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Messa di saint Grégoire Heisterbach, Maestro de la Sainte Parenté le Jeune, 1475-1515 - Colonia - immagine tratta da commons.wikimedia.org




Il sacrificio della Messa


di Dario Culot

Secondo l’insegnamento del magistero, la messa è un sacrificio cultuale[1] (nn. 1088, 1113 e 1366ss. del Catechismo), nel senso che accanto al sacrificio di Cristo interviene l’opera umana, sì che tante più messe e tante più offerte si fanno da parte degli uomini, tanta più grazia scende dal Cielo, perché ai sacrifici Dio risponde contraccambiando.

E per cancellarci ogni dubbio al riguardo, durante il rito della celebrazione eucaristica, che è l’apice della messa, il sacerdote dice proprio la parola sacrificio: “Prese il pane, benedì, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse loro: «Prendete e mangiate questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi»”. Ci è stato cioè insegnato che Gesù, Figlio di Dio, è venuto al mondo perché così volle il Padre affinché, mediante il dolore e il fallimento della sua passione e morte, salvasse noi uomini, condannati alla perdizione eterna a causa dei peccati. Sacrificio e sofferenza sono così diventati la base della dottrina insegnataci.

Però, se mai dovesse capitarvi di seguire una messa in Spagna, in sud America o negli Stati Uniti, non sentirete mai questa parola sacrificio (usata solo in Italia), ma sentirete: “Questo è il mio corpo dato (o donato) per voi”.

Ecco allora che a maggior ragione salta subito fuori un intrigante sospetto, e la vera domanda è: perché noi in Italia abbiamo questa parola sacrificio, tanto più che in nessuno dei quattro resoconti dell’ultima cena (Mt 26, 26-30; Mc 14, 22-26; Lc 22, 15-20;1 Cor 11, 23-25) compare questo termine?[2]

L’antropologo svizzero Walter Burkert ha messo in chiaro che tutti gli ordinamenti e le forme di potere della società umana si fondano su una violenza istituzionalizzata. Chi spera di trovare nella religione una redenzione da questo “cosiddetto male”, si trova dinanzi al fatto che anche a fondamento del cristianesimo c’è un assassinio, la morte dell’innocente figlio di Dio. E nell’Antico Testamento basterà ricordare il sacrificio di Isacco. Quindi, proprio nel cuore della religione, incombe, affascinante, la violenza sanguinaria[3]

Per un ateo, parlare della messa come di un sacrifico cultuale significa porre in essere un atto di superstiziosa soggezione nei confronti di una presunta divinità.

Ora, è vero che il sacrificio ha sempre occupato un posto centrale nelle religioni. Sembra che gli dèi tutti gradissero l’immolazione di un animale (in altre culture anche di un uomo), cioè la distruzione di una vita, che si trasforma in vittima[4]. Esiste cioè da sempre un legame profondo fra religione e violenza quando l’atto supremo della religione sta nel sacrificio, perché l'azione sacra, eseguita nel luogo sacro, nel giorno sacro, dalla persona sacra a ciò addetta, consiste nell'uccisione cruenta della vittima[5]. Il sacrifico religioso è in realtà sempre abbinato al sangue, e non può fare a meno del sangue,[6] e allora anche il cristianesimo – finché ce lo spiegano così - appare solo un ritocco dell’originaria struttura di base di tutte le civiltà primitive: l’azione sacra del sacrificio cruento.

Ora, che abbiamo raggiunto un livello maggiore di sensibilità anche nei confronti degli animali e delle loro sofferenze, cominciamo a porci delle domande che per secoli nessuno si era mai posto: ad esempio, nessuno aveva mai fatto caso all’ariete sacrificato al posto del figlio da Abramo. Oggi cominciamo ad interrogarci sulla sua sofferenza; e perfino su quale sarà stata la sofferenza della madre di quell’animale. Se Maria ha sofferto per la morte del sacrificio del figlio, perché la madre dell’ariete non avrebbe dovuto soffrire? Ma forse già bastava leggere la Bibbia, per capire che non era vero che il sacrificio era gradito a Dio ottenendo in cambio la sua protezione o la sua assoluzione: infatti fin dall’inizio ci vien detto che Dio ha molto gradito il sacrificio di Abele, ma non per questo l’ha preservato dalla morte per mano di Caino (Gn 4, 4-8). Oppure basta leggere Is 1, 11[7] per capire che Dio proprio non sa che farsene dei nostri sacrifici: «Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?...non so che fare del sangue di tori, agnelli e capretti. Le vostre offerte sono inutili…».

In effetti, che se ne fa Dio dei nostri sacrifici, delle nostre sofferenze? Questo non ce l’hanno mai spiegato. Come fa il magistero a parlarci di una ‘Lieta Novella’ quando la salvezza si ottiene mediante la sofferenza, come dimostra la morte in croce di Gesù? Dio stesso ci ha creati imperfetti, peccatori, e poi per questa imperfezione addebitabile a Lui stesso ci condanna, quando per di più poteva fare con tutti come ha fatto con la Madonna, resa esente dal peccato, compreso quello originale. Allora, visto che se lo ha fatto con la Madonna poteva farlo con tutti, perché non ci ha creati come lei? Non era più facile per Lui e per noi? Oggi, nella nostra cultura e con la nostra mentalità, far dipendere la storia della salvezza da una richiesta divina di un sacrificio umano suona inaccettabile:[8] torniamo ad Abramo al quale viene chiesto di sacrificare il figlio Isacco. Inutile aggiungere che intesa la salvezza in questi termini (siamo salvati dal sangue) è difficile discostare l’idea che mangiare la carne umana e bere il sangue umano nell’eucaristia non sia un atto di cannibalismo.

Stando però ai vangeli, Gesù non invitava a soffrire per avvicinarsi a Dio; al contrario, lui si attivava per alleviare le sofferenze; accoglieva quelli che nessuno voleva, parlava di Dio come di un Padre che ama tutti, accoglie tutti, non rifiuta mai nessuno. Questa può essere ancora oggi una ‘Lieta Novella’.

E poi, chi accetterebbe di buon grado di essere salvato col sangue di un innocente? Se Dio in persona ci dicesse: “Guarda, tu ti puoi salvare dalla mia ira, se accetti che faccia a pezzi questo bambino indifeso, che ovviamente non c’entra nulla con i tuoi peccati,” staremmo lì a ringraziare e a esaltarci per quanto è buono questo Dio, quanto è misericordioso? Se Dio avesse veramente voluto il sangue di un innocente, sarebbe distrutta la sua immagine dataci da Gesù, e non saremmo davanti a un Dio amorevole e misericordioso, ma a un Dio sadico che gode della sofferenza del proprio Figlio e di quella degli uomini, a un Dio orientaleggiante incapace di dominare il proprio altissimo senso dell’onore e l’impulso alla vendetta, proprio come sosteneva Nietzsche (e per questo prontamente messo all’indice dalla Chiesa cattolica).

Comunque, in un sacrificio cultuale sono necessari un altare, un animale da sacrificare, un sacerdote sacrificante e un particolare rito da seguire[9]. Nel nostro caso, l'animale sacrificale viene indicato nell’agnello Gesù, ma Gesù sarebbe al tempo stesso anche il sacerdote sacrificante:[10] e allora la sua morte equivarrebbe a un suicidio cultuale[11]. Infatti, attribuendo a Gesù la qualifica di sommo sacerdote, quando la sua stessa persona è vittima del sacrificio sacerdotale, siamo davanti a un suicidio. Questo ovviamente non ha senso, anche se papa Benedetto XVI ha continuato a dirci che Gesù si è offerto in sacrificio per noi:[12] cioè avrebbe per l’appunto praticato un suicidio cultuale. Non ha senso anche perché la Chiesa proibisce a noi il suicidio, anche se fatto per amore.

Leggete i vangeli e ditemi dove il Gesù terreno ha mai detto di essersi sacrificato per noi. Questa è un’idea di Paolo (Eb 10, 10; Rm 5, 19; Col 1, 24; 2 Tm 1, 12; 2, 9) che, educato secondo la dottrina farisaica, ha ripreso il rito biblico (1Cor 5, 7: Cristo, il nostro agnello pasquale, è stato sacrificato), interpretando la morte di Gesù nei termini della morte dell’agnello pasquale. Ma come ormai detto più volte, Paolo – per poter far accettare in quella cultura un Gesù morto in croce, visto che i romani crocifiggevano solo i terroristi e gli schiavi, e visto che per gli ebrei i crocifissi erano maledetti da Dio[13]- ha dovuto far ricorso alla teoria del sacrificio espiatorio.

Però, come ha spiegato assai bene il cardinale Vanhoye commentando la Lettera agli Ebrei, se pensiamo alla morte di Gesù, avvenuta senza riti religiosi, in luogo profano, si è chiaramente trattato di un’esecuzione e non di un sacrificio santificante. Non può trattarsi di un atto rituale che univa a Dio, ma esattamente del suo contrario, perché separava da Dio. Per di più nella crocifissione storica è mancato anche l’altare (n. 1366 Catechismo), invece presente nelle nostre chiese come nel Tempio di Gerusalemme, l’unico luogo sacro dove si potevano effettuare i sacrifici.

Com’è noto, l’altare è infatti l’antica pietra sacrificale di tutte le culture, e l’azione sacra era lo sgozzamento della vittima. Giustamente, allora, è stato detto che il cristianesimo è un trasparente ritocco dell’originaria struttura di base, l’azione sacra del sacrificio cruento, perché la morte del Figlio di Dio viene interpretata come l’unico e completo sacrificio; e come ad ogni sacrificio seguiva poi sempre il mangiare comunitario, il festoso banchetto sacrificale,[14] nel cristianesimo c’è l’eucaristia. Ma proprio l’altare, elemento apparentemente essenziale nella nostra religione, è del tutto assente nei vangeli perché richiama l’idea pagana del dove si facevano i sacrifici:[15] non per niente l’art. 1383 del Catechismo, prima di equipararlo alla mensa, lo ricorda appunto come luogo di sacrificio. L’altare presuppone sempre un’idea di Dio cui bisogna sacrificare. Se la messa è abbinata all’altare, ecco che viene abbinata anche al sacrificio. Se poi c’è il sacrificio, c’è anche bisogno del mediatore, del sacerdote, perché egli è colui che fa il sacro, cioè compie l’atto sacro per eccellenza: il sacrificio.

Ma come si è visto alla nota 7, già vari autori biblici avevano affermato che Dio è contrario ai sacrifici e al culto. Inoltre Gesù, che non era neanche sacerdote, non ha mai detto che andava a sacrificarsi per noi (neanche all’ultima cena, al momento della lavanda dei piedi o dell’istituzione dell’eucaristia), non ha neanche mai chiesto sacrifici agli altri. Invece Paolo – e la Chiesa ha seguito la sua impostazione - ha fatto intravedere una relazione fra la mensa attorno alla quale si trovano raccolti coloro che partecipano all’eucaristia e l’altare dei sacrifici idolatrici, sì che l’ultima cena è diventata ovviamente un sacrificio, e chi la presiede è diventato ministro sacro,[16] sacerdote come quelli dei tempi antichi. In effetti, pensiamo solo a come - con quello che si può definire uno stravolgimento dei racconti evangelici - la messa (col suo altare e il suo sacerdote) ha finito per sostituire completamente la cena eucaristica iniziale, che si faceva a tavola, in casa, spezzando il pane.

Di più: Gesù non ha mai chiesto a nessuno di offrire le sue sofferenze in sacrificio a Dio. Al contrario ha detto: “Andate e imparate che cosa significa quel che Dio dice nella Bibbia: Misericordia io voglio, non sacrifici” (Mt 9, 13). E per essere sicuro di venire capito ha ripetuto il messaggio: “Se voi capiste veramente il significato di queste parole della Bibbia: Misericordia io voglio, non sacrifici” (Mt 12, 7)[17].

In realtà è accaduto che la teologia della salvezza attraverso il sangue, la morale del divieto, la censura e la malsana colpa, la spiritualità dell’ascetismo incentrato sul sacrificio autodistruttivo mescolati all’oblio di questa vita e di quanti qui soffrono, ha portato tanti a rifiutare la Chiesa[18]. Infatti è ripugnante pensare che per stare vicini a Dio sia indispensabile passare attraverso la sofferenza, soprattutto quando poi il magistero si sgola a dirci che Dio è Amore. È logicamente impossibile accostare l’idea che il Dio in cui crediamo è un «Dio vampiro», assetato di sangue, per cui chiede sacrifici e sofferenza, ma al tempo stesso è il massimo dell’amore. Dunque non si tratta di placare Dio con sacrifici e riti religiosi o di ottenere la sua benevolenza. Dio non chiede nulla perché non ha bisogno di nulla (At 17, 25)[19].

Offrire i nostri corpi come sacrificio vivente – come scrive Paolo nella lettera - vuol allora semplicemente invitare a fare dei nostri corpi una cosa sacra, cioè rendere presente l’azione di Dio nella nostra vita[20]. Il cosiddetto sacrificio è allora vivere ogni giorno in modo tale che, per quanto dipende da noi ed è alla nostra portata, rendiamo più sopportabile e più degna la vita di coloro che incontriamo[21]. Pertanto anche la messa che culmina nell’eucaristia, cioè nello spezzare il pane, dovrebbe oggi essere intesa piuttosto come il gesto simbolico per eccellenza della fraternità e della condivisione. E allora giustamente il teologo Arregi suggerisce di usare il termine solidarietà in sostituzione di sacrificio[22].

Come ha ricordato il prof. Castillo,[23] ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena (condividere la mensa) si è trasformato in una liturgia e un rituale tali che rende impossibile compiere il mandato del Signore. Infatti è necessario un prete, celibe, vestito con la stola (quando Gesù ha usato come unico abito liturgico il grembiule[24]), che sia uomo (e mai donna), che abbia l’approvazione del vescovo (ed il vescovo la deve avere da Roma), un altare, la pisside, la patena… Siamo certi – si chiede questo teologo - che Dio abbia dato alla Chiesa l’autorità per fare quello che sta facendo così come lo sta facendo? Se leggiamo con calma i vangeli, probabilmente dovremmo manifestare il nostro completo disaccordo nei confronti della precisione che si mette nell’osservanza di un rito sacro, mentre si dimentica sostanzialmente il mandato di Gesù. L’importante non è l’esattezza di un rituale liturgico, e non è neanche cenare insieme, ma rendere vivo ed attuale quello che ha rappresentato quella intensa cena d’addio. Riusciamo a fare questo, o cosa stiamo facendo di quel desiderio e di quello che ha lasciato disposto Gesù?

In conclusione, la morte di Gesù non doveva e non poteva essere interpretata come un sacrificio. Mi sembra abbiano di nuovo ragione i protestanti, i quali dicono che si va a messa perché si sa che lì si può trovare l’aiuto che Dio offre alla comunità (Mt 18, 30: dove due o più si riuniranno in suo nome); ma la messa che culmina nell’eucaristia non può essere un sacrificio.


NOTE


[1] Gnerre C., Apologetica, ed. Il settimanale di padre Pio, Castelpetroso (IS), 2004, 140: “Solo nella Messa c’è Dio che si offre in sacrificio”.

[2] Da noi in Italia c’è perché il Cap. I della Sessione XXII del 17.9.1562 del Concilio di Trento ha fatto dell'ultima cena un sacrificio rituale affermando espressamente che Gesù «per lasciare alla Chiesa, sua amata sposa, un sacrificio visibile ...offrì a Dio Padre il suo corpo e il suo sangue sotto la specie del pane e del vino, e lo diede perché lo prendessero, agli apostoli (che in quel momento costituiva sacerdoti del Nuovo Testamento) ...». Ma evidentemente, mentre noi seguiamo scrupolosamente Trento, le Chiese cattoliche di altri Paesi seguono di più i vangeli.

[3] Burkert W., Homo necans, ed. Boringhieri, Torino, 1981, 22.

[4] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 211.

[5] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, ed. La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 23.

[6] Gli ebrei, col sangue (centro e fonte della vita), purificavano l’altare (Lv 8, 15; 16, 19), i sacerdoti (Lv 8, 24.30), i leviti (Nm 8, 15), tutto il popolo peccatore (Dt 21, 8). Da ciò forse anche la formula paolina sconvolgente – perché dopo tutto Paolo aveva studiato da fariseo,- secondo cui: «senza spargimento di sangue non c’è perdono» (Eb 9,22). Ma come si inquadra tutto questo con l’odierno strombazzato amore di Dio?

[7] Ma in realtà i passi biblici apertamente contro i sacrifici sono tantissimi: cfr. Is 1, 11-18; 58, 6-9; 66, 1-3; Ger 6, 20; 7, 4-11.21-22; Os 2, 13-15; 4, 11-19; 6, 6; 8, 5s.; 10, 8; 13, 2; Am 4, 1-5; 5.

[8] Spong J.S., Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Massari, Bolsena, (VT), 2010, 191

[9] Per secoli, in occidente, il rito doveva svolgersi necessariamente in lingua latina, anche se da oltre un millennio la gente non capiva più questa lingua antica. Solo col concilio Vaticano II si sono introdotte le lingue nazionali. Determinante per questo cambiamento è stato l’intervento di Maximos IV Saigh (patriarca siriano dei Melchiti) sulla liturgia della messa, il quale aveva detto: “Il valore assoluto attribuito al latino nella Chiesa è problema della Chiesa d’Occidente, non di quella d’Oriente. Gesù parlava la lingua dei suoi contemporanei...Tutte le lingue sono liturgiche, come dice il salmista: “Lodate il Signore, popoli tutti”. La lingua latina è morta, ma la Chiesa vive, e anche la sua lingua deve essere viva perché destinata agli esseri umano e non agli angeli”. Alla fine il 4.12.1963 il Concilio approvò il testo Sacrosanctum concilium con 2143 voti a favore e 4 contrari (O'Malley J.W., Che cosa è successo nel Vaticano II, ed. Vita e Pensiero, Milano, 2010, 138-140).

[10] Così ci spiega Paolo: se il sommo sacerdote ogni anno nella festa del Kippur entrava nella parte più profonda del santuario per compiervi con il sangue di animali il rito dell'espiazione dei peccati del popolo, Gesù una volta per tutte è entrato nel tempio celeste procurandoci così un riscatto eterno (9, 12); e se già il sangue di animali aveva efficacia santificatrice e purificatrice, «quanto più il sangue di Cristo, il quale si è offerto senza macchia a Dio mediante lo Spirito eterno, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire al Dio vivo» (9, 13 - 1 4); è per santificare il popolo con il suo sangue che Gesù affrontò la sua passione mortale fuori dalla porta della città (13, 12) .

[11] Lenaers R., Il sogno di Nabucodonosor, Massari, Bolsena (VT), 2009, 290.

[12] Benedetto XVI, La gioia della fede, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 102.

[13] Tant’è vero che per i primi secoli i cristiani si vergognavano di rappresentare Gesù crocifisso. Si usavano altri simboli, come ad esempio l’agnello o il pesce. Solo con Costantino la croce venne rivalutata ed entrò a pieno titolo nella liturgia cristiana.

[14] Burkert W., Homo necans, ed. Boringhieri, Torino, 1981, 45.

[15] Castillo J.M., Simboli di libertà, Cittadella, Assisi, 1983, 100.

[16] Ortensio da Spinetoli, Bibbia e Catechismo, Paideia, Brescia, 1999, 306s.

[17] Qui Gesù si richiama al profeta Osea, il primo a parlare concretamente dell’amore di Dio (Osea 6, 6).

[18] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 213.

[19] Così già pensava papa Clemente I (Lettera ai Corinti, LIV, 2).

[20] Molari C., Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 85s.

[21] Castillo J.M., I poveri e la teologia, ed. Cittadella, Assisi, 2002, 214s.

[22] Il teologo spagnolo Jasé Arregi ricorda che, come la parola Giustizia, a lungo usata (che ricorda un’arida sentenza di tribunale di condanna o assoluzione), dovrebbe essere sostituita oggi con misericordia, così la parola sacrificio dovrebbe essere sostituita con solidarietà (https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-528---27-ottobre-2019/in-che-modo-gesu-ci-salva).

[23] Castillo J.M., Commento a Corpus Domini (Mc 14, 12-16.22-26) il 6.6.2021.

[24] «Ecco io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27). Quello che rende riconoscibile la comunità sono i fianchi cinti dal grembiule, un atteggiamento di servizio (Lc 12, 35). Di Santo G., La messa non è finita, ed. Rizzoli, Milano, 2012: “Non è il grembiule l’unico abito liturgico indossato da Gesù secondo i Vangeli?”.