Foto di Paola Cazzaniga




L’erranza 

parte 2


di Miriam Camerini



Mi sento come un ombrello: quando sono lì sono aperta, quando ho finito mi chiudo e vado via, pronta a riaprirmi da un’altra parte.

Questi mesi sono stati così: a fine dicembre tutto era grigio, Milano era triste e sospettosa, le persone si guardavano un po’ in cagnesco e un po’ con quell’aria affranta che pare dire: “Io non ce la faccio più, e tu?”.

Io ero entrata un po’ nella stessa modalità, pur tentando di mantenere rapporti caldi e grandi abbracci con le amiche e gli amici più cari, pur tentando di stare in contatto con la mia famiglia e con chi pareva più solo.

La prospettiva di non lavorare – quantomeno non dal vivo - per ancora chissà quanti mesi non migliorava le cose: alla paura concreta della mancanza di entrate si aggiungeva la pesantezza del non sentirsi utili, vivi, presenti. Un artista che non può stare con il suo pubblico è quasi morto, tutto fluttuava in un vuoto, ovviamente il meteo non aiutava: settimane e settimane di pioggia, di grigio, di freddo.

Una sera un’amica fra le mie più care mi ha chiamata: era partita da pochi giorni da Milano per Nizza, dove ha famiglia. Avevano deciso di affittare un appartamento a Marsiglia e passare qualche giorno al mare. Con semplicità mi ha proposto: “Perché non ci raggiungi? Posto ce n’è”. Il tempo di guardare i treni e la decisione era presa: viaggiare in aereo non mi è mai piaciuto e in Europa cerco con sempre maggior perseveranza di evitarlo a ogni costo; in tempo di pandemia poi l’aeroporto è un girone dell’infermo inferno, le stazioni molto meno, in stazione ci si sente ancora quasi sani.

Sono partita prima dell’alba nella neve di uno degli ultimissimi giorni dell’anno solare (anche se il sole non si vedeva da giorni): alla stazione di Milano si aggiravano nella penombra figure malcerte che firmavano auto-certificazioni poggiandosi le une sulla schiena delle altre, come fuori dal liceo, quando si decideva di saltar la scuola. Io mi ero preparata e stampata per tempo una scusa quasi plausibile per lasciare l’Italia già chiusa e avevo chiuso facilmente una valigia piccola ma piena di golf di cachemire, per una settimana o poco più.

Del buio di quella mattina di fine dicembre ricordo la neve che luccicava nella campagna fuori Milano, già verso la Liguria, l’arrivo a Genova, il blu del mare che non vedevo da mesi, il sole su Savona, la scoperta del Ponente, nuovo per me che da quando sono nata passo le vacanze a Levanto (da dove sto scrivendo anche ora).

A ora di pranzo ero già a Nizza, la quiche di verdure durante il cambio treno, fuori dalla stazione in pieno sole, al caldo, finalmente al caldo: il viaggio era iniziato.

Il treno per Marsiglia era bellissimo, vicino a me una famiglia tipicamente francese: molti bambini ma poco rumore, un sogno. A Marsiglia sono rinata: i miei amici mi aspettavano alla stazione e mi hanno portata subito a vedere il porto, respirare il mare, guardare il tramonto all’orizzonte.

Quella mattina a Martigue, un villaggio della costa a ovest di Marsiglia, avevano comprato del pesce direttamente da un pescatore, ancora nella rete: l’abbiamo fatto alla griglia e scoperto che aveva dentro anche le uova, promessa di fertilità e abbondanza per l’anno in arrivo.

Il Capodanno è stato felice: una passeggiata nel pomeriggio della vigilia fra i fiordi fuori città mi aveva ricordato una delle formule che si recitano per il Capodanno ebraico: “Finisca l’anno con le sue maledizioni, inizi l’anno con le sue benedizioni”; semplice e incisivo.

A mezzanotte in casa russavano tutti dopo una cena a base di cous-cous di pesce, che unisce Trapani a Tunisi e per riflesso d’immigrazione anche la Francia del sud-est.

Abituata oramai a pensare in maniera transatlantica, ho brindato su Skype con un amico a Montreal, per il quale erano ancora solo le sei di sera: porto marino chiama porto fluviale e le lingue sono il francese, l’inglese, l’italiano, l’ebraico, il russo e lo yiddish, lingua di erranza.

La mattina del primo dell’anno era un venerdì; io e Margherita ci siamo alzate felici, circondate da un’aria di nuovo, dall’odore pulito che veniva dal mare in tempesta e dalla pioggia fuori, una pioggia da città di porto, caotica, allegra e ribelle.

Siamo andate a fare la spesa per lo Shabbat, il primo dell’anno solare nuovo, nelle molte macellerie del quartiere ebraico di Marsiglia, pieno di ebrei immigrati dal nord-Africa: cous-cous, salsicce piccanti di carne ovina, agnello e bottarga da tutte le parti. The con foglie fresche di menta e pinoli, datteri e dolci di mandorle e di sesamo: il Medioriente era già sulla soglia.

La mattina dello Shabbat sono andata in sinagoga, la stessa dove si erano sposati i nonni della mia amica, in piena II guerra mondiale, nella Francia di Vichy. Quel giorno - il secondo del 2021 - si finiva di leggere il primo libro della Torah, la Genesi, Bereshit, iniziato in autunno: un brano per volta, capitolo dopo capitolo, da metà ottobre a inizio gennaio, ci eravamo portati dal giardino dell’Eden al deserto dei patriarchi, dalla terra di Canaan a quella degli Aramei per poi finire in Egitto con Giuseppe, i suoi fratelli, il grano imprigionato nei silos a seguito del sogno e la carestia.

Per lunghe settimane, in assenza di teatri, di cinema, di mostre e di concerti, mi ero trovata a desiderare con impazienza che giungesse il Sabato per ascoltare, in sinagoga, la lettura cantillata dal rotolo della Torah delle meravigliose storie del libro della Genesi: lì avevo capito la funzione sacra del teatro, o forse, piuttosto, la funzione teatrale del sacro, la nascita del teatro medievale sui sagrati delle chiese, le processioni e i riti tragico-pagani dei greci e dei romani…

Ciò di cui l’umano ha bisogno, in fondo, è sentir raccontare delle storie.

Mesi dopo un amico dei miei genitori, mio professore di Letteratura all’università di Gerusalemme, mi mostrerà un racconto di Borges in cui, mentre Averroè si arrovella nella solitudine della sua stanza per comprendere il significato della tragedia nell’Aristotele che sta traducendo, incomprensibile a lui cui l’Islam ha bandito il teatro, a Cordova, nella corte sotto le sue finestre, tre bambini giocano: uno è il minareto, un altro il muezzin e un terzo il fedele che accorre alla preghiera; il bel gioco dura poco perché nessuno dei tre vuole essere il minareto, e Averroè continua a cercar di tradurre inutilmente, senza comprendere che il teatro è proprio lì.

Quella mattina di inizio anno, nella grandiosa sinagoga del napoleonico Concistorio di Marsiglia, mentre i calorosi ebrei dei paesi del Nord Africa si scambiano proibitissimi abbracci, baci e strette di mano, mentre gli ashkenaziti, ebrei franco-tedeschi e ligi alle regole si disinfettano le mani prima e dopo aver letto dal rotolo della Torah a cauta distanza, le parole dell’ultimo patriarca Giacobbe che prima di morire benedice Giuseppe, ritrovato in Egitto vicerè dopo averlo creduto morto sbranato da una fiera per tristi e lunghissimi anni, mi commuovono fino a farmi piangere: “Di vedere il tuo volto non osavo immaginare/desiderare/pensare ed ecco che l’Eterno mi ha mostrato perfino la tua progenie.” (Genesi 48:11).

A volte bisogna saper immaginare/desiderare/pensare a una realtà migliore, per poi raggiungerla con l’aiuto di Dio. Tutte parole che in ebraico stanno dentro a quel verbo usato da Giacobbe sul letto di morte e da cui deriva l’ebraico per tefillà, preghiera.

L’anno nuovo è iniziato, con le sue benedizioni.