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Arciprete Grechulevych Vasyl Yakovych, immagine tratta da commons.wikimedia.org

Storie di preti


di Stefano Sodaro


Proprio nel giorno in cui Roberto Repole, già Presidente dell’Associazione Teologica Italiana (ATI), viene annunciato ufficialmente quale nuovo Arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa, muore Carlo Molari, prete teologo che, con la sua testimonianza ed il suo magistero, ha segnato la vita di tante e tanti in Italia.

Pochi giorni fa il Papa ha usato una curiosa, anzi interessante, espressione, rivolgendosi ai partecipanti al Simposio in corso a Roma sulla teologia del sacerdozio [sic!] cattolico, promosso dalla Congregazione per i Vescovi. Il Papa ha detto, tra le altre cose: «Anche oggi, il popolo ci chiede pastori del popolo e non chierici di Stato o “professionisti del sacro”; pastori che sappiano di compassione, di opportunità; uomini coraggiosi, capaci di fermarsi davanti a chi è ferito e di tendere la mano; uomini contemplativi che, nella vicinanza al loro popolo, possano annunciare sulle piaghe del mondo la forza operante della Risurrezione.» (https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/february/documents/20220217-simposio-teologia-sacerdozio.html)

“Professionisti del sacro”. Già.

La mente va subito al titolo di una delle opere teologiche più importanti e più dimenticate della fine del Novecento: Funzionari di Dio, di Eugen Drewermann. Ricordo la presentazione della sua traduzione in italiano a Bologna decenni e decenni fa, in una atmosfera quasi di clandestinità regnante il vescovo Giacomo Biffi (ricordo addirittura la pungente battuta di qualche presente: “Stanotte Biffi non dorme…”).

Chi sono i “professionisti del sacro”? E ancor prima: esistono “professionisti del sacro”?

Iniziamo dalla seconda domanda e rispondiamo tranquillamente di sì. Un contratto, uno stipendio, una serie di prestazioni cultuali. Nessunissima ironia: esiste, come ben pacifica ed anche socialmente accettata, una evidente professionalizzazione del sacerdozio. Fare i preti è un mestiere come un altro. Come fare gli elettricisti, i funzionari di banca, gli psicoterapeuti, gli scrittori, i giornalisti. Ad ognuno il suo. A te, reverendo, monsignore, pastore che tu sia, il tuo. Amen.

E tuttavia le parole di Francesco papa non sembrano così accomodanti verso i chierici di professione: quand’anche sia accettabile la delineazione del – chiamiamolo – “ruolo sacro” tra le nostre case e nelle nostre giornate, ridurlo ad una serie di prestazioni professionali (certamente nobilissime, su questo non c’è discussione… o sì?) pare improprio. E perché pare improprio? Perché la faccenda di Dio, da ogni parte la si guardi, sembra fuoriuscire, debordare, da qualsiasi sistemazione funzionale.

O meglio: se, come ammoniva Johann Baptist Metz, è necessario andare al di là della religione borghese, in quell’aldilà Dio non può essere oggetto di prestazione professionale alcuna.

Ed in effetti tutto l’armamentario cattolico costruito intorno alla figura del prete - al netto di incrostazioni spiritualistiche evanescenti, di deviazioni psicotiche e di vere e proprie eresie semi-idolatriche - teneva in buona sostanza a mettere in evidenza proprio questo: quello del prete non è un mestiere come un altro, perché Dio non è una questione come un'altra, non è uno dei tanti problemi da risolvere alla svelta e con soddisfazione, mettendo a tacere domande e inquietudini.

Siamo sinceri: a nessuno di noi verrebbe neanche lontanamente in mente di dire che Carlo Molari sia stato un “professionista del sacro”, e quando Repole sarà ordinato vescovo riceverà, all’anulare della mano destra, un anello, appunto, che assai difficilmente può essere contrassegno di un qualche ruolo impiegatizio o comunque professionale. Un anello non è una cravatta.

Così come il gesto di imposizione delle mani non risulta riconducibile ad alcun incasellamento borghese, benché sia - certo - segno di un incarico, di un mandato, di un ministero affidato, oltre che di un dono conferito. Ruolo che, però, deborda, che non resta dentro le maglie dell’organizzazione.

Il Papa ha detto pure altre parole negli scorsi giorni, questa volta dirette ai rappresentanti delle Chiese Orientali riuniti a Roma per i 25 anni dalla promulgazione dell’Istruzione sull’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali: «Ma la bellezza dei riti orientali è ben lungi dal costituire un’oasi di evasione o di conservazione. L’assemblea liturgica si riconosce tale non perché si convoca da sé stessa, ma perché ascolta la voce di un Altro, restando rivolta a Lui, e proprio per questo sente l’urgenza di andare verso il fratello e la sorella portando l’annuncio di Cristo. Anche quelle tradizioni che custodiscono l’uso dell’iconostasi, con la porta regale, oppure il velo che nasconde il santuario in alcuni momenti del rito, ci insegnano che tali elementi architettonici o rituali non trasmettono l’idea della distanza di Dio, ma al contrario esaltano il mistero di condiscendenza – di syncatabasi – nel quale il Verbo è venuto e viene nel mondo.» (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2022/02/18/0120/00245.html). Un po’ diversamente, lo riconosco senza alcuna difficoltà o polemica, da come la vede anche l’amico Dario Culot nel suo articolo odierno. Il Papa ritiene che, ad esempio, l’iconòstasi – elemento architettonico proprio di ogni liturgia orientale (a volte trasformata, simbolizzata, in un tendaggio, come nel rito armeno) – non crei un’equivalenza tra sacertà e distanza dalla vita, bensì esattamente l’opposto: è segno dell’inabitazione di Dio anche nella precarietà dell’estetica umana, che può essere fragile e bellissima nello stesso tempo.

Ma come che sia, la liturgia dunque non è – ancora una volta – prestazione professionale. È Altro.

Epperò neppure “roba da preti” è.

Non lo è nella misura in cui i preti “ci appartengono”, in cui cioè il loro non-essere-professionisti-del-sacro è protesta contro ogni riduzionismo della complessità del nostro vivere. Protesta pure nostra.

Ma se non sono professionisti i preti, come fanno allora a vivere? Perché vengono “pagati”?

Il rapporto tra il denaro ed il sacro, ma prima ancora tra il denaro e ciò che ci sta a cuore fare e fare bene, è un rapporto inesplorato, che sembrerebbe scontato nella comune comprensione ed invece non lo è proprio per nulla. È forse tutto comprabile? No. Ma siamo disposti a fare qualunque cosa che ci comporti fatica, applicazione, studio e dedizione senza un compenso, gratis? La risposta è ancora: no! E allora?

Allora forse si potrebbe pensare che siamo tutti – maschi o femmine non fa alcuna differenza – “preti” dentro di noi; siamo tutti, e tutte, cioè professionisti e professioniste che non vorrebbero maneggiare il “sacro”, qualunque sia la sua possibile definizione, come un mestolo da cucina od una pratica da timbrare od un cavo da attaccare. Perché la nostra stessa vita non è una semplice prestazione professionale, mentre è piuttosto proprio una “roba da preti”. Cioè un appello ad un’alterità ed ulteriorità inclassificabili, indicibili, ineffabili.

Piangiamo la morte di don Carlo Molari, facciamo i più cordiali auguri a don Roberto Repole.

Sono le porte delle nostre case, dei nostri appartamenti, le vere iconòstasi dietro le quali – a qualunque fede si possa appartenere, ed anche a nessuna – l’Altro ci attende, nel più profondo di noi, per celebrare una liturgia nuziale di intensità indescrivibile.

La prossima domenica Rodafà compirà i suoi 650 numeri. Non nascondiamo emozione e pensieri. Sapere che possiamo proseguire insieme è la sola passione che ci guida. Speriamo molto professionalmente. Ma anche di più.

Buona domenica.