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Big quit



di Stefania Marzoni



È arrivato anche in Europa il fenomeno americano del cd “Big quit”, caratterizzato da un notevole aumento delle dimissioni volontarie, rassegnate soprattutto nella fascia giovane, under 35.

Nei primi nove mesi del 2022 si è infatti registrato un aumento del 22% di tale tipologia di cessazione di rapporto rispetto al medesimo periodo dell’anno 2021.

Molto si è detto sui numeri e sulle caratteristiche dei lavoratori interessati dal fenomeno, molto meno sulle ragioni che potrebbero essere la leva di tale cambiamento sociale ed economico.

Ed è su questo che si vuole qui ragionare, cercando di porre l’attenzione sul pensiero positivo che in tanti, in particolare nei giovani, ha spinto a cercare una strada nuova, con la consapevolezza che la vecchia non fosse poi così determinante.

Nel cercare di focalizzare l’analisi ai dati poco sopra riportati non si può negare come la generazione dei Millenials sia molto lontana da quella attualmente al vertice delle maggiori imprese italiane e come il gap culturale sia ulteriormente cresciuto per effetto del periodo pandemico, che ha avuto un impatto ancor più forte nelle generazioni di lavoratori più giovani.

Le dimissioni volontarie potrebbero certamente essere, come molto si è detto, il sintomo di un mercato in ripresa e di una voglia di mettersi in gioco più marcata, con ambizioni, soprattutto nei Millenials, più sfidanti e diverse. Accanto a questa vivacità professionale, la volontà di interrompere il proprio percorso professionale potrebbe altresì rappresentare la consapevolezza, acquisita dopo due anni di lunga ed isolata pandemia, di una varietà di opzioni possibili personali e lavorative, coltivabili però in un periodo di tempo limitato, che in quanto tale non ammette differimenti o paure legate al cambiamento. I giovani vedono nel lavoro uno dei tanti mattoncini della loro vita, importante sì ma non certo totalizzante. Le prospettive di crescita professionale e retributiva contano ma non a discapito della vita personale e delle passioni che ci rendono unici e per questo diversi. I Millenials insomma non sono disposti a mettere nuovamente da parte chi sono e ciò che amano, non sono più disponibile a rinunciare a quello che li fa sentire bene, perché a loro il Covid ha reso ben evidente, forse più che a noi adulti, come non sia mai possibile tornare indietro e riprendere il tempo passato.

Se allora dobbiamo vivere il presente e lavorare nel presente che senso ha proseguire in un lavoro che non ci soddisfa, che non ci rende sereni o che non ci permette di vivere al meglio la nostra quotidianità, anche e soprattutto personale? L’insicurezza o la paura possono forse rappresentare ancora un freno? E laddove non dovesse esserci la paura, potrebbe essere il perenne senso del dovere a dirci di proseguire, sempre e comunque? Certo non si vuole qui banalizzare il fenomeno ad una incondizionata ricerca della felicità, perché di mondo reale pur sempre si vuol parlare, ma una riflessione va fatta nel constatare come le nuove generazioni siano più inclini al cambiamento ed alla ricerca di un equilibrio di interessi, tra i quali il lavoro sembrerebbe forse non più rappresentare quello fondamentale ad identificare l’individuo come persona tra le altre persone.

Magari i dati del nuovo anno ci mostreranno un’inversione del fenomeno ma se così non fosse ed il trend dovesse essere confermato, varrebbe la pena riflettere sul perché di questo cambiamento e su che cosa cerchino e si aspettino ora dal mondo del lavoro le generazioni più giovani, per poter intercettare le loro esigenze e fornire le giuste prospettive di crescita qui nel nostro paese evitando, come spesso accade, che debbano cercare le loro realizzazioni altrove, dove forse questo cambiamento è già stato intercettato da tempo.