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Di chi è la foto sulla scrivania?



di Stefano Sodaro


Qualcosa di rituale, forse addirittura di propriamente liturgico, si materializza nei passaggi istituzionali che la Costituzione Italiana prevede e disciplina per la formazione di un nuovo Governo, tanto più (e secondo certa vulgata populista, tanto peggio) in momenti di eccezionale emergenza. Lo stato di emergenza non è, infatti, felice evenienza, sotto nessun punto di vista, per la tenuta dell’equilibrio democratico. Eppure, anche in momenti così drammatici, è possibile cogliere un nesso tra ritualità, liturgia, peraltro del tutto laiche, da una parte, e “teatralità”, non solo della cronaca ma anche delle forme cerimoniali, simboliche e tuttavia assolutamente necessarie - nella successione degli eventi politici -, dall’altra.

Un nesso salvifico dunque, che solo “liturgia e teatro”, trasposti sul piano istituzionale, garantiscono.

Art. 92, secondo comma, della Costituzione della Repubblica Italiana: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.”

Trattasi, pertanto, di prerogativa – come si aggettiva – “sovrana” del Presidente della Repubblica, il quale, in queste ore, ha infatti convocato ed incontrato al Quirinale Mario Draghi, per conferirgli direttamente, senz’altra consultazione delle forze politiche, l’incarico di formare un nuovo Governo, giustificando tale sua iniziativa (comunque “sovrana”, per appunto) con le gravi parole pronunciate pubblicamente ieri sera (https://youtu.be/V65uFRkHc9Y).

Recita l’art. 87 della Costituzione (così tecnicamente si dice di una disposizione normativa, “recita”, ed una “teatralità” viene dunque effettivamente in rilievo), al primo comma: “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.”

Rappresentare l’unità nazionale è compito altamente simbolico, un po’ come – se è lecita l’analogia (probabilmente no) – il compito di rappresentare l’unità della Chiesa assegnato, per diritto canonico di derivazione dogmatica, all’ufficio del Papa.

Il nostro giornale non ha, tra i propri campi di intervento e discussione, la stretta attualità politica, ma gli è propria l’osservazione dei delicati processi giuridico-istituzionali che tessono la trama su cui anche le nostre vite quotidiane prendono forma, lo si voglia oppure no.

Se “la politica non è tutto”, come intitola un bel volume del teologo Edward Schillebeeckx, tutto però è politica: ogni nostro progetto, ogni nostra azione, ogni nostra dedizione professionale, persino ogni nostro amore.

Che la politica abbia dovuto cedere il passo alla rigida, fredda, applicazione protocollare delle norme costituzionali relative all’esatta individuazione di chi faccia che cosa nell’assegnazione dell’incarico di formare un nuovo Governo è constatazione disperante per la politica medesima, ma è “semplice” rilevazione, quasi notarile, per un giurista, al quale dà invece serenità e consapevolezza annotare che siamo nel giusto perché le forme sono rispettate.

Il giurista sa bene che nell’algidità del diritto risiede la salvezza della democrazia. Cioè sa, declinando in termini sociologici o finanche antropologici, che nel rito e nel teatro abita la prospettiva della svolta, del mutamento, dell’innovazione.

Giovanni Isgrò, in un volume dal titolo Fra le invenzioni della scena gesuitica. Pedagogia e debordamento (Bulzoni Editore 2008), occupandosi delle strategie teatrali agite dalla Compagnia di Gesù in piena Controriforma, scrive, a p. 67: «Si trattava, in pratica, di effettuare un doppio salto. Inizialmente occorreva un’azione d’urto volta a scuotere frontalmente le coscienze, e successivamente, un’operazione drammaturgica più elaborata ma rigorosamente ancorata alla disciplina classica consona, al tempo stesso, a quella specifica società.» Mutatis mutandis, sembra tratteggiato alla perfezione il momento politico-istituzionale che stiamo vivendo tutte e tutti.

Certamente sarebbe un disastro democratico se Mario Draghi venisse avvolto da un’aura che anche solo lontanamente evocasse la sensazione di comparsata improvvisa d’un qualche “uomo della Provvidenza”, capace di annullare la complessa e complicata – ma del tutto necessaria - dialettica del confronto politico e per ciò stesso culturale e ideale.

Se però diventa indispensabile transitare a simili dimensioni ideali, progettuali, di senso, di riempimento di significato, ne viene coinvolta subito l’intimità domestica, personale, di ciascuno e ciascuna di noi, e la politica si fa “biopolitica”, come ci ha insegnato Michel Foucault.

Una domanda di “biopolitica” si può porre in termini persino elementari: di chi teniamo la foto sulla scrivania, sul comò, sulla credenza? A chi guardiamo per ispirarci mentre lavoriamo, pensiamo, scriviamo, soffriamo, aspettiamo, sogniamo? Ovvero: vi sono motivazioni alte, e dunque politiche, afferenti cioè al ben-essere tutti assieme in un certo luogo ed in un certo tempo, che innervano la nostra vita quotidiana?

Esiste una stretta parentela, ad esempio, tra politica e preghiera. Così come tra politica ed eros. Così come tra politica e studio. Così come tra politica e lettura e scrittura. Tutto ciò che facciamo s’iscrive dentro un quadro coerente, ma non confinabile, di desideri che ci fanno guardare al presente come fosse sintesi di memoria e di speranza. L’utopia è dimensione essenzialmente politica, e per questo nasce e cresce oggi, non domani.

Il nostro oggi è nelle ore che scorrono adesso. Dove ci sono il Capo dello Stato che tenta di salvare il Paese ed un esperto economista che è chiamato da lui a condividere simile tentativo; c’è l’afasia della politica praticata nelle sedi dei partiti e c’è l’obbligo etico, prima ancora che costituzionale, che il Parlamento riacquisti la propria centralità di perno d’ogni democrazia rappresentativa.

Francesco vescovo di Roma ripete spesso e volentieri che “la realtà supera l’idea”. Appunto, siamo qui.

E figuriamoci se, in questo momento storico, in cui “la realtà supera l’idea”, la Chiesa Cattolica Italiana possa avviare un processo sinodale. Con chi? Con quali Vescovi? Per iniziativa di chi?

La forza della realtà sta nell’evitare di depotenziarsi alla scuola di sedicenti realisti e neorealisti – soprattutto filosofici -, per mantenere alta, invece, la tensione verso quel desiderio di pienezza, di realizzazione, di compiutezza che trova la cifra della sua verità nella capacità di uscire dall’io per darsi al tu, al lui, al lei, al voi, al loro.

Il realismo dell’utopia è il sacrificio felice dell’io ipertrofico affinché il “noi” sia effettiva concretezza di inclusione ed accoglienza.

Anche mettere una foto sulla scrivania richiede una sequela di attenzioni precise, pressoché protocollari, “giuridiche” rispetto al nostro ethos personale, “costituzionali” rispetto alle nostre opzioni di fondo: scelta del soggetto, cornice, luogo, condivisione oppure no di quel richiamo visivo, valutazione delle sensazioni che quella foto sa far nascere e nutrire.

È come se Sergio Mattarella avesse posto sulla scrivania del nostro Paese una foto precisa, di uno – Mario Draghi - che a suo giudizio può farci uscire dalla tragedia, a prescindere da simpatie, riserve o antipatie.

A noi – a noi proprio, non a “quelli di Roma” – verificare se ci sia ancora spazio sulle nostre credenze e sul nostro mobilio.

Da parte del nostro giornale, auguri sinceri al Prof. Draghi!

E meno male che Mattarella c’è! Altroché.