The Rabbi is in


A Budapest e a Gerusalemme


di Miriam Camerini

A Budapest c’è un ponte – un tempo chiamato Franz Josef, oggi Ponte della Libertà, che collega il mercato coperto di Pest con i bagni termali Gellért di Buda.

Mi ci sono fermata a lungo negli scorsi giorni, in diversi momenti del giorno e della notte a guardare di volta in volta l’acqua verde del Danubio, il traffico di auto e di barche, le luci degli addobbi natalizi o il castello illuminato.

La storia talmudica che avevo appena insegnato e fatto mettere in scena a un gruppo di giovani educatori - assieme a ottim i colleghi: teatranti e talmudisti - trattava, nemmeno a farlo apposta, proprio di queste tre istituzioni: mercati, bagni e ponti. Per i tre rabbini del Talmud che troviamo assorti in discussione all’inizio della storia narrata nel trattato di Shabbat, a pagina 33b, i romani hanno costruito e introdotto nella Palestina da poco conquistata ponti, mercati e bagni solo per futili motivi, o ancora peggio, immorali e disdicevoli: i bagni servono solo per la vanità del corpo, i ponti per ricavarne un profitto esigendo un pedaggio e i mercati addirittura sarebbero unicamente sede di prostituzione. Tutta la storia si svolge nell’apprendere di uno di essi, Rabbi Shimon, uno dei più grandi Maestri talmudici, che non esiste nulla che sia tutto bene o tutto male: in ogni persona, scelta, luogo e situazione si possono trovare sacro e profano, puro e impuro, bene e male: la parabola ha tre conclusioni, in ognuna delle quali uno degli oggetti condannati viene riabilitato: un anziano che corre sul limitare del tempo, al confine fra giorno sesto e settimo, con in mano due rami di mirto, mostra la necessità dei giorni di lavoro, spiega l’importanza di coltivare la terra per procurarsi il nutrimento e onorare lo Shabbat con il suo doppio precetto di “Ricorda” e “Osserva”, simboleggiato dai due rami di mirto profumato. Dentro al bagno il genero di Rabbi Shimon discute con lui gli insegnamenti ricavati da tutta la vicenda, un ponte viene “creato” dal riconoscente Maestro che decide di controllare e dichiarare pura – cioè non contaminata da sepolcri – un’intera area che dovrebbe altrimenti essere faticosamente evitata dai sacerdoti (tenuti a un livello supplementare di purità) a costo di una lunga strada da percorrere.

Sono stati giorni magici, questi di Budapest: ho frequentato amici e amiche che non vedevo da tempo, mangiato e bevuto, passeggiato e studiato, visto una prova e una prima nel nuovo teatro ebraico aperto da un regista cui da sempre guardo con ammirazione.

Staccarmi da lì non è stato facile: avrei voluto rimanere ancora e ancora.

Giovedì notte però ho sentito che il tempo era concluso, poco più di una settimana dopo essere arrivata, e che forse sarà il caso di tornare più a lungo.

Senza molto pensarci avevo comprato un posto sull’aereo del venerdì mattina prestissimo per Tel Aviv e – sempre senza molto pensarci – ci sono salita.

Prima ancora di rendermene conto ero in Israele, fra le palme e quella pioggia un po’ tropicale che fa qui d’inverno.

Sul taxi collettivo che mi portava a Gerusalemme la consueta esotica fauna che ti fa venir voglia di tornare subito in Europa, ma oramai sono qui e un po’ ci rimango, soprattutto per andare alla mia yeshiva, scuola rabbinica, finalmente “dal vivo” per qualche settimana.

Attraversando uno dei quartieri haredim di Gerusalemme, Geulla, quello – per intenderci – in cui è ambientato Shtisel, vedo ragazzi e bambini che corrono con dei rami di mirto in mano e mi do anche io, come Rabbi Shimon, un po’ di pace.

Foto di Paola Cazzaniga