Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Quintanilla del Agua - Foto di murales, tratta da commons.wikimedia.org



Comunione dei beni. Una priorità per il cristiano




di Pietro Piro



Approfitto di questa occasione festiva (il numero 600 de “Il giornale di Rodafà”) per ritornare su un tema che mi sta particolarmente a cuore: la comunione dei beni.

Non sappiamo quanto sia durato il tempo di Atti 4,32-35. Forse – il sospetto è legittimo – pochissimo. Eppure, questa condizione cor unum et anima una rappresenta, ancora oggi, un punto di riferimento essenziale per chi guarda al cristianesimo come fonte di Speranza.

Nessun appartenente a quella prima comunità era “bisognoso” perché i beni erano distribuiti a ciascuno secondo le proprie necessità. Mito o realtà? Difficile dire parole definitive su questo tema.

Certamente, la questione dei “beni” è un perno attorno al quale ruotano molte questioni in tutta la storia della Chiesa. Sé il superamento della distinzione tra ricchi e poveri attraverso la carità e le “opere di bene” è stato un potente strumento di coesione interna, anche le difficoltà relative alla gestione quotidiana delle comunità, il loro sostentamento, l’amministrazione delle elemosine, sono state fonte di amarezza per tanti (da San Paolo a Papa Francesco).

Il rapporto tra beni materiali e vita spirituale appare come uno dei punti critici della vita del cristiano.

Riprendo – sperando possa essere d’aiuto – una conferenza di Karl Barth del 1911 sul rapporto tra cristianesimo e socialismo. Scrive Barth:

Chiunque legga senza pregiudizi il Nuovo Testamento, dovrebbe restare colpito dal fatto che ciò che Gesù è stato, ha voluto, e ha ottenuto, considerato dal punto di vista umano, era esattamente un movimento dal basso. […] Gesù si sentiva inviato ai poveri, agli umili: questo è uno dei dati più indiscutibili che ricaviamo dalla storia del vangelo. […] Gesù si è opposto alla miseria sociale affermando, con le parole e con i fatti, che essa non deve esistere. […] Egli ha operato dall’interno verso l’esterno. Ha creato uomini nuovi, per creare un mondo nuovo.[1]

Per Barth (e ovviamente, per chi scrive) Gesù attraverso il suo insegnamento, vorrebbe superare ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e abolire - una volta per sempre - la miseria materiale umana che è dovuta unicamente all’egoismo e all’assenza di spiritualità che impedisce di cogliere “l’uguaglianza creaturale di fronte al Padre”. Il “Regno” che propone Cristo non può essere “una forma mitigata di capitalismo gentile” con effetti di benessere da “gocciolamento”.

Per Gesù non è possibile “servire a Dio e a Mammona” (Mt, 6,23-24). Barth ci invita a riflettere su questo punto:

È impossibile non meravigliarsi considerando come il cristianesimo di ogni confessione e di ogni tendenza abbia preso alla leggera queste parole, mentre ha affrontato spesso con grande zelo, rigore e precisione questioni dogmatiche che non hanno avuto alcun significato per la vita di Gesù.[2]

Forse, prendiamo troppo alla leggera il fatto che per generare “beni” in un mondo “malato”, siamo costretti a impastarci di quel “male” che tanto ci infastidisce. Esiste una “proprietà privata” senza una qualche forma di egoismo? Esiste un mio che non sia immediatamente legato alle dinamiche del narcisismo? Per Barth il cristianesimo affrontato alle radici è un affare “serio e rischioso”[3] che ci impone di “perdere la nostra vita per ritrovarla” e di diventare “uomini comunitari”.

Di fatto, la maggioranza dei cosiddetti cristiani, non ha nessuna intenzione di cedere i “propri averi” per darli ai poveri né, tantomeno, di dedicare la propria vita a un ideale monastico. Sono convinto che la rinuncia completa a tutti i propri beni e l’ideale rinuncia alle “seduzioni del mondo” sia stata sempre – e oggi ancora di più – una vocazione minoritaria.

Ritengo che attualmente non sia affatto utile proporre la messa in comune di tutti i beni. Ritengo però essenziale che tutti – cristiani e non – facciamo “esercizio di condivisione” di alcuni beni. La parola “tutti” è essenziale. Credo sia importante introdurre nella nostra vita sociale un elemento di pratica di comunione materiale. Una piccola rinuncia al dominio del nostro Io.

Per averne fatto esperienza diretta, ritengo sia già un primo passo difficilissimo. Siamo estremamente attaccati a tutto quello che possediamo. Anche separarsi dal più insignificante degli oggetti può essere un trauma. Allora, per evitare ogni possibile “riflusso” occorre separarsi dalle cose con gradualità, con rispetto direi, ma liberandosi progressivamente di tutto quanto non è essenziale. Ma cosa è veramente essenziale? In una prospettiva cristiana, essenziale è tutto ciò che avvicina a Dio. Spesso, per “andare dietro alle cose del mondo” ci dimentichiamo che siamo chiamati a una gioia creaturale che ci dovrebbe far vivere “come gigli nei campi”. Angosciati dalle macchinazioni dell’avere, dimentichiamo la poetica dell’essere.

La Chiesa a cui molti di noi appartengono oggi è molto distante dalla prima comunità di Gerusalemme. Un enorme apparato burocratico, economico, dottrinale. Un organizzazione enorme, dentro la quale è possibile incontrare ogni genere di “atteggiamento” nei confronti dei beni materiali. Dalla rinuncia quasi assoluta della vita eremitica, alla speculazione finanziaria aggressiva e sfrenata.

Credo che sé la Chiesa vuole mantenere vivo l’insegnamento del suo fondatore, deve essere all’avanguardia nella pratica della messa in comune dei propri beni. Troppi spazi lasciati chiusi e troppi pochi bisogni concreti intercettati.

Gesù si farebbe tanti problemi ad utilizzare una Chiesa chiusa da anni per ospitare dei senzatetto nelle notti gelide? Ad affidare a famiglie senza casa un ala di un monastero in cui abitano solo pochi anziani monaci? A mettere a disposizione della cittadinanza un oratorio in disuso per farne un luogo di ritrovo per famiglie, anziani, bambini?

Mettere in comunione con i cosiddetti “non credenti” spazi e risorse è uno dei compiti più urgenti della Chiesa per quanto mi riguarda. Solo così potremmo dire di essere “fedeli” a un insegnamento di uguaglianza che facciamo sempre più fatica a concretizzare.

Comunismo? Socialismo? No. Attinenza alla “buona novella” di un uomo che viveva da nomade, andando incontro ai bisognosi del proprio tempo, mettendo tutto in comune, moltiplicando la gioia, il pane e i pesci. Un uomo che celebriamo come “Figlio di Dio” ma che poi facciamo fatica a mettere al centro della nostra vita, inseguendo ideali di benessere materiale, di prestigio, di “carriera”, che il più delle volte si rivelano mere illusioni.

Spinti dalla paura adottiamo l’atteggiamento dell’accaparratore. Tuttavia, non facciamo che accumulare “pesi sull’anima” che “tignola e ruggine consumano”. Proviamo a fare qualche esercizio di comunione di beni materiali. Sarà il primo passo verso una leggerezza dell’anima che è il più prezioso dei “beni”.




NOTE

[1] K. Barth, Poveri diavoli. Cristianesimo e socialismo, Marietti 1820, Bologna 2018, pp. 32-45.

[2] Ivi, p. 53.

[3] Ivi, p. 65.