Sukkah

di Miriam Camerini

Festa di Sukkot nel Tempio Emanu-El di Manhattan - foto tratta da commons.wikimedia.org

Ho trascorso quasi l’intera giornata di sabato, Shabbat, in una sukkah, ebraico per “capanna” o “tabernacolo” di quelle che gli ebrei costruiscono e abitano in occasione della festa autunnale di Sukkot, appunto capanne, che si svolge questa settimana: una famiglia molto ospitale aveva organizzato nel proprio cortile in un bel vicolo verde di periferia una funzione religiosa molto canterina all’aperto sotto gli alberi, alla quale sono stata invitata a partecipare, conducendo una parte della liturgia e poi prendendo parte al bel pranzo “potluck” nella capanna, che si è protratto fino al tardo pomeriggio tra vino e canti, frutta e parole di Torah. Mentre pregavo prima, mentre cantavo, benedicevo, bevevo e mangiavo poi, pensavo alla capacità di trovare soluzioni alternative, “piani B”, “ripieghi”, che in realtà sono spesso la vera essenza delle cose: l’intera nostra vita, tutta la storia - biblica e non solo - è una serie di cose che dovevano andare in un certo modo, sono andate diversamente e quella seconda o anche terza scelta, alla fine, sono diventate la cosa vera.

La divinità - pensavo, addentando una mela - crea i primi esseri umani e comanda loro di non mangiare il frutto proibito, che loro mangiano: da allora e per sempre la nostra storia è quella “dell’altro modo”, del modo in cui non doveva andare. Ce ne ricordiamo forse ogni giorno? Ci alziamo ogni mattina pensando che non dovremmo essere qui, consapevoli o quantomeno preoccupati del problema del bene e del male, mentre dovremmo starcene ancora ignari di tutto e felici nel giardino dell’Eden? Ho qualche dubbio.

L’intera nostra vita è percorrere delle alternative alla prima cosa che avevamo pensato, pianificato, sognato, immaginato: la casa in cui abitiamo non è quella che non siamo riusciti a comprare perché un altro ce l’ha soffiata in cash mentre noi aspettavamo il mutuo, ma quella che abbiamo comprato davvero, il lavoro che non pensavamo di volere ma che abbiamo trovato dopo che il primo colloquio che non ha funzionato, la torta fatta con gli ingredienti che abbiamo davvero in casa, diversi da quelli che pensavamo di avere e con i quali avevamo immaginato di preparare il dessert stasera.

Avevo organizzato questi giorni in un certo modo, fatto piani abbastanza precisi e definiti, ma ho dovuto e voluto cambiarli, all’ultimo e d’istinto. Non saprò mai come sarebbe andata nell’altro modo, ma ora conosco questo, so che cosa è costato e che cosa ha portato, che cosa significa e che cosa implica. L’altra notte pioveva a dirotto: a lungo sono stata sveglia in compagnia della pioggia, sentendomi sola e pensando a che cosa avrei dovuto, forse potuto e voluto fare diversamente, ma l’unica realtà vera e presente era quella notte, quella solitudine. Sono stata un poco meglio, e ho potuto prendere un po’ di sonno, solo quando ho lasciato che tutte quelle sensazioni mi pervadessero, ho smesso di oppormi e resistere, ho accettato e ceduto, sono stata dentro quella pioggia, me ne sono lasciata metaforicamente travolgere e bagnare.

Il brano biblico che si legge durante il sabato di Sukkot, tratto da Esodo 33:12 e dai versi seguenti, parla della seconda chance di un rapporto burrascoso e travagliato ma duraturo: quello fra la divinità e Mosè, rappresentante di tutto il popolo ebraico da un lato, personalità assai individuale dall’altro. La conversazione che apre il brano sembra scritta da Beckett e avviene dopo che il popolo di Israele - stanco di aspettare Mosè, ormai da 40 giorni perso sul monte Sinai - si è costruito e ha venerato il famoso vitello d’oro e Mosè, per la sorpresa e la collera, ha fracassato le Tavole dell’Alleanza appena faticosamente ricevute dall’Eterno. Il rapporto fra Mosè e Dio – e l’intera vicenda – potrebbero chiudersi lì. Invece è proprio lì che comincia il bello, è proprio lì che tutto ha un nuovo inizio: Mosè chiede una seconda chance, l’Eterno gliela accorda. Gli dice di tagliare (scolpire, tagliare e legiferare, decretare hanno nell’ebraico biblico la stessa radice) delle nuove tavole di pietra come le prime: non saranno mai le prime, saranno sempre come le prime. E però, è proprio lì che la relazione rinasce o forse nasce davvero: nella seconda chance, nel non morire lì, nel trovare una seconda possibile opzione, che diventa quella vera, l’unica percorribile. Il vero incontro, quello intimo ed emotivo tra il Divino e Mosè avviene lì, in quello sprone di roccia – una sukkah, rifugio e tabernacolo di temporanea e precaria residenza – in cui Dio invita Mosè a soggiornare perché possano fugacemente, brevemente, quasi per caso, incontrarsi, sfiorarsi: “Non puoi vedermi da davanti, perché nessun umano mi vede in volto e vive”, dice Dio al Suo prediletto, “Ma mi potrai vedere da dietro, dopo che sarò passato, perché voglio mostrarti che hai trovato grazia ai Miei occhi”.. Che conversazione. Dolce, forte, mistico-erotico-caotica, come quasi tutti i rapporti.

Non sarebbe mai avvenuta senza quel terribile incidente in fondo nemmeno troppo accidentale: Mosè ha un raptus di collera incontenibile e fracassa le Tavole: poco professionale, poco responsabile, assai poco moderata, ma è pur sempre una sua scelta.

Eppure, è proprio da quel momento di immediata e profonda connessione con gli istinti più forti, non mediati da alcun timore o reverenza, pura forza e puro dolore, che nasce la relazione vera, quella che per pochi istanti sembra quasi “alla pari”, “faccia a faccia”.

Le preghiere e ogni nostro pasto festivo, soprattutto se condiviso e comune come quelli di ieri – pensavo – sono il “Piano B” che i Rabbini e Maestri del Talmud hanno inventato per sostituire i sacrifici e il culto del Tempio di Gerusalemme, distrutto dai Romani nel 70 dc e da allora finito: pasti e preghiere, preghiere e pasti che possiamo consumare ovunque e con chiunque: questa è la relazione con la divinità che da allora pratichiamo, trasportabile, mobile, proprio come una capanna nel deserto, proprio come un rapporto che ci portiamo ovunque, e forse è meglio così.


Foto di Paola Cazzaniga