persone che seguivano altre religioni: pensiamo alla dona cananea (Mt 15, 28) o al centurione romano (Mt 8, 10).

[25]Maggi A., Ma voi, chi dite che io sia?, conferenza tenuta a Cuneo il 6-8.6.2008, in www.studibiblici.it/Scritti/conferenze.