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Colonna scolpita raffigurante la divinità della morte Maya - Museé du Quai Baranly - immagine tratta da commons.wikimedia.org




Non è la paura della morte che ci fa aderire a una religione


di Dario Culot

Si è visto la settimana scorsa che, per Freud, tutte le religioni sono illusioni con intento consolatorio, senza trovare alcuna conferma nel reale. Ogni bambino, crescendo, vede che sotto certi aspetti è destinato a rimanere bambino perché non potrà mai fare a meno di protezione contro potenze sconosciute che lo dominano, e allora presta a queste i tratti della figura paterna e da solo si crea dèi dei quali ha paura e dai quali cerca favori, immaginando che lo proteggano se solo seguirà un certo comportamento.

Questa reazione è ciò che genera la religione. L’uomo non potendo accettare di essere debole e solo davanti a forze invisibili e ben superiori alle sue si rifugia in una regressione infantile proiettando sugli dèi il suo bisogno di protezione e sicurezza. Proprio questo intenso desiderio è fonte d’illusioni.

Dunque, da sempre si è sostenuto che la religione nasce dalla paura, e in più deve far paura per tenere a bada il popolo.

Ancora oggi, per molti (credenti o non credenti), la paura resta un ingrediente indispensabile nella religione. Nel corso dei secoli, da una parte la Chiesa si è dedicata con cura ad una vera e propria teologia della paura, nel senso che le prediche in chiesa si sono incentrate molto più frequentemente sul timore che sull’amore[1]. Dall’altra parte, anche coloro che negano l’esistenza di Dio individuano proprio nella paura (almeno della morte) il primo motivo per crederci per cui sostengono che la paura è la causa prima e la pietra angolare di ogni fede religiosa[2]. Perciò, se ad esempio un domani si superasse la paura della morte non ci sarebbe più bisogno di Dio[3]. In parte si tratta di osservazioni giuste perché la paura è senz’altro un gran motore. Diceva però giustamente frate Balducci che, anche se la morte ci appare in sé come una mostruosità, nel momento in cui crediamo che non possiamo liberarci dalla morte siamo in realtà non credenti, uomini senza fede, perché non crediamo alle parole di Gesù (Gv 6, 35-40). Se cioè non crediamo alle sue promesse,[4] anche se crediamo a tutti i dogmi e obbediamo a tutti i comandamenti che la Chiesa ci ha insegnato, non possiamo dirci credenti cristiani.

In ogni caso, a prescindere da tutto questo, - come ho già avuto occasione di dire in un’altra circostanza - sono convinto che la religione non è nata solo dalla paura della morte. Se penso che con la morte tutto è finito, certamente sono disperato perché io cerco la felicità, come tutti. Il problema è che anche quando si riesce ad avere tutti i beni materiali di questo mondo, dopo un po’ non si è più felici; piuttosto si resta annoiati. Anche i maharajah, ricchi sfondati, che avevano la possibilità di soddisfare tutti i propri capricci, che avevano a disposizione le più belle donne del mondo, dopo un po’ erano annoiati e depressi.[5]

L’uomo vuole sempre di più, tende al bene più grande, ma che duri per sempre. Soprattutto nell’amore anela alla durata eterna, e invece l’amore terreno ha sempre dei limiti immensi[6]. Ogni nostro vero piacere chiama eternità, anche se si sperimenta come attimo. E cosa è questo, se non una innata tendenza verso l’infinito? Ognuno di noi, immagino, ha sperimentato, almeno per una frazione di secondo nella sua vita, magari quando era follemente innamorato, magari quando ammirava in silenzio un fantastico tramonto o a un altro scenario stupendo della natura, magari quando è appena riuscito a risolvere un difficilissimo problema di matematica o a esprimere realmente in quadro le proprie emozioni più intime, la sensazione di avere dentro di sé una scintilla di infinito, cioè un qualcosa che lo proiettava inaspettatamente a un piano superiore, in una dimensione che non era più terrena e non faceva parte della sua quotidiana e normale esistenza: per un attimo è come se una porta dapprima chiusa si fosse aperta per lasciarci intravedere una splendente perfezione. L’infinito non lo si può vedere, però lo si deduce, perché in ognuno di noi c’è questa inesorabile tendenza. Ed è curioso constatare che, generazione dopo generazione, da sempre l’uomo lavora in questa direzione, per raggiungere questo infinito che ci eleva, ma che nessun uomo è mai riuscito, né mai riuscirà, a raggiungere su questa terra.

Inconsciamente sappiamo che perfezione significa felicità, e allora la ricerca della felicità consiste in un faticoso cammino di ascesa, seguendo il richiamo dal buio del fango materiale verso una lontana luce che ci attira, come la ninfea che dal fango acquoso e scuro sale per sbucare alla luce sulla superficie dell’acqua, come se sapesse che lì finalmente potrà vedere il sole.

La felicità su questa terra non è allora uno stato d’animo, ma piuttosto una ricerca continua e interminabile, una tensione che dura tutta la vita,[7] uno sforzo per sollevarsi verso l’alto. Se mai avete ascoltato qualche sinfonia di Beethoven, vedrete che la sua musica tende sempre verso l’alto, mai verso il basso (in questo momento penso in particolare al III e IV movimento della 7a sinfonia).

Vediamo di chiarire meglio. Sono certo che ciascuno di noi, anche da giovane, anche se crede di vedere nei calciatori miliardari e nelle veline sculettanti il proprio ideale di vita, quando vede un uomo agire, necessariamente si domanda: per quale scopo? E ciascuno di noi, se lo scopo non è materiale, lo ammira sempre. Se, invece, lo scopo è soltanto materiale lo ammira di meno, e a volte lo disprezza. Pensiamo al magnate che accumula vagonate di soldi con i suoi affari. Pensiamo all’arte. Solo se l’artista è riuscito a staccare l’idea di lavoro dall’idea di guadagno riesce di solito a creare opere che suscitano l’estasi; se ha dipinto quadri solo per guadagnare, produce normalmente quantità che non significa niente, perché nell’arte solo la qualità è tutto. L’arte è verità e, come sosteneva il fotografo Hans Georg Berger, fra arte e pubblicità esiste la distanza che c’è tra il vero e il falso; solo nell’arte si inserisce un supplemento di spiritualità. E sta lì la differenza tra verità e falsità, tra quello che ci aiuta ad andare avanti e quello che affoga nel buio[8].

Oggi è di moda dire che la nostra società non ha più valori, ma non è vero: l’uomo lavora sempre per uno scopo. Solo che, oggi, pochi lavorano per fini spirituali; molti, troppi, per scopi meramente materiali. Oggi si adora soprattutto il dio-denaro. E invece sono i valori spirituali che fanno grande l’uomo: la nostra aspirazione tende sempre in alto verso l’infinito, mentre la sola materia, che rende tutto finito, ci schiaccia continuamente verso terra. Del resto, osservava già Beethoven – e come si può non condividere questa sua felice intuizione? – se la nostra aspirazione è infinita, la volgarità del mondo rende tutto finito e ci trascina verso il basso.

Nessuno può trovare grandi stimoli se ci si limita a considerare solo la materia. L’entusiasmo arriva quando si guarda oltre la materia. Il campo artistico, letterario, la giustizia, le scienze, questi sono i settori dove gli uomini diventano grandi; settori, cioè, in cui non c’è solo materia: quando un uomo è destinato in una catena di montaggio ad avvitare il bullone 54 per tutta la sua vita, si ferma alla materia e non va oltre. Difficile che sia un uomo felice. Tutto ciò che invade il campo dell’uomo non deve invece essere solo materia. C’è questa tendenza, che abbiamo tutti dentro di noi, verso il di là della materia. Parto dalla materia, sono limitato dalla materia, ma vado oltre. Vedo il ferro: mero materiale. Anche l’animale lo vede, e si ferma lì. L’uomo va oltre: studia, ci pensa su, inventa. Dal vapore nasce l’idea della caldaia, della locomotiva che ci permetterà di spostarci più velocemente, della centrale elettrica che ci darà calore d’inverno.

E in realtà, a ben pensarci, l’uomo diventa grandissimo solo quando fa cose che – viste in un’ottica solo materialistica – sono completamente inutili: La Divina Commedia, il Taj Mahal, le sinfonie di Beethoven, sono queste le cose che restano nel tempo e tutti, anche dopo secoli, restano estasiati nel leggerle, vederle o sentirle. Sono le cose inutili, allora, quelle che più ci avvicinano alla felicità. Il lavoro dell’uomo è grandioso non tanto quando riguarda le cose indispensabili per vivere (coltivare per mangiare), ma le cose inutili (un vino eccezionale); oppure, ancor di più, quando riguarda il campo della non-materia:[9] pensiamo a Omero, a Mozart, a Michelangelo, a Leonardo. I grandi artisti sono quelli che riescono a farci intuire il trascendente oltre l’immanente, l’invisibile oltre il visibile, perché l’essenziale resta invisibile agli occhi[10].

Il vero artista riproduce in questo mondo un principio che non è di questo mondo. E com’è possibile? L’Islam ci spiega che in cielo si trova tutto ciò che può essere attualizzato nella creazione; la terra, invece, è il luogo dove si trovano le forme, ed il male ed il bene stanno all’interno delle forme; in mezzo sta l’uomo, che fa da ponte nella creazione fra cielo e terra. L’artista dà forma terrena a un principio informale che si trova in cielo.

Perché questi uomini ci colpiscono, ancora oggi, più del calzolaio che ci ha riparato con perizia le scarpe, dell’impresario che ha fatto un sacco di soldi costruendo case, del fabbro che ci ha aperto la porta di casa di sera tardi quando avevamo perso le chiavi, ed eravamo fuori al freddo? Perché solo i primi, non i secondi, sono riusciti a farci sognare.

Dunque il sogno dell’infinito – strettamente correlato alla felicità - caratterizza la vita dell’uomo. Per questo l’uomo esplora lo spazio e va sulla luna. Per questo esplora le grotte, gli abissi marini, e sale in cima alle più alte montagne. Per questo dipinge e scrive musica. Nessun animale lo fa. Ma per questo stesso motivo, molti di coloro che non riescono a raggiungere quello cui aspirano, cercano una risposta rapida al di fuori della materia per assopirsi, per non dover più pensare, per non tormentarsi ogni giorno in questa continua ricerca che costa fatica: per fare un facile esempio, basta pensare al flagello della droga[11]. O, per restare nel banale, pensiamo a tanti giovani d’oggi: sguardi veloci sui marchi delle felpe e dei telefonini come principale identità, senza alcun altro interesse; poi, il vuoto più totale.

“Ma che progetti hai per il tuo futuro?”

“Boh! Non so.”

“Come passi il tuo tempo?”

“Così…mi diverto”. E tanti vivono solo per le discoteche, che per fortuna sono da un po’ chiuse a causa del Covid. “Oggi in discoteca ho vissuto la copia carbone di sabato scorso: come è stato bello!”[12].

Mi sembra allora che si possa tranquillamente dire che l’idea della religione, la quale riconosce l’esistenza di un’entità superiore sopra di noi (chiamiamola Dio, Allah, Natura, Caso con la C maiuscola, il nome poco importa), nasce allora non solo dalla paura della morte come sostiene qualcuno; nasce anche, e soprattutto, dal sogno dell’infinito, da questa tendenza innata che tutti noi abbiamo verso l’infinito, perché istintivamente capiamo che solo lì potremmo, un giorno, trovare la nostra felicità. È l’inquietudine per questa ricerca che ci fa vivere, altrimenti vivacchiamo soltanto, aspettando di tornare nella polvere. Ecco perché la spiritualità non scomparirà mai. E questo richiamo verso l’assoluto nasce nella stessa condizione umana, se uno vive la sua vita umanamente[13].


NOTE


[1] La pastorale ha fatto paura per secoli: mettendo insieme morte e colpa, peccato e castigo, le prediche terrorizzanti parevano trovare conferma nei fatti. La predica parlava di paura a gente che aveva paura e, in definitiva, esprimeva proprio la loro paura. La stessa storia d'Europa fornisce così la spiegazione all'esplosione del trionfo del macabro (che durò 2-3 secoli). Chi non ha sentito parlare della famosa ‘danza macabra’? La peste che poi devastò l'Europa nel 1300, facendo perire circa un terzo della popolazione, e che periodicamente ricomparve fino alla fine del '600, le insurrezioni urbane e contadine, le guerre (anche di religione), le invasioni dei turchi: tutto rientrava nell'insegnamento che induceva l'uomo a sentirsi colpevole e spaventato di fronte all'accavallarsi delle sventure.

L’apice venne raggiunto nel 1500 e 1600, quando era comune la credenza che i peccati degli uomini provocassero quei castighi collettivi che erano inviati dalla collera divina, e che Satana fosse presente ovunque (Delumeau J., Il peccato e la paura, ed. Il Mulino, Bologna, 1987, 171 e 8 ss., con le citazioni ivi riportate).

[2]Primus timor fecit Deos (È stata innanzitutto la paura a far immaginare l’esistenza degli dei) già diceva Petronio, un antico scrittore romano (in Framm. 27). Nello stesso senso vedasi il noto filosofo del secolo scorso Russel B., Perché non sono cristiano, ed. Longanesi, Milano,1972, 70. Vedasi ribadito lo stesso punto, in tempi più recenti, nell’articolo di Pirani M., Senza voce l’agnostico tra Bertone e D’Alema, “La Repubblica” 6.10.2008: “per scongiurare la paura della morte la fantasia umana ha immaginato sotto tutte le latitudini uno spazio che trascende la realtà visibile”.

[3] Ma è proprio così? Gli uomini hanno paura di Dio, finché assomiglia a quello che la loro immaginazione crea: un vecchio, arcigno o distratto, che osserva il mondo come un cantiere senza poter fare un granché o godendo delle disavventure altrui. Ma si può vederlo anche sotto un’altra luce: come un uomo che ha lavorato in quel cantiere, in mezzo agli uomini, e continua a farlo, ogni giorno, per costruire con loro una casa accogliente, perché per amare e ricreare il mondo bisogna prendere su di sé il dolore e le ferite (D’Avenia A., L’appello, Mondadori, Milano, 2020, 215). Insomma, l’incarnazione dimostra - almeno per i cristiani - che Dio non è onnipotente, ma è uno che si mette al nostro livello e ha bisogno della nostra collaborazione per migliorare il mondo.

[4] San Paolo diceva (1Cor 15, 26) che la morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto.

[5] Lapierre D. e Collins L. Stanotte la libertà, ed. Mondadori, Milano,1997, 160 ss..

[6] Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 292.

[7] Tradigo A., L’isola del Tesoro, “Famiglia Cristiana,” n.36/2007, 72.

[8] Riportato da Antonioli F., Un eremo è il cuore del mondo, ed. Piemme, Milano, 2011, 110.

[9] Siamo tutti d’accordo che la casa è un bene materiale. Ognuno di noi può lasciare la sua casa in eredità a chi vuole. Invece, la conoscenza, la capacità di suonare uno strumento, di parlare una lingua straniera, di eccellere in uno sport non si possono lasciare in eredità a nessuno. Tutte queste cose scompariranno con il titolare, anche se gli altri vorrebbero tanto ereditarle. Perché? Perché, evidentemente, non sono beni materiali, come la casa. Non si possono né toccare, né misurare. Quello che possiamo allora dire, è che nel mondo esiste la materia, ma anche qualcosa di diverso dalla materia. Qua c’è il rosso che si vede, si può toccare, si può esprimere in formule, si può misurare. Ma esiste anche il blu, o almeno una realtà che non è più rossa. Un esempio ulteriore? Voglio andare a Roma. Devo affrettarmi a prendere l’ultimo treno di questa sera e viaggiare tutta la notte. Ma col pensiero, se voglio, sono già là, in tempo reale. Allo stesso modo, in una frazione di secondo, torno indietro negli anni, al momento del mio decimo compleanno che tanto mi aveva emozionato. Sono messo in prigione? Il mio corpo resta lì, ma la mente è libera di entrare e uscire di prigione a suo piacimento: non c’è porta, non ci sono sbarre che la possano fermare. La mente, le idee non possono venire arrestate o incatenate. Le idee non si vedono, non si sentono, non si toccano, eppure esistono.

[10] De Saint-Exupéry A., Il piccolo Principe, ed. Bompiani-Giunti, 2017, 98.

[11] Ma anche qui, come dice Alessandro D’Avenia, se noi adulti ci scandalizziamo tanto perché molti giovani si drogano o bevono fino allo svenimento, non è che forse lo fanno proprio per non vedere il mondo che abbiamo loro preparato? (D’Avenia A., L’appello, Mondadori, Milano, 2020, 49).

[12] Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, 62s.

[13] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes §10 - del 7.12.1965.