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Marc Chagall - Vetrata della Cattedrale di Chichester ispirata al Salmo 150, anno 1978




Benediciamo l’amore, purché folle



di Stefano Sodaro




Durante la settimana si sono affollati – com’era inevitabile e com’è giusto – i commenti, per lo più critici, e molto, sull’ormai celebre Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede quanto alla possibilità di benedire l’unione di persone dello stesso sesso (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/03/15/0157/00330.html).

La possibilità è stata negata - diciamo pure: severamente - sullo scontato presupposto che di mezzo vi sia un’esplicazione della sessualità in modalità ritenute contrarie al celebratissimo, esaltatissimo, augustissimo, “diritto naturale”.

E tuttavia, anche qualora due persone omosessuali - per esempio due fratelli o due sorelle, od anche due amiche e due amici non innamorati l’una dell’altra o l’uno dell’altro – si sentissero in una profondissima unione, la benedizione dovrebbe essere, a rigore di Responsum, negata.

Ci si potrebbe chiedere, senza alcuna verve polemica, se tale divieto possa riguardare anche ambienti ecclesiastici, canoniche, conventi, seminari, dove fraternità omosessuali possono essere presenti, speriamo serenamente e nonostante i ripetuti divieti – ma qui è tutto un divieto? – di accesso agli ordini per chi avverta e viva il proprio orientamento omoaffettivo.

Rivoltiamo la domanda: se il sesso non è presente in quell’unione, se gli “acta” – per pudore non specifichiamo altro – non vengono compiuti, realizzati, se insomma entrambe o entrambi i, o le, componenti della relazione unitiva si comportano “come fratelli e sorelle”, la benedizione ha da essere comunque negata? Diciamo “entrambe o entrambi”, ma non necessariamente ogni unione è costituita da una coppia: potrebbe trattarsi di un’ “unione” di due padri o due madri con la rispettiva prole che decidono di vivere comunitariamente assieme. Anche in tal caso “niet”?

La Congregazione al riguardo, ad una prima lettura, sembrerebbe piuttosto precisa: benedizione possibile in tali casi, poiché il Responsum appunto afferma che «non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio.»

Il problema sta dunque, tutto quanto, nella “prassi sessuale”. Che mai significa? Quando una prassi è sessuale e quando no? Che cos’è una “prassi sessuale”?

Perché prima della specificazione sulla decisiva presenza – “scriminante” direbbero i giuristi - della “prassi sessuale”, il Responsum altresì dichiara: «(…) quando si invoca una benedizione su alcune relazioni umane occorre – oltre alla retta intenzione di coloro che ne partecipano – che ciò che viene benedetto sia oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore. Sono quindi compatibili con l’essenza della benedizione impartita dalla Chiesa solo quelle realtà che sono di per sé ordinate a servire quei disegni.»

Dunque proviamo a ricostruire: vi sono – a detta della Congregazione per la Dottrina della Fede – “prassi sessuali” che contaminano una relazione al punto tale da renderla peccaminosa, epperò è specificato anche un altro decisivo requisito per l’impedimento benedizionale, e cioè che le prassi sessuali, implicate dalla relazioni per le quali si chiede la benedizione, avvengano “fuori dal matrimonio”.

In verità allora, dopo la prima lettura, si rimane un pochino (solo un pochino) confusi: “dentro il matrimonio” è dunque sottintesa un’ampia benedizione, addirittura sacramentale, di qualunque “prassi sessuale”?

In altri termini: sono ostative alla benedizione le caratteristiche della “prassi sessuale” – che la canonistica postulerebbe sempre ed esclusivamente come “copula perfecta” -, oppure è ostativa la natura extramatrimoniale di tale prassi quale che sia?

Siccome manca un po’ il fiato, almeno al qui scrivente, nel seguire colli e declivi del ragionamento curiale – pur rispettabilissimo, sia chiaro -, viene il desiderio di svolgere lo sguardo completamente altrove ed è presumibile che possa trovare spazio un’amplissima obiezione di coscienza al divieto imposto dal Responsum da parte di schiere di benedicenti. E perché?

Perché l’amore è benedetto, anzi Il Benedetto.

E purché sia scevro da violenza, e sia rispettoso di ogni sensibilità, esigenza, attesa, desiderio, non si comprende come qualunque amore non possa manifestare un’evidenza sacramentale – sì, non semplicemente “benedizionale” (ché poi c’è tutto un arzigogolo teologico nel distinguere tra “sacramenti” e “sacramentali” [sostantivo], ma nel mantenere, per i sacramenti, l’aggettivo “sacramentale” ed invece l’aggettivo “benedizionale” per i “sacramentali” [sostantivo], c’è effettivamente da andare fuori di testa) –, si diceva: come si può negare che sia sacramento, cioè evento di grazia della presenza effettiva del Cristo, ogni realtà di amore, a prescindere dalla sua configurazione canonica od anche etico-normativa?

Siamo sinceri, e sincere: non si può legiferare sull’amore; questo sì che sarebbe peccato, e grave molto.

Dovrebbe divenire testo di riferimento di ogni riflessione credente sull’amore il Cantico dei Cantici, nient’altro.

Anche il cosiddetto “precetto dell’amore” evangelico dovrebbe essere letto alla luce del Cantico, e non il contrario, perché Gesù era ebreo e lo è per sempre.

Cambierebbe l’universo di riferimento.

Il matrimonio non è recinto dentro il quale si entra, ma porta spalancata sull’infinito dell’amore: include, non esclude; altrimenti quale virtù conterrebbe, di quale “buona notizia” per il mondo sarebbe portatore?

Resta un pensiero dirompente, “disruptive” si dice oggi, salvificamente “folle” direbbe qualche spirituale: che solo il monaco e la monaca sappiano in realtà cosa sia il matrimonio e che solo chi ama matrimonialmente – qualunque realtà con ciò si possa significare – sappia cosa sia in realtà il monachesimo.

Il monachesimo non è questione di ambienti ed abiti, o non soltanto, ma è capacità di fare unità, sintesi – monicità polinomica - , rimanendo “pluriversi”.

E non facciamola complicata pure noi però: ciò che conta è amare.

Le prassi sessuali sembrano assai poco importanti a confronto con l’amore e, soprattutto, non suscettibili di una considerazione avulsa dal contesto amoroso, dalle loro motivazioni d’amore, dal loro significato amoroso. Ma poi appunto: che cosa sono le “prassi sessuali”? Dobbiamo dedurne una definizione dai tribunali chiamati a punire i “crimini sessuali”? Sarebbe un orrore.

Ma allora come ne veniamo fuori?

La benedizione di Dio ci sarà: al limite ce l’amministreremo fra di noi - le benedizioni non sono riservate ai chierici -. Ci benediremo in uno, due, tre, quattro, sposati, sposate, non sposati, non sposate, innamorati, innamorate, delusi, deluse, traditi, tradite, nonostante qualunque cosa in contrario.

Ci benediremo in umiltà e gioia, forse pure in silenzio, fraternamente e sororalmente tutte e tutti sposate e sposati gli uni alle altre.

Ed anche dagli uffici della Congregazione, ne siamo convinti, salirà un benedicente sorriso.

Buona domenica.

E Buona Primavera.