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L’estensione nel cinema, da Visconti a Truffaut. Quando il ritmo narrativo rallenta



di Stefano Agnelli

“È lento!” Questa affermazione, formulata come una critica, ricorre spesso fra quanti, avendo visto un film, magari piuttosto lungo, lo considerano noioso o peggio ancora soporifero. In realtà non è la lentezza che li ha disturbati, quanto piuttosto la mancanza di un ritmo: il ritmo narrativo, dato dall’insieme del montaggio e della colonna sonora. Certo, noi oggi siamo sottoposti a narrazioni per immagini dotate di grande velocità, ma spesso anche queste mancano di ritmo, impedendo allo spettatore di cogliere distintamente tutti gli accadimenti, generando così una sensazione di disordine, di estrema confusione narrativa. All’opposto, un film può essere “lento”, ma avere un suo ritmo: rallentare il tempo della storia può essere un espediente, un mezzo per caratterizzarla.

Seymour Chatman, in un suo celebre libro (Storia e discorso, Pratiche, 1981), sostiene, seguendo categorie strutturaliste, che in ogni testo narrativo vi siano due parti: la storia (il contenuto), e il discorso (l’espressione). Ciò che a noi qui interessa è la forma dell’espressione, ovvero la struttura della trasmissione narrativa.

Se riferiamo i due concetti sopraccitati al tempo, introducendo la durata, cioè la relazione fra il tempo che occorre per vedere la scena e il tempo in cui si estendono gli eventi della scena stessa, avremo diverse possibilità narrative. Senza elencarle tutte, mi limiterò al caso dell’estensione, ovvero quando il tempo del discorso è più lungo del tempo della storia. Avremo allora un rallentamento dell’espressione che può avvenire in molti modi e con diverso scopo. Vediamone alcuni.

Ne Il Gattopardo (L. Visconti, 1963), la scena conclusiva del ballo occupa una parte notevole della pellicola. Qui il tempo del discorso è dilatato fino all’estremo, mentre quello della storia è quasi fermo, immobile, tanto che possiamo parlare quasi di pausa (tempo della storia uguale a zero), più che di estensione. La storia dunque non procede, si blocca, e il nostro ipotetico spettatore obietterà: “è lento!”. Vero. Il ritmo narrativo rallenta sino all’inverosimile, tanto che la scena costò una fortuna alla Titanus, poiché Visconti pretendeva ad ogni ciack, la sostituzione completa delle centinaia di candele impiegate per illuminarla. Questo singolare vezzo del regista è rivelatore. Indica una sua precisa forma mentis, che lo portava a considerare “fissa” la scena, quasi si trattasse di un’enorme tela ad olio, tesa a mostrare l’immobilismo caratteristico di una classe sociale (l’aristocrazia siciliana).

L’amore di Visconti per il teatro, e la sua ossessione quasi maniacale per il décor, hanno fatto il resto. L’estensione ha dunque lo scopo di fissare, attraverso un gigantesco ferma-immagine, un atteggiamento: quel restare immobili, di fronte al divenire della Storia, che fu proprio dell’aristocrazia siciliana.

Vediamo ora un secondo modo di usare l’estensione. In Per qualche dollaro in più (S. Leone, 1965), durante la scena finale, l’ex-colonnello Mortimer (Lee Van Cleef), viene sfidato a raccogliere la propria arma da terra – ed a sparare – dal desperado messicano noto come l’Indio (Gian Maria Volonté), che a sua volta deve soltanto estrarre la pistola e sparare – è quindi in netto vantaggio – il tutto al termine della musica di un orologio a carillon. L’oggetto in questione apparteneva alla sorella di Mortimer che, come apprendiamo da diversi flashback, si è uccisa mentre l’Indio la violentava, e attraverso molteplici emozioni (dolore, odio, desiderio di vendetta), funge da catalizzatore del ricordo. Sarà proprio l’orologio, la sua musica, a dilatare ulteriormente il tempo del discorso. Infatti, al termine della carica del carillon, quando Mortimer sta oramai per soccombere ingiustamente, la musica riparte, ma questa volta si tratta di un secondo orologio – gemello del precedente – di proprietà dell’ex-colonnello, che un altro personaggio della storia, il Monco (Clint Eastwood), gli ha sottratto abilmente. La situazione sarà allora riequilibrata: Mortimer riceverà cinturone e pistola, e al termine della nuova carica della suoneria (“Indio tu il gioco lo conosci”, dirà il Monco), farà secco il crudele messicano.

L’orologio sembra appartenere tanto al piano del discorso (è un artificio narrativo), quanto a quello della storia (ne è un elemento). In realtà ha uno scopo ben preciso. Così come l’armonica del pistolero senza nome (Charles Bronson) di C’era una volta il West (S. Leone, 1968), il cui suono ricorre sino al finale, l’orologio funge da catalizzatore del ricordo, è simbolo di un passato ancora ben presente ai protagonisti, tanto da essere il movente principale delle loro azioni. Nel successivo Giù la testa! (1971), Leone si libera dell’oggetto catalizzatore. Sarà soltanto la musica di Morricone – il celebre tema Sean Sean – ad introdurre flashback e rallentamenti legati in modo indissolubile al passato (l’uccisione di Sean per mano del protagonista). Il rallentamento della storia, conseguente all’estensione del discorso, ha però qui un'altra funzione: carica di epos le immagini. Attraverso il montaggio lento e serrato – primissimi piani in campo/controcampo – e l’uso sapiente della colonna sonora, il cinema di Leone assume poi una dimensione epica nuova. Nell’epica classica, letteraria, di Omero, lo sfondo non esiste. Pur trattando di un passato grandioso, ogni digressione che lo ricorda è condotta sino in fondo, catapultata nell’oggi; gli stessi personaggi paiono avere solo un presente (cfr. La cicatrice di Ulisse, in Mimesis, E. Auerbach, Einaudi, 1988 (1956), pp. 3-29). Le digressioni, i flashback, di Leone, guidano invece lo spettatore nel passato dei protagonisti, un passato – come si è detto – alquanto ingombrante e affatto grandioso, che li porta ad avere un’interiorità quasi sconosciuta all’epica classica. Ciò non toglie che l’uso del montaggio e della colonna sonora tendano ad isolare i personaggi, donando loro una dimensione unica, assoluta e grandiosa al tempo stesso, quindi epica.

Per concludere ecco un caso di estensione della durata, che produce un tempo extradiegetico, tratto da La Nuit américaine (Effetto notte, F. Truffaut, 1973). Il film è già di per sé un omaggio appassionato al Cinema, al lavoro del regista. Continue citazioni ad evocare Hitchcock, Welles, Ophuls, Renoir e altri ancora, il cui nome viene ricordato attraverso sogni, frasi, nomi di vie e persino l’argomento di un libro. Ad un certo punto però, la narrazione pare interrompersi, la storia raccontata, quella del film da farsi, perde importanza a favore di un’evidenza della struttura, degli elementi caratteristici del Cinema. Risuona per la prima volta il tema principale, composto da George Delerue, mentre lo spettatore assiste ad una serie di metodi cinematografici di lavorazione. Compaiono infatti sullo schermo carrelli, luci ed effetti luminosi, costumi ed arredi scenici, macchine da presa montate su automobili o gru, intente a riprendere i personaggi mentre recitano silenti, sovrastati dalla musica. La narrazione precedente si interrompe, ma il tempo della storia non è uguale a zero, quanto piuttosto non esiste più: è un tempo irreale ed extradiegetico, creato da musica e montaggio, qui molto armonico e sincronizzato con il tema musicale.

Le possibilità combinatorie di musica e montaggio sono, per nostra fortuna, davvero molteplici, e hanno dato vita – e daranno, se usate con cura – a tanto ottimo Cinema. Non ci resta che sperare in un’inversione di tendenza, capace di valorizzare a pieno la storia, grazie ad un uso sapiente del discorso e dell’estensione narrativa.