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Nella Limentani e Rahamin Coen il giorno del loro matrimonio al Tempio Maggiore di Roma il venti aprile 1958 celebrato dal Rabbino Davide Prato. - Autore della foto: Amedeo Astrologo - Licenza: eredi Amedeo Astrologo - Fonte: commons.wikimedia.org


Il matrimonio è un contratto: mai o sempre? Di corpo e sangue?

di Stefano Sodaro




Domenica del “Corpus Domini”, oggi, secondo il rito romano ed il calendario della Chiesa Cattolica Italiana.

Più che il cosiddetto “Miracolo di Bolsena”, viene però alla mente il Giovedì Santo, quell’Ultima Cena del 14 del mese di Nisan: una cena pasquale strettamente ebraica da ogni punto di vista – compreso il gesto della lavanda dei piedi – (alla quale peraltro nessuno può mai pensare che le donne non abbiano ben partecipato, poiché, lo sappiamo, la storia, ahinoi, è scritta dagli uomini, maschi, e non dalle donne).

Esiste un’espressione al limite dell’indicibile che proprio per questo non può ritenersi propria di alcun consesso liturgico.

“Ti amo tanto che ti mangerei”, sono parole da riservarsi all’intimità di un incontro, per appunto, intensamente amoroso, al riparo da ogni sguardo che sarebbe non solo indiscreto ma davvero violatore, persino “violentatore”, uno sguardo da stupro.

E viene anche naturale ritenere, supporre, immaginare che il contesto matrimoniale sia uno dei più appropriati per tanto ardire verbale, e non solo verbale.

Ma è proprio così?

Il § 2 del can. 1055 del Codice di Diritto Canonico afferma, in termini assolutamente perentori: “tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento.”

Dunque, nonostante ogni propensione per una fondazione matrimoniale sull’amore, tra i due che si amano parrebbe esistere un vero e proprio contratto. Contratto con quale oggetto?

Il passaggio tra piani imparagonabili si configura subito, con una qualche sorpresa di noi romantici e romantiche: quel contratto si fa, si farebbe – in forma ipotetica per chi non ne è così convinto/a – addirittura “sacramento”, segno di grazia divina, occasione sacra di partecipazione alla stessa vita di Dio in forza della Sua incarnazione. Un pochino strabiliante.

Quale contratto mai può avere dimensioni simili? Un atto giuridico che diventa niente poco di meno che sacramento, anzi – meglio – che lo è intrinsecamente (non lo diviene in un altro separato momento) “tra i battezzati”?

Sconcertante. “Disruptive”, come si dice oggi.

Cerchiamo di restare al di qua della soglia del pudore: un matrimonio “bianco” non è un “vero” matrimonio. Il corpo ed il sangue sono dunque di necessità coinvolti nell’amore e nel matrimonio.

Pare, allora, che il pasto eucaristico riesca – paurosamente o incredibilmente o stupendamente, dipende dalle attitudini personali, dalla sensibilità di ognuno/a – a realizzare il desiderio, pressoché irriferibile, di “mangiare chi si ama”, di nutrirci dell’intero essere di chi amiamo, un essere che, diversamente da quanto ritenuto in ben altre epoche, peraltro di durata millenaria, non esiste senza corpo e sangue.

Ma contratto, quella “realizzazione sacramentale della follia amorosa” – chiamiamola così -, resta. Di per sé l’art. 1321 del codice civile descrive in modo preciso un contratto: “Il contratto è l’accordo di  due  o  più  parti  per  costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale.”

Nell’amore non ci sono “componenti patrimoniali”? Beh, non è proprio così. Chi lascerebbe mai il proprio amato, la propria amata, senza mezzi economici, senza possibilità di disporre di un proprio benessere monetizzabile, ed anzi chi non desidererebbe incrementarlo?

Ipotizziamo una situazione che presenti una polarizzazione designata, da un lato, dall’espressione – tipica, ad esempio, della cosiddetta “friendzone”, ben nota al mondo giovanile – “non posso e non potrò mai ricambiare il tuo amore”, e, dall’altro, un apparente rovesciamento di tale lapidario respingimento amoroso con le sole tre parole “io sono qui”, pronunciate dal medesimo interlocutore, o dalla medesima interlocutrice, verso il medesimo, o la medesima, amante respinto/a. Le cose, appunto, non sembrano poter andare assieme. O non puoi e non potrai mai, o sei qui. Da una parte un mai, dall’altra un sempre.

Tuttavia la nostra rigidità mentale all’insegna dell’aut aut, dell’alternativa secca – o di qua o di là – s’infrange proprio davanti ad una contrattualistica che sia ripiena d’altro, che anzi coincida con una sostanza altra, con espressioni altre, con linguaggi neppure, lo si è detto, riproducibili, per troppa, insostenibile, passione amorosa. “Tutt’altro”, già.

Con qualche ulteriore “annotazione” possibile nel mondo cristiano – “tra battezzati” -. Perché tutti e tutte mangiano quel medesimo pane eucaristico, e bevono quel medesimo vino (ma così è, salvo smentita e correzione, anche nella liturgia ebraica). Una specie di “matrimonio di gruppo”? Una specie – absit iniuria verbis – di sacralizzazione, o sacramentalizzazione, del poliamore?

Probabilmente è meglio fermarsi qui.

E si possono concludere – forse – simili azzardatissime considerazioni riflettendo sul fatto, certo, oggettivo, indubitabile dal punto di vista giuridico, che qualunque contratto si può sciogliere, essendo addirittura contrario ad ordine pubblico un insostenibile principio di “perpetuità dei vincoli obbligatori”, e, corrispettivamente, che qualunque contratto, pur risolto, cessato, concluso, può essere di nuovo stipulato, e può anche conoscere il fenomeno che la dottrina del diritto descrive come “reviviscenza contrattuale”.

Insomma, unire contratto e sacramento significa appropriarsi di una contraddizione, per così dire “salvifica”, unire un eventuale non poter amare con la disponibilità ad “essere qui” per lui, per lei.

Perché non esiste amore vero senza sofferenza, altrettanto vera.

Mettere assieme contratto e sacramento, stretto diritto ed ulteriorità entusiasmante, fa soffrire, ma quel “corpo e sangue” – oggi celebrato nelle chiese cattoliche – è di un uomo che ha spaventosamente sofferto. Ed è risorto.

L’amore resta un mistero, in tutte le sue forme.

Il matrimonio, più modestamente, ne è solo il segno, mutevole, variabile, eppure così importante proprio perché relativo, e molto, nelle sue forme.

Che “matrimonializzare” la vita sia la sfida dei nostri giorni?

Buona domenica.