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Christmas Bible - immagine tratta da commons.wikimedia.org




Natale

di Dario Culot

Credo che, sempre per un maggior numero di persone, l’arrivo delle feste crei più angoscia che gioia.

Non so dire perché ma, a differenza di quanto succedeva quando eravamo bambini, il Natale non porta ai più alcuna felicità.

Forse in un passato neanche tanto lontano (quello del ‘900) quando per molti la quotidianità si coniugava ancora

con la fame o comunque con un consumo sempre sobrio, l’abbondanza del giorno di festa suscitava una goduria oggi difficile da capire, perché oggi tutti i nostri giorni sono festivi, almeno nel nostro mondo occidentale. Basta pensare a come oggi i nostri ragazzi, troppo sazi, spesso non hanno più neanche desideri; anzi, i nostri adolescenti cadono spesso in depressione (malattia una volta riservata ai vecchi), proprio perché non avendo desideri non riescono ad accendere la propria vita.

“Cosa desideri?”

“Boh!”

“Come passi i tuoi giorni?”

“Boh! Così… mi diverto…”

“E come ti diverti?”

“Sabato sono andato in discoteca…”

“E il sabato prima?”

“Anche”.

Fantastico! Giorno dopo giorno la fotocopia dell’altro. Meno male allora che il covid ha fatto chiudere le discoteche. Forse i ragazzi saranno costretti a incontrarsi, guardarsi in faccia e a parlare fra di loro.

Con la secolarizzazione sempre più spinta, si è poi perso anche il senso religioso della festa. Anche se per tradizione andiamo in chiesa, che ovviamente pretendiamo ben riscaldata, siamo di solito egoisticamente più preoccupati che la nostra vita non cambi in peggio piuttosto che cambi in meglio quella di molti immigrati che, al freddo e al gelo, premono alle nostre porte.

La festività natalizia era la nascita di Gesù bambino (cioè l’irruzione di Dio nella storia umana attraverso un bambino), mentre ora è quella di Babbo Natale, una festività secolare creata indirettamente da Washington Irving (scrittore americano che aveva rielaborato fiabe e folklore europei), sfruttata e magnificata dalla Coca Cola che ha anche creato la figura moderna di Babbo Natale. Qualcuno ha gridato allo scandalo culturale, altri alla perdita di ogni senso religioso, ma poi tutto è finito lì.

Non so cosa la gente si aspetti da Natale, non so come lo immagini. Io immagino una ragazzina di 14-15 anni, con i capelli neri, pelle olivastra come i palestinesi, bellina perché a quell’età tutte sono belline (anche se si vedono brutte), occhi scuri e sguardo furbo, che, con un ragazzo un po’ più grande di lei, va in un paesino che nessuno conosce. Allora le donne si sposavano presto: a 18 anni sarebbero già state zitelle, e il Vangelo non ne parla come di una zitella, ma non dice neanche che si era formalmente sposata; perciò sembra che siamo davanti a una coppia di fatto. Comunque, a quell’età, Maria per noi oggi in Europa sarebbe un’adolescente; alcuni la vedrebbero ancora come una bambina, visto che adesso sembra che si diventi adulti e ci si sposi dopo i 30 anni. Dunque, la giovane coppia non trova un posto decente per dormire, e poiché sono persone qualsiasi devono accontentarsi di dormire in una stalla, probabilmente non molto pulita, com’erano tutte le stalle di allora. Ma non è che le taverne fossero il massimo della pulizia, e comunque tutti avevano altri anticorpi e un sistema immunitario ben più efficace del nostro attuale. Dunque, niente di grandioso, ma tutto di una banalità quotidiana. Infatti nessuno degli abitanti si accorge di nulla, perché come ai nostri giorni tutti sono presi dal loro natale. Forse, se fossimo sempre in vigile attesa, riusciremmo a cogliere anche noi tante novità che avvengono intorno a noi (Mt 24, 42: “Vegliate…). Solo i pastori, che vivevano fuori del paese, tenuti lontano come appestati perché probabilmente puzzavano di sterco e di selvatico, e comunque non erano persone perbene e affidabili sì che tutti se ne stavano ben lontani da loro, nel silenzio della notte si accorgono che è successo qualcosa di nuovo. L’evangelista racconta infatti che, quando i pastori, ladri e peccatori impuri, e quindi pienamente consapevoli di essere destinati all’annientamento non appena fosse giunto il Messia, vedono l’angelo del Signore (cioè quello che ancora a Castel Sant’Angelo di Roma è raffigurato con la spada sguainata - 1Cr 21, 16), e che secondo la religione avrebbe dovuto sterminarli tutti, prendono un gran bello spavento, ma invece sono subito avvolti dalla luce: quando Dio s’incontra con i peccatori (ed è questo il messaggio che vuole trasmettere Luca) non li distrugge, ma li avvolge del suo amore vivificante, senza neanche chiedere prima di pentirsi e di cambiar vita. E la storia che se non ci si confessa dei propri peccati, se non si fa penitenza non si ottiene il perdono? Questa ce l’hanno raccontata poi i preti, ma il vangelo dice cose diverse, visto che i pastori non vanno al Tempio per confessare i propri peccati (fra l’altro non sarebbero neanche stati ammessi per la loro impurità), non si confessano, non si pentono della loro vita e neanche pregano. Dunque i pastori decidono semplicemente di muoversi e andare a vedere cosa è successo; poi tornano serenamente al loro accampamento e alle incombenze di sempre, senza cambiar mestiere, senza smettere di vivere come bruti, bestie con bestie, ma pervasi da grande felicità. Infatti il vangelo ci dice che ritornano ai loro greggi glorificando e lodando Dio (Lc 2, 20). A noi la frase non dice gran che, ma dobbiamo ricordare che nella cultura di allora, nel libro giudaico di Enoch, Dio era immaginato nell’alto dei cieli, inavvicinabile, inaccessibile. Ci sono 7 cieli; al terzo c’è il paradiso (come ricorda san Paolo in 2Cor 12, 2-4); al di sopra del settimo cielo c’era Dio (ancora oggi diciamo di essere al settimo cielo quando siamo molto felici). Attorno a Dio c’erano 7 angeli (Tb 12, 15), chiamati gli angeli del servizio divino che avevano l’unico compito di glorificare e lodare il Signore. Quindi che i pastori, feccia impura della società, i più lontani da Dio, gli esclusi da Dio secondo l’insegnamento religioso, siano equiparati agli angeli più vicini a Dio è sicuramente strabiliante e inaccettabile per la maggior parte dei benpensanti di allora: se si va avanti così non c’è più religione! Eppure proprio questo ci dice il vangelo: dopo aver fatto l’esperienza del Dio amore, è possibile anche a quelli che la religione riteneva i più lontani da Dio, lodarlo e glorificarlo, cioè essere intimi di Dio, non più servi ma amici. L’amore di Dio elimina ogni distanza e fa tutti uguali.

A noi il Natale non dà felicità? Lo credo bene. Perché qui da tempo non celebriamo più il Natale cristiano. A dire il vero, siamo sommersi tutto l’anno da una valanga di natali che ci promettono felicità. Sennonché il segno della vera felicità è quello di una umanità liberata di fuori e di dentro, in pace e in armonia con tutti. Non basta un singolo giorno di apparente gioia di fuori: possiamo avere tanti soldi e tutte le cose che vogliamo, ma essere infelici dentro. Anche l’infelicità ha varie gradazioni, ma è vero che il più infelice è colui che soffre da solo. E la solitudine è una delle disgrazie del nostro mondo occidentale. Oggi viviamo più a lungo che in passato, ma viviamo meglio? In ogni caso è assurdo pensare di eliminare tutta l’infelicità, tutta la sofferenza del mondo, come è assurdo pensare di riuscire a comprare tutto con i soldi. Eppure i nostri spot pubblicitari (natalizi) dicono: “Se ti senti infelice, se ti senti emarginato, compra il profumo giusto, l’oggetto giusto, l’automobile giusta, bevi la bevanda X, e la vita tornerà a sorriderti e tu sarai felice. Questo tentano di inculcare a tutti i pubblicisti, e molti ci cascano. Del resto qual è il compito del pubblicitario? Non ricordo chi ha dato questa istruttiva definizione di questa professione: “Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta questa merda. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità e che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova, che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”.

Ognuno di voi mi dirà: “no, io non sono proprio il tipo che ci casca, non credo agli spot della televisione”. Ma ne siamo proprio sicuri? Non ci crediamo forse sul singolo oggetto, sulla singola auto, sul singolo liquore; ma alla fin fine anche noi crediamo agli oggetti e puntiamo sugli stessi. Se finalmente riuscirò a comprarmi quella bella cascina in collina, con quel grande caminone…immagino già quel bel fuoco e gli amici attorno; se finalmente mi comprerò i nuovi sci... come starò bene, come sarò felice. E sprechiamo la vita in queste illusioni. Ma comportandoci così forse stiamo solo compiendo un suicidio in differita (come diceva, se ben ricordo, Georges Bernanos). È ovvio che così non si cancellano i fallimenti, i dolori, le paure.

Anche il vero Natale promette la felicità. Felicità qui, adesso, su questa terra, e non un domani in paradiso; ma la promette solo a chi cambia il suo modo di vivere come persona qui, adesso, su questa terra. Il vero Natale mira cioè a far cambiare la persona, ogni persona; gli altri natali promettono felicità se compriamo cose. Qui sta la differenza fondamentale. Dunque, se uno vuol avvicinarsi alla felicità, le cose devono restare solo strumento per ... È vero, è meglio essere ricchi e sani che poveri e ammalati, ma la ricchezza esterna di per sé ci assicura felicità, perché nelle cose non si trovano le risposte della vita. E allora se la felicità vera è quella ‘di dentro’, l’unica possibilità di essere felici è costruire un mondo dove uno è vicino all’altro.

Se uno si mette al servizio della ricchezza, non degli altri, è già fuori strada. La ricchezza deve essere solo uno strumento per la Giustizia e per l’Amore, perché questi sono lo scopo della vita. Chi vive per altri scopi butta via il tempo che Dio gli ha dato. Non aiuta a creare un mondo nuovo, un mondo dove l’uomo è l’unico scopo.

Certo che se muori di fame, come succede a molte persone in Africa, in India, in sud America, non c’è tempo neanche per amare la famiglia o gli altri. In questi giorni si legge che in Afghanistan, per poter dar da mangiare al resto della famiglia, in molte famiglie si vendono le figlie. È chiaro che una modesta quantità di beni è prioritaria e indispensabile, ma deve restare sempre strumentale. Lo strumento non può mai essere scopo. Perciò, anche avere una bella casa col caminone deve essere strumento, non scopo della vita. Occorre invece procurarsi amici non con la ricchezza, ma sul piano dell’amore, perché solo così si creano amicizie che non passano. Occorre non disinteressarsi di chi ha bisogno di noi, facendo almeno qualche piccolo gesto perché, anche se apparentemente non serve gran che, è invece come una boccata d’ossigeno per la speranza di tante persone in difficoltà.

Proviamo a fare così durante tutto il corso del prossimo anno, e molto probabilmente non accoglieremo il prossimo Natale con l’ansia di quest’anno. Questo probabilmente è anche l’unico modo per fare spazio a quel Gesù bambino che chiede sempre di poter nascere, cioè di entrare nella nostra vita quotidiana.

E forse se durante l’anno i giovani ricominceranno a parlare, prima incontrandosi fra di loro, poi magari anche con i parenti più adulti, e se gli adulti cominceranno a raccontare ai giovani qualcosa del proprio passato, magari dopo averli ascoltati proprio il giorno di Natale su quello che i giovani si aspettano, di cui hanno paura, forse potrà anche nascere un desiderio di ritrovarsi l’anno successivo, collegando con un unico filo passato, presente, futuro, come in un’unica storia che continua. Forse così si vivrà un giorno diverso, non una fotocopia di tutti gli altri giorni, che col tempo il giorno di Natale diverrà un anello prezioso e insostituibile nella catena personale dei ricordi.

Buon Natale!