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Barcolana del 12 ottobre 2008 - foto di Renato Agostini tratta da commons.wikimedia.org



Bianche vele sul Golfo



di Stefano Sodaro



Chi è che vuole davvero bene a questa città, collocata al confine con l’Altro Mondo, permanentemente incidentata da un impatto frontale con l’intero Novecento?

Chi vuole davvero bene a Trieste?

La domanda potrebbe anche essere: ma accetta Trieste d’essere amata da qualcuno/a?

“Amor ch’a nullo amato amar perdona” siamo sicuri/e che valga per il nostro capoluogo giuliano?

No, perché spesso Trieste sembra proprio sdegnosa davanti ai suoi corteggiatori. Mette il muso, abbassa gli occhi, guarda altrove, vuole cambiare discorso.

D’altra parte, si può amare Trieste solo se si accetta la contraddizione come propria dimensione di vita, di collocamento, di frequentazione quotidiana, che non scandalizzi e getti nello sconforto, a fronte della spasmodica ricerca della Verità, con una V maiuscola, font di grandezza 120.

“Algo de extremo”, come dicono i latinoamericani – anzi, le latinoamericane – verso chi cerchi di coniugare in sé estremi opposti, appunto, come ad esempio la consapevolezza realistica della necessità del mercato e l’innamoramento straziato verso la teologia della liberazione.

E oggi: la Barcolana.

La grande regata velica riempie il nostro Golfo di singolari gabbiani che, invece di volare, corrono a pelo d’acqua, pilotati da donne e uomini tutte e tutti convenuti qui da noi.

Non si può conoscere Trieste con una, pur auspicabilissima, visita turistica.

La nostra città, in effetti, nasce quasi interamente nel Settecento. Sì, certo, davanti al palazzo della Questura si possono ammirare le eleganti vestigia di un Teatro Romano assai suggestivo e con ampie parti pressoché intatte. Sul Colle di San Giusto la medievale omonima Cattedrale segna da secoli la vita di un’intera comunità, per niente tutta cattolica. E l’adiacente Foro Romano testimonia di una vitalità antica. D’accordo.

Ma è nel Settecento mercantile che si crea l’anima cosmopolita di Trieste, talmente gonfia di vitalità da quasi esplodere nell’indifferenza di una laicissima tolleranza, alla quale null’altro interessa che calma e prosperità per moltiplicare i commerci. Ci si dovrebbe forse vergognare di quella nascita quasi coeva dell’Illuminismo? E perché mai?

A Trieste è nata la psicanalisi italiana. Eh sì, a Trieste.

A Trieste l’ecumenismo del Vaticano II fu preceduto da una scontata coesistenza di fedi diverse con i propri luoghi di culto, uno accanto all’altro. Rabbi, pope, imam, reverendi pastori, frati e suore, monsignori, vescovi e preti, tutti affratellati dall’interesse – piano a parlar male dell’interesse! – che Trieste crescesse e si moltiplicasse nella sua ricchezza e proprio anche nel numero dei suoi abitanti.

Chi vuole, dunque, davvero bene alla nostra città?

Siccome tutto vuol essere fuorché una domanda retorica, parliamo pure d’altro. Visto che qui il confine con l’Altro è a due passi.

Ci ricorda, su questo numero del nostro settimanale, Silvano Magnelli che martedì prossimo ricorreranno i sessant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II.

Cos’è un Concilio? Mah.

E un Sinodo? Doppio mah.

Il vescovo di Trieste che partecipò al Vaticano II fu mons. Antonio Santin, che però era vescovo delle diocesi unite di Trieste e Capodistria. Gli succedette nel 1977 il primo vescovo postconciliare della sola Trieste, mons. Lorenzo Bellomi. Quindi nel 1997 mons. Eugenio Ravignani, che proprio al clero triestino apparteneva, che fu Rettore del Seminario di Trieste e che da mons. Bellomi era stato ordinato vescovo, niente poco di meno che a San Giusto, nel 1983 per reggere la Diocesi di Vittorio Veneto. Nel 2009 divenne successore del vescovo Ravignani mons. Giampaolo Crepaldi, che giovedì 29 settembre ultimo scorso ha presentato le proprie dimissioni al Papa per raggiunti limiti di età, come prevede la legge canonica.

Il Golfo di Trieste assomiglia un po’, volendo volare d’immaginazione, all’aula conciliare della Basilica di San Pietro. Al posto del pavimento pregiato, c’è il Mare Adriatico. Cioè c’è la vita, che dal mare – ci hanno insegnato – proviene.

Bisogna essere biofili/e per amare davvero Trieste. Avere gusto e passione per la vita. Chiamano talvolta questa nostra città “la Napoli del Nord”, proprio per un sapore delle cose, per una dedizione all’unica vita che abbiamo, per la centralità ancora, nonostante tutto – con grande “resilienza”, come si direbbe oggi -, del tipico dialetto, non omologabile semplicisticamente alla parlata veneta, come invece capita di sentire nei film ambientati da queste parti.

Per voler davvero bene a Trieste non bisogna prendersi troppo sul serio. Ne abbiamo avute di tragedie paurose, di ogni specie. Ora vorremmo qualche sorriso, non inebetito dalla cancellazione delle memorie, ma impreziosito dalla serena comprensione che non merita abbarbicarsi a presunte granitiche certezze di nostre indiscutibili verità – fossero anche quelle dell’amore romantico -, perché importa piuttosto capire che nei nostri frammenti di ordinaria quotidianità, piccoli o grandi che siano, c’è Tutto. Quel Tutto che oggi traluce nel Golfo.

Abbiamo issato Le belle bandiere la scorsa domenica. Ne trovate ampia documentazione fotografica su questo stesso nostro numero 682, con particolare sottolineatura del valore artistico degli scatti di Gianni Passante, che ha voluto farci dono di un intero set fotografico dedicato all’evento.

Oggi si issano, invece, le vele.

Che ci portino lontano, che ci facciano sentire il Mondo vicino.

Buona domenica.

Buona Barcolana.