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Monastero trappista di Tibhirine, Algeria - foto tratta da commons.wikimedia.org

No, l’amore non è reciproco, è molto di più




di Stefano Sodaro


Al pomeriggio della domenica giungono notizie tremende di una cabina di funivia precipitata in Piemonte.

Venticinque anni fa, il 21 maggio 1996, morivano uccisi sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria.

Le cronache dal Medioriente di questi giorni le conosciamo.

Davanti alla morte di chi ci è caro e cara l’impotenza è assoluta, invincibile, e la reazione che nega la resecazione dell’esperienza di condivisione non più possibile porta frequentemente al distacco dalla realtà, con conseguenze pericolose.

La morte interroga sul senso dell’amore, che ne è l’unico vero antagonista.

Si può continuare ad amare al di là della morte, senza che ne corrisponda alcun palpabile contraccambio.

Importa amare molto più che essere amati.

Le mode revisioniste mettono in discussione radicale quell’amore che è stato individuato con il nome greco di agápe. L’amore dev’essere contrattualizzato, io do, tu dai. Io prendo, tu prendi. Se io ti amo, tu devi amarmi. Ma questo non è amore.

Lo strazio amoroso dei più giovani si sfracella sugli scogli della contabilità amorosa degli adulti. Tutto da mettere a posto, da sistematizzare, da razionalizzare, da organizzare. Tutto da assestare in un quadro che non ammetta sbavature di bianco e nero, perché altri colori non sono consentiti.

Dalla negazione dell’amore che unicamente si dà senza contraccambio originano pure i fenomeni di abusi, allorché si pretende che vi sia una corresponsione amorosa ad ogni costo, anche a costo di violenza e sopraffazione, dal momento che un amore a senso unico, per appunto, non può avere alcuna dignità ed alcuna tolleranza. Dunque, se amo, pretendo amore e se la pretesa resta inevasa, la violenza mi strizza orribilmente l’occhio, la morte sorride.

C’è un bel dire che chi cura negli ospedali, chi accorre nelle tragedie, chi ama da madre e da padre, lo faccia per una specie di deontologia professionale, perché “è il suo lavoro”. Avvertiamo benissimo che non è così, ma ci secca tantissimo riconoscerlo.

Che cosa ci sarebbe di rivoluzionario, di alternativo, di utopico, di affascinante nello scontatissimo luogo comune secondo il quale posso amarti solo se mi ami?

I monaci trappisti di Tibihirne sono stati ammazzati. Il contraccambio del loro amore è stata la morte.

E quanti sono gli amori non corrisposti? Tutti amori finti? Tutti amori da rigettare e seppellire?

E l’amore di amicizia, dove l’altro resta altro, dove le vite restano separate, dove non avviene alcuna meravigliosa fusione, che amore sarebbe dunque?

Nella ricerca di contraccambio amoroso c’è una tensione fusionale che rimette al centro l’io, le mie attese, i miei desideri, i miei bisogni.

Al centro dell’amore, però, non ci sono io, ma Tu.

È allora possibile una “via amorosa” completamente diversa dai codici amorosi sigillati nelle letterature e nelle culture, financo popolari, di tutti i secoli?

Si può baciare il vento, l’aria?

Si può tenere sulla scrivania la foto di chi si ama senza richiedere che avvenga lo stesso sulla scrivania dell’amato, dell’amata?

Si può tacere per amore?

Si può pregare per amore?

Si può leggere e scrivere per amore?

Si può amare se stessi, se stesse, senza pretendere espropriazioni più o meno violente da sé della propria sensibilità, delle proprie attitudini, delle proprie convinzioni più profonde?

Solo rinunciando al contraccambio, l’amore per me stesso diventa termine di paragone dell’amore per gli altri.

Importa molto riconoscere la povertà intrinseca dell’amore.

E sapere che l’amore è sempre uno, di mille colori diversi, ed è il solo vero antidoto alla morte.