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La nevrosi anticlericale ed il suo antidoto



di Stefano Sodaro




A solo sentir nominare denominazioni varie dei vari ministri di culto, delle varie confessioni religiose, c’è chi – maschio e femmina – si lascia prendere semplicemente da convulsioni isteriche e vive un annebbiamento di razionalità prossimo ad una specie di innamoramento al contrario.

Esiste la patologia del clericalismo ed esiste la psicosi della clericofobia, che ne costituisce lo specchio e, ahinoi, ne alimenta la stessa germinazione.

La clericofobia si dilata poi sino a diventare antireligiosità, avversione ad ogni, vera o presunta, ragione del sacro, repellenza nei confronti di qualunque liturgia, rito, gesto di preghiera, irrisione e reazione quasi violenta verso qualunque riconoscimento di autorevolezza ed assegnazione di ruolo di guida negli spazi di fede.

E purtroppo la nevrosi – che assume le vesti dell’antagonismo polemista – rischia di mettere in crisi anche tutte le lotte per i diritti dei più deboli all’interno degli stessi apparati religiosi e confessionali, non volendo sentire neppur parlare della necessità di conoscere le norme proprie, endogene, di tali apparati. Va da sé che ogni giudizio, sia etico che giuridico, postula una terzietà scevra da qualsivoglia preferenza ed odio viscerale.

A fronte di un simile buio conoscitivo compare la luce di chi – in particolare donna – sa invece esporre il senso profondo del credere secondo le diverse appartenenze religiose, nella consapevolezza che la parola greca κλρος (klèros) non designava in realtà nient’altro che il lotto di terra assegnato a sorte e che consentiva di vivere grazie alla sua coltivazione.

Clericalismo ed anticlericalismo sono due facce di uno stesso dramma, di una tragedia che ha, molto spesso se non sempre, paurosi inabissamenti di verità personali nascoste con le quali non si riesce a rappacificarsi.

Come uscire dalla stretta? Dove trovare il pertugio che permette di uscire all’aria aperta senza bestemmie e senza bigottismi?

Il nostro settimanale ha fatto una scelta piuttosto precisa, confermata - crediamo - dagli editoriali di queste ultime settimane: c’è un magistero delle donne in campo religioso che attende ancora una piena – discente – valorizzazione.

Ci sono cioè donne precise, con nome e cognome, che per loro competenza professionale specifica devono insegnarci - sì a noi, uomini e donne - che cosa credere significhi oggi e che cosa abbia significato nelle tradizioni, quasi sempre decisamente patriarcali, delle confessioni religiose.

Teologhe? Sì, teologhe. Ma anche ministre di culto, appunto, insegnanti, docenti, professoresse, bibliste, ecumeniste, canoniste, ecclesiologhe, imam. E finalmente, diciamolo: rabbine.

Forse non è così noto che proprio intorno a simili protagoniste della conoscenza religiosa, anche in Italia, stanno fiorendo, proprio in questi mesi, esperienze di condivisione che porteranno frutti saporiti ben oltre gli ambiti religiosi.

Ma per gustarli è decisamente necessario non odiare, mettersi comodi e sorridere alla bellezza della vita.

Del resto, in ebraico spirito, anzi vento (רוח), ruah, è nome di genere femminile

Buona domenica.


Foto di Gianni Passante