The Rabbi is in


Ungheria


di Miriam Camerini

Non è stata una settimana facile. Mi sento io stessa completamente profuga, non so dove voglio stare, con chi, perché e a fare che cosa. Sto perdendo molto tempo e sprecando molti talenti, temo..

Sono di nuovo allo Zsivago, il caffè di Budapest in stile russo dell’800 che mi ha fatto scoprire Manuel, e di cui ho il bel ricordo di un venerdì pomeriggio di inizio inverno, con la cioccolata calda e i vetri appannati. Oggi è primavera, ancora timida, ma calda, soleggiata e con le gemme sugli alberi. Ho passato il pomeriggio a cercar di capire che cosa posso fare, come posso essere utile, dacché sono venuta fin qui per aiutare i profughi dell’Ucraina.

Sono in Ungheria oramai da dieci giorni, salvo 24 ore a Vienna per il compleanno di un amico direttore d’orchestra sabato scorso sera, e trovare il da fare è assai difficile: la scorsa settimana ho trascorso qualche ora, per un paio di giorni, in una delle stazioni, dove un banchetto allestito sul piazzale fornisce ai molti che arrivano da est – donne, soprattutto, con anziani e bambini – un primo momento di accoglienza.

Le persone sono molto generose e gran parte del mio lavoro consiste nello smistare e organizzare e separare lo shampoo dall’omogeneizzato, i pannolini dagli assorbenti e le scarpe dalle coperte, che incessantemente arrivano e vanno via, proprio come le persone. Cerco di usare le mie poche parole di russo (forse una dozzina) per comunicare con i nostri “avventori”, capire di che cosa hanno bisogno, offrire un sorriso di incoraggiamento.

L’indomani ho un’altra idea: alcune famiglie sono ospitate in quattro alberghi messi a disposizione dall’Agenzia ebraica; alcuni andranno da lì in Israele, altri no, alcuni sono ebrei, molti altri no, ma nel frattempo sono assisti da Israele e instancabili volontarie ventenni mandate qui apposta si occupano di loro.

Mi avventuro in uno degli alberghi (ho impiegato giorni per capire qual è) il pomeriggio di Purim, la festa ebraica più allegra, con dolci e maschere, travestimenti e il rotolo di Ester, e cerco di radunare un po’ di bambini nella stanza a loro dedicata. Non è facile e non succede subito, anche perché la barriera linguistica è forte, ma a un certo punto il miracolo avviene e i bambini smettono di urlare, picchiarsi, piangere e correre qua e là e si riuniscono invece attorno a me, partecipano al limbo che sto proponendo, cantano con me una canzone, sono incuriositi dalla pergamena arrotolata che ho portato con me per leggere da essa la storia biblica di Ester. Dura poco, meno di mezz’ora, ma vedo che le madri e i pochi padri sono sollevati: per un momento hanno tregua, per un attimo vedono i bambini un po’ più sereni e allegri. C’è un bambino in particolare, Dimitri, di 5 o 6 anni, con dei denti tremendi di cui evidentemente nessuno si è curato mai, tutti neri e un po’ rotti, che viene continuamente a cercarmi, vuole stare in braccio e piange se appena contrariato. “La madre non c’è”, mi spiega il padre, Dimitri anche lui: “è andata in Russia anni fa” e lui è lì da solo con questo figlio e con una ragazzina un po’ più grande, Angelika; forse è per occuparsi di questi due figli senza madre che ha avuto il permesso, uno dei pochissimi uomini sotto i 60 anni, di lasciare il Paese? Difficile saperlo, ora che si è allontanata Ludmilla, l’insegnante di inglese in pensione, anche lei di Kiev, che prima ha percorso la strada verso l’albergo assieme a me e Dimitri, traducendo qualche cosa. Alcuni giorni passano solo facendo la spesa, quantità enormi di scatolame da caricare e scaricare, inscatolare e smistare...

Sabato sera prossimo ci sarà un nuovo trasporto di cibo di là dal confine: mi commuovo a leggere i bigliettini che alcune bambine e bambini di qui hanno scritto per le loro coetaneee al di là della linea: non posso leggerle, ma sono certa che dicano cose dolcissime. Fra qualche giorno le trasporteremo e il pensiero un po’ mi solleva.


Foto di Paola Cazzaniga