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Mosè con le Tavole della Legge - Rembrandt, 1659 - Staatliche Museen di Berlino, immagine tratta da commons.wikimedia.org



Le domande della speranza




di Mauro Concilio

(Socio di Casa Alta)



In Italia la maggior parte delle persone ha origini cattoliche.

Chiunque ha partecipato a messe, a battesimi, a matrimoni, a funerali e a cerimonie ecclesiali, chiunque ha sentito parlare di Dio, di Gesù, dei preti, di preghiere, di confessioni, di comandamenti.

Nei miei anni verdi, mi chiedevo che senso avesse la distinzione che si faceva in politica tra cattolici e laici, o in filosofia e teologia tra credenti, agnostici, atei e, vivendo immerso nelle tematiche religiose mutuate dalle frequentazioni parrocchiali, che erano uno dei pochi ritrovi socializzanti in un contesto difficile, sentivo enunciare parole come “fede”, “salvezza”, “speranza”.

Le ultime due, in particolare, mi colpivano perché non ne capivo il significato. Da cosa avrei dovuto salvarmi? Di cosa non avrei dovuto impaurirmi come esortava Giovanni Paolo II?

Qualcuno mi suscitava curiosità sostenendo che i divorziati non si salveranno mai, destinati al fuoco eterno grazie alle loro scelte dissennate compiute in questo passaggio terreno.

Ma ancor più, la parola “speranza” mi induceva ad un senso di malinconia e di riso amaro, di consolazione e, insieme, di falso mito a cui le persone si aggrappavano in un luogo cosi cattolico non solo per la presenza della Chiesa, ma anche per formazione culturale.

Già da ragazzo mi ponevo la questione del senso e della morte, ma il fatto che fossi giovane e che, quindi, teoricamente, avrei avuto la vita davanti, mi faceva fuggire dalla riflessione essendo impopolare per coscienze in formazione e desiderose di sogni, soprattutto di illusioni spacciate per possibilità concesse a tutti coloro che avevano volontà e menti brillanti, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche.

Le bugie della realtà a cui anche sedicenti “cattolici” hanno abituato il popolo per raggirarlo e continuare nel loro mondo esclusivo la corsa al potere e al denaro non erano evidenti, essendo molto facile, come fanno le classi abbienti, mettere sullo stesso piano una cosa e l’altra spacciandola per scelta.

La scelta non solo nel 2021, ma da sempre, è tale solo per chi ha la possibilità di farlo, mentre il progetto che Dio ha avuto per noi si manifesta nella forma di travet eleganti e frustrati, di sposi felici a cui il mainstream dedica tutte le follie consumistiche possibili, di realizzazioni possibili per i più furbi che non perdono occasione per dimostrare di essere migliori degli altri con la cultura della raccomandazione spacciata per merito.

Perché dobbiamo rendere ragione della speranza nella Resurrezione? Perché, dato il vero scopo della vita che è la prevaricazione sul prossimo, sperare o travestirsi da speranti se gli scopi sono molto terreni? La tecnica così idolatrata dai filosofi nichilisti ha sostituito la paura della morte e dell’interrogarsi su di essa con la realizzazione individuale.

Questo è il nuovo sacro del tempo che ho vissuto, l’individuo che vince la morte con il successo, il denaro, il sorriso, il dileggio dei deboli.

Chi non si accoda a questo paradigma ha come possibilità alternativa il clan, l’appartenenza ad un gruppo esclusivo i cui membri esercitano pressione e dominio sulla società. Esclusi dalla speranza sono invece coloro che, passivi al mondo esterno che li esclude, si rinchiudono in loro stessi, rassegnati ad una vita che, secondo le logiche perverse degli uomini, è sempre uguale e sempre subordinata ai migliori.

Così pieni di loro e combattenti di una guerra nei confronti di chi non “vale” iniziata circa 30 anni fa, dopo la fine dell’utopia comunista alla quale il neoliberismo non ha fornito una valida alternativa, i migliori non si umiliano, ma si esaltano al fine di finire una giornata e affermare di essere arrivati al traguardo. Il retrogusto di viltà e debolezza insita in queste teste vuote alla ricerca della considerazione, il narcisismo spesso patologico a cui hanno dedicato la loro esistenza, uccide la speranza non solo in un mondo migliore, ma in una vita oltre la morte. Fra pochi secondi, fra qualche giorno, mesi o anni io avrò finito questo viaggio, così come lo finiscono tutti, potenti, dotti, denarosi, sapienti, semidei e redentori.

La speranza nel dopo è una facile consolazione per chi vive un’esistenza fatta di sofferenze, che siano fisiche, materiali o spirituali. Infatti, al momento di quello che il filosofo Manlio Sgalambro insieme a Franco Battiato ha definito lo “spavento supremo”, la reazione potrebbe essere consapevolmente soddisfatta per avere con molta immanenza raggiunto i propri traguardi, oppure la fine potrebbe essere una liberazione da un vero e proprio tormento rappresentato dall’esserci nei suoi aspetti più deleteri, spiacevoli e dolorosi. A questa mancanza di uguaglianza anche nella morte e nei modi in cui si muore, velocemente, improvvisamente, senza tormenti, oppure fra sofferenze atroci e patologie incurabili, il mondo non risponde annegando la realtà nella bramosia dell’ebbrezza effimera delle glorie terrene di chi ha smesso di pensare e non ha il coraggio di attraversare la fine. La dimensione della speranza è disperata perché in questo tempo pensare è stato soppiantato dal consumo e dal soddisfacimento egoistico dei bisogni di cui la scienza è complice.

Con questa egolatria ormai inarrestabile travestita da finto amore, l’umano ha perso identità, è diventato troppo umano smarrendo il senso della presenza e finalizzandola al successo omologante di chi è “come” gli altri e cerca di essere sempre vincente per il tempo che trova la dimensione relazionale.

La spasmodica necessità di essere al passo sposa tutte le peggiori nefandezze terrene, in primis la cultura della corruzione che con molta ipocrisia viene blandita in tanti, in troppi ambienti religiosi. Se la speranza è quella di salvarsi in eterno, non può non avere un esplicarsi in mezzo agli uomini spesso illusi dalla liberazione dalle catene della precarietà.

In un dialogo con una donna più giovane di me, qualche anno fa mi furono rivolte delle critiche perché il mio pensiero al “dopo” era ritenuto inutile, svanendo tutto con la morte.

Evidentemente la disperazione appartiene non solo ai poveri, ma anche a ricchi sfondati dalla salute forte e dai pensieri deboli, così deboli da non immaginare più.

Nel Qoelet è riportato l’ammonimento “Guai a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi”.

La speranza di non essere soli mi spinge ad una strana gioia di esserne prigioniero.