Foto di Gianni Passante

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The Rabbi is in


Stabilitas loci?


di Miriam Camerini


Sono arrivata poco prima che facesse buio, era una delle prime domeniche dell’ora illegale – come diceva mio padre quando ero piccola per farmi ridere – e a Tel Aviv, fuori dall’aeroporto, faceva ancora così caldo che mi sono domandata che ci facevo lì con i pantaloni neri di lana comperati a Parigi.

La mia vita degli ultimi mesi è stata un costante preoccuparmi di non avere le scarpe e i vestiti adatti al clima e alla latitudine in cui mi trovavo, corse continue a questo e quel negozio per procurarmi il minimo indispensabile, un perenne far lavatrici ovunque per aver pronti all’uso i pochi indumenti utilizzabili nel luogo e tempo in cui mi trovavo.

Non ho preso il treno questa volta: sapevo che sarei stata troppo stanca per salire – ancorché con la scala mobile – i cinque piani che separano i binari dalla strada, arrivata a Gerusalemme. Ho preso uno sherut, uno di quegli antichi, scomodissimi e mediorientali taxi collettivi che sono fortunatamente meno popolari da quando esiste il treno, ma che nel momento del bisogno tornano utili. L’autista era antipatico come quasi sempre, la famigliola di tedeschi, non ebrei, turisti, accanto a me, faticava a farsi capire e ho funto da traduttrice. “Sai il tedesco?”, mi ha chiesto l’autista, in ebraico. “Un po’”, ho risposto: l’ho studiato tanti anni, qua e là. “Io so contare in yiddish”, mi ha detto l’autista: “eyn, tzvey, dray...” sempre più amichevole. Per un istante (ricordiamo che sono molto assonnata) provo a ipotizzare che sia russo e gli chiedo se sa lo yiddish da casa: “Neshamah, anì lo ashkenazì!” (Anima mia, non sono ashkenazita!) esplode quello con il suo miglior accento e l’espressione idiomatica da ebreo originario di un paese arabo, come il 99% degli autisti. “L’ho imparato dai clienti, dalla strada”.

Mi scarica finalmente davanti a casa, rotolo dentro, faccio il minimo necessario per renderla abitabile e appena fa buio mi addormento.

Mi sveglio alle 11 di sera con una gran fame, mi faccio una pasta e torno a dormire fino all’indomani. Sono due settimane che dormo, praticamente. Non ricordo quando ho dormito tanto in anni recenti, e ancora non ho finito, credo. Nel frattempo, ho ripreso la yeshiva, incontrato amici vecchi e nuovi, visto – come sempre faccio qui – vecchi film, a casa e al cinema, iniziato a smaltire qualche quintale di lavoro arretrato. Ho studiato e insegnato, cucinato e fatto la spesa, cose che per mesi non avevo avuto occasione di fare.

Recentemente mi è stato chiesto, a Milano, in università, dove stavo tenendo una lezione sullo Shabbat, il sabato ebraico, che senso ha “essere obbligati” a riposare: oggi, durante la lezione di pensiero chassidico (mistico-pietista) che seguo alla mia scuola rabbinica, ho avuto una possibile risposta: perché la forza e l’energia che vorrebbe, al tramonto del sesto giorno, che io andassi avanti a lavorare, a creare e pianificare, deve essere convertita in forza spirituale di sosta; è una trasformazione dell’energia, che non si deve disperdere, bensì cambiare sostanza, per un giorno alla settimana, il settimo, e insegnarmi a sostare.

Buona settimana.


Le belle bandiere, Teatrino Franco e Franca Basaglia - Trieste, 2 ottobre 2022 - foto di Gianni Passante

Foto, qui, di Stefano Sodaro durante il Concerto Caffè Odessa tenutosi a Matera il 19 maggio 2022 e durante la rappresentazione Le Belle Bandiere, tenutasi al Castello di Casalgrande (RE) il 7 luglio 2022.

Foto di Stefano Sodaro, spettacolo Le Belle Bandiere, Trieste - 2 ottobre 2022