Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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4. Il Centro educativo riabilitativo




Per un anno intero, mentre terminavo gli studi, ho lavorato in un C.E.R. , ovvero un Centro Educativo Riabilitativo: una struttura diurna, non residenziale che accoglie al suo interno i ragazzi con disabilità - “diversamente abili” sa di pietosa menzogna, specie quando sono gravissimi. Già l’uso di un acronimo, parola che inizio a trovare insopportabile, tanto se ne fa uso oggi per sbandierare un’efficienza delle istituzioni, falsa e irraggiungibile, tende a “marcare” la differenza. Entrare in un C.E.R per medio-gravi e viverci dalle 7 del mattino fino alle quattro del pomeriggio, è come compiere un viaggio dimensionale in un’isola situata fuori dal tempo e dallo spazio, dove ogni cosa pare rallentare. L’aggravante, dal punto di vista spaziale, ma anche ciò che più lo faceva funzionare, era il relativo isolamento. Il C.E.R. “Airone” - questo è il suo nome, dovuto alla presenza o meglio al ritorno in zona di questi meravigliosi trampolieri - era infatti situato nelle campagne, a Salvatonica di Bondeno, un minuscolo paese in provincia di Ferrara. La lontananza dai centri abitati faceva sì che ogni attività si svolgesse all’interno del centro. Tranne poche uscite alla settimana in cui con l’ausilio di un pullmino attrezzato, portavamo i ragazzi in piscina a Bondeno, oppure al mercato, eravamo sempre e comunque noi sei – due educatori professionali, tre operatori socio-sanitari ed un obiettore – ad occuparci dei nostri ospiti e ad organizzare i laboratori e la riabilitazione che si facevano per il mantenimento delle autonomie residue. Eppure tutto questo non pesava, anzi. Occuparsi dei bisogni primari di una persona, alimentarla, accudirla nelle cure igieniche, mobilizzarla con attenzione, è quanto di più gratificante ci possa essere. Ogni sera tornavo a casa con una sensazione di diffuso benessere: ero utile, anzi indispensabile ad altri ed il mio cuore metteva in circolo, ad ogni battito, l'amore raccolto durante la giornata. Ero inoltre grato al Signore per aver messo sulla mia strada persone come Angela e Paola, le due educatrici, che però si alternavano con noi operatori – io, Rita e Miriam, due manuali viventi dell’OSS – nelle cure igieniche e alla persona. In pratica non esisteva un “mansionario”, persino dalle divise che avevamo scelto di adottare (pantaloni bianchi e polo colorate, più un eventuale giacchettino blu di lana per il freddo), e dalle nostre riunioni del giovedì pomeriggio – che non a caso chiamavamo i “Collettivi” - traspariva tutta la nostra indipendenza, la nostra autonomia.

Mi mancano molto quei giorni in cui tutto pareva leggero, le pause pranzo, passate a ridere e scherzare, il giardinaggio, le uscite, fieri ed orgogliosi dei nostri pupilli – che, vi assicuro, non si confondevano affatto fra la folla del mercato.

Ho imparato che il tempo può assumere diverse velocità, creare dimensioni di giocosa allegria, quasi in francescana letizia interrompevamo routine fatte di immobilità, di stasi – i gravi in carrozzina erano tre – ma loro, in compenso, insegnavano a noi il tempo della lentezza, il radicarsi della vita nei corpi segnati dalla genetica, dalla malattia, dagli incidenti.

Come dimenticare poi i genitori di questi ragazzi.

Pochi gli uomini, che generalmente – e lo dico con somma vergogna, anche in base ad altre esperienze – mollano, specie se l’evento traumatico si è verificato alla nascita, e si rifanno una famiglia.

Però noi eravamo fortunati.

Avevamo quasi tutti i padri, ed erano encomiabili, proprio come le madri. Entrambi i genitori avevano visto i loro figli esaurire il percorso scolastico e non saper più cosa fare, poiché non in grado di intraprendere una professione. A loro toccava il compito più gravoso: la quotidianità, e non tutti erano riusciti a fare del loro figlio/a una risorsa. Ma è facile dirlo a parole.

Ancora adesso quando sento quest’espressione in bocca a qualcuno che non ha figli disabili, usata in senso critico verso un altro genitore, per un brevissimo attimo, lo ammetto, vorrei che gli si incrinassero i denti, tanto so ed ho visto l'immensa fatica di madri e padri che non possono e non vogliono mollare nemmeno un minuto, causa la gravità della patologia che ha colpito il figlio. Ricordo carezze con le lacrime agli occhi, sfoghi e confidenze al limite d’ogni miseria umana, ma ricordo anche una presenza ed una gratitudine costante negli incontri mensili che avevamo con loro.

Si presentavano, in quelle mattinate di fine mese, vestiti a festa, con giacche eleganti, vestiti nuovi e capelli freschi di parrucchiera.

Era il loro momento, come assistere alla laurea del figlio, sostituita dai resoconti di Angela, la nostra referente, pieni di amore ed obbiettivo riconoscimento dei progressi e del lavoro svolto da tutti noi.

Per un’ora circa non v’era più differenza alcuna, ogni diversità sembrava sparire: eravamo una scuola, non più solo un centro educatico-riabilitativo, una scuola di quelle modello. Eravamo – e solo ora me ne rendo conto – una famiglia, una grande e bellissima famiglia allargata.