Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Il tarantismo ebraico femminile di Trieste e quel Vescovo nominato dal Congo



di Stefano Sodaro

Il titolo alla Lina Wertmüller del nostro editoriale scoraggerà subito lettrici e lettori in cerca di qualche sensazionale rivelazione sul mondo cattolico triestino dopo la notizia dell’avvenuta nomina, da parte del Papa, del nuovo Vescovo nella persona del parroco cremonese don Enrico Trevisi. La vita, personale e comunitaria, singolare e cittadina, ha – invece - una sua propria complessità che se, da un lato, non si può pensare di risolvere con poche battute e qualche consolante ripetizione di luoghi comuni, dall’altro neppure si può immaginare di confinare in segreti, complotti, giochi misteriosi, eruditismi ed esoterismi vari.

Ha ripetuto spesso Pier Aldo Rovatti che “a Trieste non sai più chi sei”. Svevo, Joyce, Saba, Virgilio Giotti, Basaglia, persino Ignazio Silone - che proprio a Trieste iniziò il suo impegno giornalistico e fu arrestato dai fascisti - perimetrano dimensioni culturali profonde, dentro le quali si muove un’identità indecifrabile, sempre in lotta tra psiche e materialismo, tra pace borghese e mercantile e ansia, quasi angoscia, di rinnovamento. 

Giungerà il momento di fare un sereno bilancio – naturalmente oggettivo e giammai soggettivo - dei tredici anni dell’episcopato di mons. Giampaolo Crepaldi, successore di Eugenio Ravignani e predecessore, appunto, di Enrico Trevisi, in arrivo da Cremona. Ma non è questo il frangente.

C’è una franca, schietta, laicità di Trieste della quale la Chiesa cattolica triestina, almeno da mons. Bellomi in poi, prese – o dovette prendere – consapevolezza. Nel capoluogo giuliano non fa problema incrociare vesti talari di una decina di fogge diverse, sentir sovrapporsi lingue delle più varie provenienze, vedere accanto, a pochi metri l’una dall’altra, la Sinagoga e la parrocchia dei Gesuiti, la monumentale chiesa di Sant’Antonio Taumaturgo (o “Sant’Antonio Nuovo” per i triestini) ed il tempio Serbo Ortodosso di Santo Spiridione.

C’è una febbre che attraversa Trieste sotto le sue strade urbane e le sue vie, laddove scorrono addirittura torrenti che, quando s’ingrossano e tracimano, creano notevoli problemi. 

Il Convegno dell’ormai lontanissimo dicembre 1978 – “Trieste: Cristiani a confronto” (https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1979/september/documents/hf_jp-ii_spe_19790905_pell-trieste.html) –, voluto dall’Amministratore Apostolico mons. Pietro Cocolin, compianto Arcivescovo di Gorizia, e realizzato da mons. Lorenzo Bellomi appena un anno dopo la sua designazione (ed, anche per lui, ordinazione) quale Pastore del Popolo di Dio della Trieste cattolica, giace come una memoria che, sia lecito dirlo, non è stata rivitalizzata, bensì archiviata. E perché? Che cos’è che può spaventare – od entusiasmare – di Trieste al punto da non soffermarcisi più di tanto? Diciamolo senza troppi giri di parole: è la sua follia a spiazzare chi non la conosca, anzi – sbagliato – chi non voglia conoscerla. Questa “follia” – che si può cogliere, ad esempio, dalla meravigliosa esistenza dell’aggettivo dialettale “imborezàdo”, cioè “alterato”, “agitato”, derivante dal nostro protagonista indiscusso della vita cittadina, l’impetuoso ed incoercibile vento di Bora -, questa “follia”, si diceva, non esplode in manifestazioni popolari, pubbliche, spettacolari, bensì resta acquattata in sogni, desideri, progetti, aspirazioni, pensieri, amori inespressi e sofferenze soffocate ed emerge nella parcellizzazione, nello sbriciolamento, nel frastagliarsi e moltiplicarsi di ogni soggettività, di ogni “sé”. 

Il “soggetto” a Trieste è paradigma e prospettiva da cui non si può prescindere. E la costruzione della soggettività triestina ha, secondo l’opinione del sottoscritto, una matrice non cristiana, bensì ebraica. 

Riconosciamolo con onestà e sincerità: Trieste è assai giovane per la sua storia effettiva, a prescindere cioè dalle vestigia archeologiche. Esiste davvero solo dal 1719, dalla patente di Carlo VI che la proclamò “Porto Franco”, è cresciuta, si è espansa sino al dramma dei due conflitti mondiali e poi si è fermata, come rattrappita, e dal Novecento non si è più mossa. Ha centrato il Secolo Breve con un tragico impatto in pieno frontale e da quel trauma non si è rimessa più. Non è guarita. Uno stato cronico che non ha, tuttavia, avuto solo conseguenze di immobilità e troppo lunga convalescenza, ma che ha anche permesso, e permette ancora, di capire come la vita – rieccoci qui – non sia una continua vittoria, un continuo, come si raccomanda oggi, “performare”, un diuturno affermarsi sopra le ostilità e contro nemici d’ogni dove: a volte, spesso, bisogna soccombere, accettare il limite, rimanere in disparte. E ascoltarsi. E ascoltare.

Esiste un ricchissimo patrimonio triestino d’elaborazione di prassi, pensieri e scritture delle donne, ad esempio, di cui si parla ancora troppo poco. La mamma di don Lorenzo Milani – Alice Belà Weiss - era triestina e triestini i suoi nonni materni. E giovedì prossimo, con inizio alle ore 21, sulla piattaforma Zoo, per iniziativa del nostro settimanale e dell’Associazione Culturale triestina “Casa Alta” (https://sites.google.com/view/associazionecasaalta), sarà presentato il volume “Storie di madri. Marie-Anne Robinot, Amelia Pincherle Rosselli, Alice Weiss” di Stefania Di Pasquale (https://www.sefeditrice.it/catalogo/storie-di-madri/9543). La partecipazione è libera, basta richiedere le credenziali di accesso all’indirizzo email: casa.alta@virgilio.it

L’interiorizzazione psichica del vivere a Trieste dà forma, in certo modo, ad una ritualità tutta particolare, che molto somiglia a quel singolare fenomeno del meridione d’Italia, noto come “tarantismo”, su cui Ernesto De Martino scrisse un’opera memorabile – “La Terra del rimorso” -, appena riedita da Einaudi. 

E per singolare, singolarissima, coincidenza, il Papa, Vescovo di Roma, ha disposto la nomina episcopale di don Enrico Trevisi – che sarà ordinato vescovo proprio in quanto inviato a Trieste (e non dunque in forma, chiediamo scusa ai canonisti, per così dire “assoluta” [tecnicamente le ordinazioni episcopali non sono mai “assolute” e neppure dovrebbero esserlo quelle presbiterali]), - durante il viaggio apostolico in Congo. In quel Sud della Terra, strettamente imparentato con il nostro Sud.

Si intersecano, dunque, segni di potenza simbolica nuova, inedita per Trieste, che indicano una direzione in cui passato, presente e futuro abbracciano e fondono insieme l’unica traiettoria del tempo, al termine del quale – alla fine dei tempi, sì – entrare nei nuovi cieli e nella nuova terra.

Un po’ come accadrà – si parva licet componere magnis – con il nostro settimanale, che compirà la prossima domenica il suo settecentesimo numero.

Buona domenica.