Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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Mabel Allington Royds (1874-1941) - immagine tratta da commons.wikimedia.org










7. Domande e risposte su Chi è Gesù?


di Dario Culot



9. Lei ha parlato della fede in Dio. Ma che dire della fede in Gesù? Come mai l’esperienza dei seguaci di Gesù è stata tradotta non in una sola, ma in tante formule diverse? Con Dio usiamo al massimo il termine Padre; con lo Spirito santo usiamo al massimo il termine Paraclito; ma con Gesù le formule abbondano.

È vero. Anche questo è un punto interessante che non ho avuto tempo di sviluppare nella relazione: effettivamente, nella storia del cristianesimo, di Gesù non si è detto soltanto che è vero Dio e vero uomo, o che è Figlio di Dio. La figura di Gesù è stata condensata anche in tante altre formule, fin dall’inizio diversissime fra di loro. Ma vedremo che tutto questo si può mettere a fuoco anche considerandolo mero uomo.

Una prima cosa da dire è che le formulazioni dottrinali devono essere spesso rivedute per restare vitali e aggiornate, perché le parole cambiano di significato nel corso del tempo, come già detto nella risposta sub 4. Soprattutto va ricordato che le parole non riescono a tradurre pienamente la realtà dell’esperienza che è sempre oltre, più grande, sì che le formule hanno bisogno di essere sempre completate, aggiornate, messe in rapporto con l’esperienza di fede che si compie al momento. Ricordiamoci anche – come detto nella risposta sub 8 - di partire dall’idea che anche le formule dogmatiche nascono dall’esperienza. Ecco perché occorre incentivare un’esperienza personale di Dio. Se col cambiamento di significato delle parole le formule non vengono aggiornate, non si trasmette più l’esperienza originaria, ma ormai solo una dottrina, magari superata. E questo è sicuramente un grosso limite perché ancora oggi noi continuiamo ad esprimere la nostra fede in Cristo attraverso il richiamo a delle formule che ci sono pervenute da un passato ormai molto lontano, mentre – lo ripeto,- la realtà si trova sempre oltre le parole che noi utilizziamo per esprimerci; cioè le parole esprimono il nostro rapporto con le cose, con la realtà, con le persone, ma non riescono ad esprimere tutta la profondità del reale, non riescono mai a tradurre pienamente la realtà. Questo naturalmente continuerebbe ad essere vero in un futuro anche se noi oggi aggiornassimo queste formule con parole diverse. È stato ben detto che chi conosce solo il carro trainato dai cavalli non è in grado di tracciare le regole per il traffico di un'autostrada[1]. Se in passato non esistevano le automobili e le autostrade, insistere nell’applicare regole magari anche perfette sulla conduzione dei carri con i cavalli non ci porterebbe oggi molto lontano. Se in futuro ci muoveremo solo con mezzi aerei, sarà inutile conoscere a menadito il codice della strada.

Entrando nel vivo della Sua domanda, il primo punto da tener presente è che le formule sono state molteplici già nel NT. Sappiamo che delle tante esperienze di Gesù, messe per iscritto da tante comunità diverse, solo alcune sono finite nel cd. canone (cioè l’elenco ufficiale dei testi sacri - n. 120 Catechismo), e sono arrivate fino a noi. Il canone dà dunque la cornice chiusa entro la quale è lecito muoversi, mentre i vangeli apocrifi non possono essere utilizzati per costruire una valida teologia[2]. Ma lo stesso canone è già nato plurale, perché contiene elementi distinti che hanno reso possibile una molteplicità di sviluppi successivi non tutti convergenti fa di loro; infatti non tutti sono partiti da una comune e unica base iniziale. Se allora il dato d’origine è l’esperienza di fede che poi viene tradotta in formule, se le formule sono state necessariamente molteplici fin all’inizio, perché – come si è detto - il linguaggio non traduce compiutamente la realtà e rende poi possibili sviluppi successivi non sempre tutti conciliabili fra di loro, si spiegano anche le numerose contraddizioni fra i vangeli. Non partendo tutti dalla stessa linea di partenza, presto sono cominciati i litigi e le contrapposizioni, come risulta già dalle lettere di Paolo e dagli Atti degli apostoli di Luca.

Mi soffermo allora un attimo su alcune di queste molteplici formule cristologiche, e saccheggio a piene mani sempre da Carlo Molari[3].

Se leggiamo la lettera agli Ebrei (Eb 3,1), Paolo[4] scrive ai fratelli di fede: voi che siete partecipi di una vocazione celeste, prestate attenzione a “Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo”. Sottolineo la formula: ‘apostolo e sommo sacerdote’ della fede che noi professiamo. Ben diverso dalla formula ‘Gesù è Dio’, perché questa formula paolina è applicabile solo a un uomo. Sicuramente non è possibile definire Dio come apostolo e sommo sacerdote. Al capitolo 12,1s., Paolo richiama l’importanza di concentrarsi su Gesù, non su altro, quando viene scritto che anche noi, circondati da una così grande moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento”.

Per Paolo, quindi, il nostro riferimento a Dio è possibile solo tenendo fisso lo sguardo su Gesù, e a quel punto deve emergere in noi una forma nuova di amore fraterno, una forma nuova di condivisione, di accoglienza, di dialogo con le altre culture, con le altre religioni per poter insieme pervenire a una modalità nuova di umanità[5]. Ecco perché noi possiamo e dobbiamo riferirci a Gesù come punto di riferimento per la nostra fede in Dio.

Su questa linea, nella lettera ai Colossesi (Col 1, 15), Gesù non viene chiamato Dio, ma immagine di Dio, cioè sempre punto di riferimento per il nostro cammino di fede in Dio. E qui Gesù viene ovviamente preso in considerazione nel suo cammino storico, nella sua testimonianza storica. Solo così può essere per noi modello da imitare, visto che possiamo imitare un uomo, ma non certamente Dio.

Evidente che le conclusioni che si possono trarre da queste formule che definiscono in tal modo Gesù sono ben diverse da quelle che si traggono dalla formula ‘Gesù vero uomo e vero Dio’. Dio non può essere apostolo di sé stesso, sommo sacerdote di sé stesso, immagine di sé stesso.

Ma qui allora sorge subito il problema del rapporto di Gesù con Dio; perché dicendo immagine di Dio, o dicendo apostolo e sommo sacerdote della fede in Dio che noi professiamo, cosa intendiamo veramente? Apostolo significa Annunciatore, colui che ha suscitato quella modalità di fede in Dio che noi in seguito viviamo. Sommo sacerdote indica che Gesù ci ha offerto per tutta la sua missione una immagine di Dio mai vista prima. In realtà Gesù non era sacerdote; tanto meno sommo sacerdote. Era un artigiano che a un certo momento ha cominciato a predicare. Quando Giovanni Battista è stato imprigionato, Gesù ha cominciato a predicare la conversione (cioè un diverso modo di pensare) proprio per ricondurre la fede ebraica in cui anche lui era nato e vissuto a una modalità più profonda, più ricca, corrispondente alla novità di vita che era richiesta: “il tempo è compiuto.” Ricordate come Gesù ha cominciato l’annuncio? “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio viene. Convertitevi e credete alla Buona Notizia” (Mc 1, 15). Credete a quest’annunzio che l’azione di Dio sta per esprimersi in un modo nuovo: col Regno di Dio. Non si può vivere seguendo modelli passati. Il vino nuovo deve essere messo in otri nuovi (Lc 5, 37).

In questo senso Gesù è apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo. Quindi noi prendiamo Gesù come punto di riferimento, in ordine alla fede in Dio, guardando il suo cammino storico, il modo in cui è vissuto. Gesù ha vissuto la fede in Dio nella sua vita terrena abbandonandosi con fiducia a questo Padre da cui si sentiva amato e di cui si sentiva intimo. Sicuramente si è visto che in questa intimità pregava molto; quando c’era un momento di crisi, quando aveva difficoltà, si ritirava in un luogo isolato e profano a pregare; ed ha insegnato anche ai suoi come pregare. Quindi, per i suoi, anche in questo modo è stato testimone di quella fiducia in Dio che conduce a una ricchezza di vita, ad una novità di vita, ad una capacità di amore straordinaria. E questo cammino che egli ha compiuto, e che i suoi hanno proseguito, dovremmo proseguirlo anche noi nella storia.

Per esprimere questo rapporto con Dio, per indicare questa funzione di apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, sono state usate parole diverse, immagini, metafore, analogie. E poi sono state usate anche tante altre formule. Ripeto che siamo davanti a un pluralismo di formule già nel NT. All’inizio degli Atti, Gesù viene chiamato servo di Dio (At 3, 13), ma in altra occasione anche il santo (Lc 1, 35), il giusto (Col 4, 11), la guida della vita (“mi hai fatto conoscere le vie della vita”: At 2, 28), l’autore della vita (At 3, 15). Le definizioni sono diverse; ma tutte bene si combinano con l’uomo, piuttosto che con Dio.

E poi soprattutto viene utilizzato il termine Messia[6]. A questo proposito Gesù viene appunto presentato come costituito Messia nella resurrezione (At 2, 36). Questa formula la utilizza pure Paolo nella lettera ai Romani (Rm 1, 4), anche se Paolo aveva conosciuto Cristo solo come il resuscitato, e quindi già nella gloria, nell’ambito della divinità. Però all’inizio della lettera ai Romani lui riprende proprio questa formula: “costituito Figlio di Dio con potenza, per opera dello Spirito, nella resurrezione dei morti”. Costituito Messia nella resurrezione: e il verbo horizô, che Paolo utilizza in Rm 1, 4, significa non meramente «dichiarare» ciò che già esiste, ma proprio «costituire» da quel momento in poi[7].

Questo (non la formula metafisica di Calcedonia arrivata appena quattro secoli più tardi) è stato il modello iniziale da cui i cristiani sono partiti: Gesù è diventato Messia, e il termine Figlio di Dio in questo contesto indica appunto il Messia. Gesù è diventato Figlio di Dio o Cristo o Messia (cioè l’Unto del Signore) appena nella resurrezione dei morti[8]. Essendo rimasto fedele fino alla fine a Dio, continuando ad amare, ad esprimere il perdono, la misericordia anche nel momento supremo della violenza, nel momento supremo dell’uccisione, dell’odio, della violenza contro di lui.

Anche l’invocazione aramaica maranathà (1Cor 16, 22; Ap 22, 20), cioè Signore vieni (a salvarci) era utilizzata nelle prime comunità cristiane, in un momento in cui i primi discepoli di Gesù erano convinti che fosse già cominciata la resurrezione finale. Nella loro testa aspettavano il ritorno di Gesù da un giorno all’altro, da una settimana all’altra, poi da un mese all’altro[9]. Solo col passar del tempo si sono dovuti arrendere all’evidenza (visto che nulla accadeva) e si sono resi conto che interpretavano male questa venuta del Regno di Dio, che bisognava ancora attendere lo sviluppo della storia. Ma inizialmente il cristianesimo è cominciato così; in base a queste esperienze pratiche si sono stilate le formule: tutte, come si è visto, perfettamente inquadrabili nell’idea che Gesù è un uomo.

Perché tante formule diverse? Perché, come detto, c’è sempre una componente imperfetta non solo nell’uso delle parole, ma anche nell’interpretazione degli eventi, che sono sempre più grandi e più profondi di ciò che noi riusciamo a tradurre e a capire. Questo avviene costantemente anche negli eventi della storia quotidiana e non solo nella storia della salvezza. Noi per esempio siamo in grado di capire la Rivoluzione francese in modo molto più chiaro e profondo di quello che gli stessi attori stavano vivendo perché, avendo conosciuto tutti gli sviluppi successivi, comprendiamo anche meglio le componenti ancora imperfette degli ideali che allora venivano proclamati e proposti. Per questo non bisogna mai scordare che le parole, le interpretazioni non traducono mai esattamente la realtà: c’è sempre un “oltre” possibile. Questo vale allora anche per la realtà di Cristo, anche per la testimonianza che lui ha dato. A causa di questa incompletezza si sono utilizzate svariate formule per comprenderlo: altrimenti sarebbe bastata una formula unica.

Nello stesso NT, ad esempio, c’è anche un’ulteriore formula importante che tutti conosciamo bene: quella dell’incarnazione, che troppo spesso è stata intesa in un senso molto povero e banale, come se un essere celeste fosse disceso dal cielo[10]. Gesù non è venuto dal cielo; è un uomo sorto dalla terra, nato come tutti da una donna (così dice Paolo, il quale invece non dice che la donna era vergine - Gal 4, 4). Ma quest’uomo ha espresso la potenza della Parola di Dio che veniva dal cielo. È il Verbo, la forza creatrice, la Parola di Dio che appartiene all’ambito celeste, non l’uomo Gesù. Ma questa Parola non è appannaggio della chiesa-istituzione,[11] della gerarchia, perché questo non viene detto da nessuna parte nei vangeli.

Se il minimo comune denominatore che unifica tutti gli esseri umani è l’«umanità», quello che importa veramente è che ogni giorno diventiamo più profondamente umani, perché Dio stesso nell’incarnarsi, cioè nell’«umanizzarsi», ci fa capire che Dio non serve per rispondere a dogmi religiosi, ma alle domande della vita: umanizzarci sempre di più è ciò che dobbiamo fare nella nostra vita. Come Gesù è l’umanizzazione di Dio, così il cristianesimo, che prolunga nella storia la presenza di Gesù, non ha altra finalità ed altra ragion d’essere che rendere presente ed operativo il processo di umanizzazione che è iniziato nell’incarnazione[12]. Perciò questo collegamento stretto con Dio deve portare noi tutti (per lo meno la chiesa-comunità) a una forma nuova di amore fraterno, una forma nuova di condivisione, di accoglienza, di dialogo con le altre culture, con le altre religioni per poter insieme pervenire a una modalità nuova di esistenza. Questa è la promessa che dobbiamo annunciare in quanto cristiani; ma prima dobbiamo noi stessi realizzarla fra di noi per poterla poi annunciare in modo credibile. In questo senso, quindi, la fede in Cristo diventa per noi un impegno per diventare anche noi testimoni di Dio nel mondo, impegno che va avanti di generazione in generazione lungo i secoli.

Nel Prologo del vangelo di Giovanni, viene proprio espresso nitidamente questo cammino nella storia del Logos, del Verbo di Dio, che è l’azione creatrice di Dio. Giovanni utilizza proprio questo termine (Logos, in latino Verbum) per parlare dell’azione di Dio all’interno della storia umana, che si esprime come un dinamismo di Vita (Gv 1, 4), si esprime come Luce (Gv 1, 5), poi chiama alla conversione col Battista (Gv 1, 6), chiama il popolo a testimoniare la sua fedeltà, ma in passato aveva già suscitato profeti e santi. Quando l’evangelista dice: “Venne fra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto. Ma a quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 11s.), sta parlando appunto della Forza creatrice all’interno della storia: questo è il Logos. E chi ha accolto questa forza? Gente di qualsiasi religione, di qualsiasi cultura, che poi sono chiamati figli di Dio (“coloro che credono nel suo nome, i quali … da Dio sono stati generati” - Gv 1, 12s.). Questa espressione Giovanni la utilizza ovviamente per tutti i discepoli di Gesù, quando dice nella prima lettera: “chi ama, chi esercita l’amore, conosce Dio ed è generato da Dio” (1Gv 4, 7s.). Per questo il libro della Sapienza, che era stato scritto 50-30 anni prima di Gesù, chiama i giusti “figli di Dio” (Sap 2, 18). Gli empi dicono e credono di essere figli di Dio, ma – dice la Scrittura - vediamo se riescono a vivere come tali... Figlio di Dio è allora chi accoglie l’azione di Dio in modo pieno, per cui non tutti diventano Figli di Dio[13]. Quando Giovanni descrive nel Prologo la Forza creatrice di Dio che si esprime nella storia, e dice: “Venne fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”, sta parlando del Verbo eterno. Quando Giovanni dice che il Verbo si fece carne (siamo al versetto 14 particolarmente ricco e denso) possiamo forse tradurre in questi termini: questa Forza creatrice, questa Parola eterna che suscita la vita, che diventa luce, che diventa perfezione, che diventa profezia, santità nella storia, è giunta ad esprimersi al punto da tradursi in gesti umani, nella ricchezza di una fedeltà nell’amore che Gesù ha avuto e manifestato nella sua storia terrena.

L’incarnazione di Dio in Gesù è stato l’avvenimento per il quale sappiamo che Dio (il Verbo che resta il soggetto dell’incarnazione, il generato non creato di cui parla il Credo), nel farsi sarx,[14] umanità carnale, si è fuso con quello che è comune a tutti gli esseri umani. E, allora, Dio è presente in quello in cui tutti gli umani coincidono, a prescindere dalla loro origine, cultura, religione. Per questo, l’incontro con Gesù è necessariamente convergenza. Dove ci sono persone che si considerano credenti in Gesù, ma vivono questo loro credere in modo che la fede in lui non si traduce in convergenza, in avvicinamento e unione tra le persone, ma anzi si traduce in distacco ed espulsione,[15] si può affermare che non c’è fede, anche se queste persone dicono di credere che Gesù è vero Dio e vero uomo e anche se sono convinte che sono gli altri ad aver bisogno della loro luce. Pertanto, incontrare Gesù e vivere la fede in lui non significa certamente sottomettersi all’osservanza di doveri religiosi, bensì richiede l’attivarsi per il raggiungimento delle aspirazioni, dei desideri più profondi dell’essere umano. «Tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7, 12; Lc 6, 31). Siamo cioè davanti all’imperiosa necessità che tutti gli uomini hanno di rispondere alle proprie carenze più basilari[16]. E questo cammino intrapreso da Gesù è continuato poi nella storia attraverso la fedeltà di chi l’ha seguito. È in questa direzione che siamo tutti chiamati a diventare testimoni dell’azione di Dio nel mondo, anche se non è affatto facile.

Come ha scritto san Paolo (Ef 4, 15), i veri cristiani son quelli che ‘fanno la verità nell’amore’, cioè fanno della verità un crescere, un divenire, inventano strade nuove grazie all’amore. Non sono quelli che credono ai dogmi. I veri cristiani devono essere il sale della terra, e il sale si dona ma subito scompare scompare. Non vuole perpetuare sé stesso. Non è un fine, ma un mezzo. Al contrario si perde il sapore che il sale deve dare ogniqualvolta si attira l’attenzione su di sé e non su Dio. Quando non si trasmette amore a chi ci incontra. Quando non si comunica speranza e libertà. Sempre san Paolo (Eb 3, 6) dice infatti chiaramente: “Casa di Dio siamo noi, se conserviamo libertà e speranza” Spesso abbiamo invece ricevuto questo messaggio dal magistero: Casa di Dio siamo noi se conserviamo tradizione e obbedienza[17]. I veri cristiani non si fanno vedere, ma fanno vedere; sono luce che illumina senza far rumore, senza violenza, senza abbagliare con la dottrina o con le parole, ma con le opere[18] (Mt 5, 16: “Risplenda la vostra luce nelle vostre opere buone”). Che opere? Già Is 58, 7-8 ce l’aveva spiegato: dividere il pane con chi ha fame (e solo questo è il digiuno che Dio accetta), aprire la casa ai poveri senza tetto (il che vuol dire anche accogliere gli stranieri che arrivano qui senza niente: ahi! ahi! ahi!), vestire chi è nudo. Tutto questo è riuscito a fare Gesù, e per questo è Salvatore, Liberatore degli uomini.

Quindi non dobbiamo pensare che Gesù abbia avuto delle qualità soprannaturali divine nella sua umanità per fare quello che ha fatto. Era a un alto livello di umanità, questo sì. Ma nella sua perfetta umanità era interamente umano, pienamente umano, esclusivamente umano; talmente umano da essere icona di Dio; tutti coloro che tendono fisso lo sguardo su di lui possono prenderlo a modello, perché – lo ripeto - noi possiamo imitare un uomo, ma non certo Dio, e solo se Gesù è un uomo potremo (forse) fare cose più grandi di quelle che ha fatto lui (Gv 14, 12).

Altra cosa è invece il Gesù nella gloria, il Gesù risuscitato: però non possiamo sapere quali sono le caratteristiche che anche noi avremo, e che i defunti hanno avuto giungendo alla pienezza di vita oltre la morte, perché questo è un ambito che ci è precluso finché siamo vivi: è l’ambito della trascendenza. Qui siamo perciò davanti a un problema diverso che però non siamo in grado di risolvere. Non abbiamo i termini per farlo perché non abbiamo quell’esperienza di fede che invece caratterizza esclusivamente il nostro cammino umano.

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10. Ma dicendo che Gesù è solo uomo, non cade nell’eresia di Ario?

No, con l’impostazione della relazione non si cade nell’arianesimo. Prima del suo concepimento in terra, Gesù non esisteva, proprio come sosteneva Ario, il quale diceva che solo Dio è senza principio.

Prima, di preesistente, c’era solo la realtà divina del Verbo, quindi la realtà di Dio e nient’altro. Questo, però, non lo diceva Ario, per cui negando la divinità del Verbo eterno, anzi affermando che il Verbo era creatura umana identificata con Gesù, Ario negava anche che il Verbo fosse Dio. Ecco il motivo della sua eresia.

Dobbiamo smettere di identificare Gesù con il Verbo. Certo che Gesù Cristo (Messia) era presente nel progetto di Dio da sempre, ma non per questo era esistito da sempre; da sempre esisteva il Verbo, la Parola di Dio: non c’è confusione fra umanità e divinità dice Calcedonia. Un Dio onnisciente ha da sempre presente nella sua mente anche ciascuno di noi, ma nessuno di noi esisteva concretamente prima del concepimento, e questo vale anche per l’uomo Gesù.

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11. Ma negando che Gesù è Dio per identità non cade anche la Trinità? Togliendo nella costruzione il mattoncino della seconda Persona della Trinità, Gesù, cade tutta la costruzione.

No. La Trinità, rivelazione dinamica di Dio nel tempo,[19] permane anche con un Gesù uomo, esclusivamente uomo, perché il dinamismo divino resta del tutto indipendente dall'evento storico dell’esistenza di Gesù terreno,[20] che proprio nel tempo ci accompagna verso la salvezza.

La formula trinitaria è una formula umana. Come tale non è rivelata da Dio, ma traduce l’esperienza della rivelazione di Dio nel tempo, quando essa viene compiuta “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,2), come si è detto prima. La formula trinitaria è sorta dall’esperienza dei discepoli. in rapporto al passato (narrazione), cogliendo ora la parola (presente), in attesa del futuro (tensione finale). Dunque, l’esperienza trinitaria è nata dal vivere il rapporto con Dio immersi nel tempo[21].

Mi spiego meglio: prima che Gesù esistesse già esisteva la realtà divina nella sua molteplicità dinamica che noi esprimiamo col termine Trinità, cioè con la formula trinitaria (il Dio che era, che è, che verrà – Ap 1, 4). Il che significa che potremmo farci il segno della croce, sostituendo le parole ‘nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo’ con le parole “nel nome del Dio che è, che era e che viene”[22]. Anzi, solo in quest’ultima formula c’è assoluta uguaglianza, perché è possibile cambiare l’ordine dei fattori dicendo “nel nome del Dio che era, che è e che viene” oppure anche “nel nome del Dio che era, che viene e che è”. Invece pensate a come striderebbe sentir dire: “Nel nome del Figlio, del Padre e dello Spirito santo”, oppure “nel nome dello Spirito santo, del Figlio e del Padre”. Perché queste ultime formule suonano male? Perché inconsciamente cogliamo che nell’espressione tradizionale c’è una sottintesa subordinazione del Figlio al Padre, o in altri termini, la prima persona, alla quale vengono riferite la seconda (che viene generata dalla prima) e la terza persona (che procede dalla prima, e per i cattolici anche dalla seconda), è dotata di una priorità nascosta[23]. Il che trova conferma ad esempio nel fatto che Gesù dice sempre: “Questa infatti è la volontà del Padre mio” (Gv 6, 39). Non dice mai: Questa è la nostra volontà trinitaria”, né dice: “Questa è la volontà dello Spirito santo”. Non possiamo sapere nulla di com'è Dio in sé, perché Dio è trascendente e quindi il suo essere e la sua natura sono fuori della nostra comprensione. Perciò i termini di “Persona” utilizzati nelle for­mule trinitarie possono essere intesi solo come nomi metaforici e non propri: essi non designano direttamente realtà divine, ma esperienze umane[24]. Nel Nuovo Testamento, per di più, non c’è traccia dell’affermazione secondo la quale ci sarebbero tre persone (nel senso che oggi ha questo termine) in un unico Dio”[25]. Il messaggio di Gesù non è costituito dalla propria persona, bensì dal Regno di Dio. Egli si preoccupa esclusivamente di Dio Padre, l'Uno e Unico.

Anche la Bibbia di Gerusalemme annota con prudenza: “il cd. comma giovanneo (1Gv 5, 7s.: “tre sono quelli che rendono testimonianza…”) è probabilmente un glossa aggiunta in seguito”. Hans Küng dice più duramente che è un falso aggiunto nel III-IV secolo[26].

Va precisato che nella tradizione teologica questa fede in Dio - come colui che era, che è e che viene (Ap 1, 8) - si è sempre chiamata la Trinità economica. Si parla di “economia” non nel senso che oggi ha questo vocabolo, ma nel senso di “storia della salvezza”[27]. Quindi le formule trinitarie sono sorte precisamente per descrivere questa storia (o economia) di salvezza. È stato ben sottolineato come il simbolo niceneo-costantinopolitano, cioè il Credo che ancora oggi si recita a messa, metta in primo piano proprio la Trinità economica (la sua rivelazione e azione nella storia), mentre non chiarisce come veramente si articolano Unità e Trinità in sé (cd. Trinità immanente,[28] per la quale si deve ricorrere alla metafisica). Torniamo al solito discorso: è impossibile conoscere la realtà di Dio in sé; quindi dire che nella sua struttura (essenza) Dio è tre persone in una sola natura è impossibile[29]. Parlando perciò di un Dio trinitario noi non diciamo cose su Dio, ma parliamo dell'esperienza nostra di Dio vissuta nel tempo.

E come avverte un noto studioso della Trinità, che pur parla in tutto il suo studio della Trinità immanente, alla fine riconosce – con poche scarne parole - che il nostro linguaggio a proposito della Trinità non deve perdere di vista il collegamento con l’esperienza della salvezza: «se dimentichiamo la presenza divina nella storia e nelle nostre vite, stiamo semplicemente manipolando concetti nella nostra mente»[30]. E avverte un altro profondo teologo - se non si fa attenzione a questo radicamento dell’esperienza, la speculazione sulla Trinità può degenerare in selvagge e vacue acrobazie concettuali[31]. Ecco il grande rischio per i teologi dell’astrattezza e che si appoggiano solo alla metafisica.

Occorre poi anche ribadire che la parola ‘economia’ oggi ha assunto un significato del tutto nuovo e diverso, mentre solo nella tradizione teologica è rimasta questo significato antico di “storia della salvezza,” ovvero il modo e il processo di azione di Dio nella salvezza degli uomini. Non è che Dio si presenta davanti a noi, nelle nostre menti, con tre vesti diverse (modalismo); è che, mentre Dio vive fuori del tempo, noi che viviamo nel tempo, a causa della nostra limitatezza, lo percepiamo con tre modalità temporali diverse. È la nostra limitatezza che ci impedisce di percepirlo nella sua unicità e completezza (perché in Dio c’è unicità), mentre lo percepiamo trinitario: il Dio che era, che è, che viene.

Vedi amplius sulla Trinità gli articoli de Il giornale di Rodafà

dal n. 507 in https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-507---2-giugno-2019,

al n. 511 in https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-511---30-giugno-2019

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12. Ma allora, se ho ben capito, Lei non crede che la metafisica possa aiutarci nella ricerca di Dio.

Tutto può aiutare, ma si deve riconoscere che con lo studio della metafisica si è giunti a proclamare verità assolute e immodificabili,[32] ed è esagerato (almeno io la penso così) voler trattare la sostanza religiosa come fosse pura metafisica.

Come ho già detto rispondendo alla domanda sub 8, la distinzione tra la fede, la dottrina della fede e la teologia (ossia la spiegazione sistematica della dottrina della fede) è una distinzione da tener sempre presente. Ciò che salva è la fede, non certo la dottrina della fede, e insegnare la dottrina della fede non è sufficiente per indurre la fede[33]. Uno può cioè conoscere perfettamente le dottrine, manipolare perfettamente ogni concetto metafisico senza vivere la fede, perché una cosa è ritenere vere delle dottrine, altro è esercitare la fede. Allora ci possono essere dei credenti, direi meglio dei praticanti, che però abitualmente non vivono la fede. Si accontentano di “credere che”, di praticare la religione, per cui si aggrappano alle formule dogmatiche, alle leggi, alle tradizioni. Se ci si guarda attorno, si vedrà che è molto frequente trovare cristiani che hanno le loro preoccupazioni religiose poste nell’osservanza religiosa, non nel cercar di seguire Gesù[34]. Ecco allora che il Trascendente non può essere visto come lo studio dell’essenza di una Realtà infinita per noi irraggiungibile, ma richiede il rapportarsi col prossimo umano per noi raggiungibile, quella persona che incontriamo sulla nostra strada. Ecco Dio in forma umana; non il mostruoso, il lontano, l’orribile in forma di animale, come in alcune religioni pagane; ma neppure nelle forme concettuali dell’assoluto, del metafisico, dell’infinito, ecc.; e neanche nella forma greca dell’“uomo in sé”, bensì dell’“uomo per altri” [der Mensch für andere], e perciò il crocifisso[35]. Qui soltanto c’è il collegamento trascendente-immanente.

Quando diciamo che Dio è Trascendente, vogliamo dire che Dio sta al di là di tutto quanto noi altri possiamo conoscere, anche con la metafisica. Come ha ben spiegato il prof. Castillo,[36] la metafisica «indaga l’essere in quanto esso è tale»[37]. Per questo lo specifico della metafisica, lo specifico dello studio dell’essere, è (secondo Aristotele) la più alta forma della filosofia, che studia una sorta d’essere che è «simultaneamente indipendente e immobile»[38].

La Bibbia degli ebrei, invece, ci racconta cosa Dio fa nella storia, ci parla in maniera anche colorita di un Dio che è tutt’altro che immobile, perché cammina, si coinvolge con il suo popolo, ha cura del suo popolo, ma anche litiga con esso[39]; di un Dio che si stupisce della violenza dell’uomo che Lui stesso ha creato, per cui si arrabbia, decide di distruggerlo, poi però si pente e promette di non farlo più (vedasi la storia di Noè – Gn 9, 11). Se leggiamo il breve libro di Giona, Dio stesso cambia idea; si può dire che è Lui stesso si converte e depone il suo sdegno (Gio 3, 9-10). Per Aristotele, e per i nostri metafisici che a lui si abbeverano, questo è assurdo perché Dio non può cambiare: è il motore sempre immobile che pur muove tutto senza essere mosso. Ciò che è assoluto non può cambiare, perché il mutamento è sinonimo di imperfezione. Così ci è stato insegnato al catechismo, perché risalendo da una cosa all’altra, continuando nella catena, razionalmente si deve arrivare a un principio-fonte completo, che non muta, che non è mutabile, e quindi è immobile.

Detto ciò, e una volta stabilita questa distinzione fra l’«essere» (ontologia) e l’«accadere» (storia), la prima cosa che c’insegna questa distinzione è che l’«essere», in quanto si colloca «al di là» del sensibile, per ciò stesso sta «al di là» di quello che accade. Il che equivale ad affermare che sta fuori dalla storia[40]. Però questo, a sua volta, implica che il pensiero che si incentra sull’«essere» (ontologia) comporta per ciò stesso una fuga autentica e radicale dall’«accadere» (cioè dalla storia). Forse il problema per la cristologia è che è stata appunto elaborata in un processo di progressivo e crescente spostamento dalla storia terrena di Gesù all’ontologia del dogma[41]. Il che è come affermare che la cristologia dogmatica è stata elaborata come una fuga dall’evento storico di Gesù. Pensate solo al Credo, a quanto poco racconti della storia terrena di Gesù (si dice solo che nacque e morì), ma è come se durante la sua vita non fosse vissuto sulla terra, non avesse detto e fatto nulla, rimanendo muto e inerte.

Ecco come e perché anche nel cristianesimo si sono presto formate due teologie: la teologia speculativa che ha al centro la speculazione dell’essere (viene da Paolo, che ha avuto davanti a sé solo il Cristo risorto), mentre nella teologia narrativa il centro non è l’essere, ma la storia, la vita concreta (e viene dai vangeli, che hanno avuto ben presente la vita terrena di Gesù).

Partendo fin dall’inizio con due teologie diverse, anche la domanda fondamentale rivolta ai cristiani finisce con l’essere duplice. La prima, è la domanda che di solito abbiamo sempre sentito: “In che cosa credi tu?” (“Credi che Gesù è vero Dio e vero uomo?). Ma l’altra domanda, che di solito non abbiamo sentito, è: “cosa fai tu, come vivi tu? Come ti comporti con gli altri?” Ricordate la storia della bambina del banco delle mele?

Se noi cristiani non fossimo così preoccupati per l’essere, ma lo fossimo per il vivere (come è vissuto Gesù? cosa ha fatto Gesù per gli altri?), se accogliessimo il suo invito alla conversione (metanoia), se il centro della nostra vita diventasse la teologia narrativa e non quella speculativa, si cambierebbe radicalmente il nostro rapporto con Dio e con gli altri. Ad es., se seguo la teologia speculativa sarò preoccupato della mia salvezza dopo la morte; ma se seguo la teologia narrativa sarò invece preoccupato di operare in questa vita, perché la teologia narrativa dei vangeli è centrata su tre problemi assai concreti di questa vita: il problema della salute, il problema della relazione con gli altri e il problema del mangiare (che sono poi anche problemi che riguardano l’economia e la politica[42]). Il Mahatma Gandhi sosteneva in modo chiaro e forte che non si può identificare la religione con la politica, ma neanche si può separare la politica dalla religione[43].

In quest’ottica, nei vangeli, Gesù sta sempre guarendo gli ammalati, dando da mangiare o mangiando con altri, soprattutto con gli esclusi o emarginati dalla società… funzioni religiose? Cercatele pure, non ne trovate, evidenzia sempre il prof. Castillo[44]. Eppure ancora oggi, col coronavirus, abbiamo chi grida che senza il rito della santa messa, senza il culto non si può vivere. Gesù è vissuto benissimo, tanto che non è mai andato al Tempio a pregare.

È chiaro allora perché non credo che la metafisica, fulcro della teologia speculativa, possa risolvere il problema “Dio”. La metafisica vuol comprendere razionalmente il Trascendente, ma mentre l’immanente (l’aldiquà) lo possiamo conoscere, il trascendente (l’aldilà) non sta alla nostra portata, non lo possiamo conoscere, sì che né il credente, né l’ateo possono provare le loro affermazioni (cfr. alla nota 32 della prima domanda cosa diceva l’atea Margherita Hack). Come poi detto rispondendo alla domanda n.3 noi possiamo solo pensare che esiste il Trascendente in base all’esperienza (immanente) dell’esistenza di qualcosa che ci supera, che è più grande di noi. Molto più in là non si va.

Infine, come credenti, dovremmo anche riconoscere che, per tentare di conoscere il Trascendente, è possibile utilizzare solo quello che ci rivela Gesù nella sua vita (con le sue azioni e le sue parole), per cui è chiaro che non ci troviamo nell’ambito dell’ontologia, ma in quello della conoscenza, dell’epistemologia. In conclusione, non possiamo avere la pretesa di chiarire l’essere di Dio in sé, e dovremmo limitarci a parlare solo di quello che noi possiamo conoscere di Dio, nei limiti della rivelazione che ci è stata fatta da Gesù. La conoscenza di Dio in Gesù diventa visione di un essere umano, poiché questo e non altro è ciò che «vedevano» i discepoli in Gesù. La sorprendente innovazione introdotta da Gesù nel poter conoscere Dio, sta nel fatto che il Trascendente e l’Invisibile sono diventati immanente e visibile in quell’uomo che è stato Gesù[45]. Ma questa visibilità non abbraccia l’intera trascendenza. Torno a dire che nessuna mente umana può comprendere l’essere di Dio, la realtà di Dio. Noi restiamo nell’immanenza, e tutto ciò che è immanente è limitato, per cui se anche sommassimo tutto l’immanente (A1 + A2 + A3…) arriveremmo sempre a un risultato parziale (An), che non sarebbe mai l’incommensurabile, il trascendente[46].

Se le cose stanno così, come fa la Chiesa a dire (nella Dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa - Dominus Iesus del 6.8.200 - §§ 4-5), che in Gesù Cristo è contenuta la rivelazione piena del mistero di Dio?[47] Gesù non l’ha mai sostenuto, e nessun testo sacro cristiano ha mai affermato che Dio è pienamente conosciuto attraverso la rivelazione in Gesù Cristo. Appunto, anche se Gesù ci avesse raccontato tutto dall’A1 all’A100, il risultato finale resterà sempre parziale.

E quand’anche Gesù fosse Dio, quand’anche come Dio avesse veramente rivelato all’umanità tutto Dio, questo non basterebbe per affermare che egli ha rivelato completamente il mistero divino[48] posto che Dio resta trascendente per noi uomini limitati (come del resto ammette anche lo stesso documento Dominus Iesus al §6), e abbiamo appena detto che l’immanente non ha la capacità di conoscere e comprendere appieno il trascendente. Mai. La trascendenza non appartiene all’ordine naturale dell’umanità per cui, se non si supera quest'ordine, si è incapaci di afferrare e definire l’Assoluto. In altre parole, ogni specifica rivelazione sul trascendente sarà necessariamente un’approssimazione, e quindi una distorsione. Ovverossia, un Gesù vero Dio potrebbe anche aver tentato di spiegarci l’Assoluto, ma è che noi non siamo in grado di comprenderlo, perché avanziamo frammento dopo frammento. Se noi parliamo di filosofia a un bambino di cinque anni, non capisce niente. Ebbene, noi rispetto all’ambito trascendente siamo come quel bambino di cinque anni: non siamo in grado di capire anche se ci venisse spiegato tutto. O, per usare la bella immagine del grande teologo cattolico indiano Panikkar, quand’anche Dio avesse fatto cadere dal cielo sulla terra la Verità tutta intera (e Dio è Verità), essa, nell’impatto con la terra, si è frantumata in mille pezzi, e l’uomo è in grado di raccoglierne solo qualche frammento per volta.

Pertanto, se accettiamo questo modo di ragionare, anche dire che Gesù è modello di umanità non significa dire che nella sua storia ha esaurito tutte le possibilità della specie umana, nella conoscenza, nello sviluppo operativo, nelle capacità operative. Questo perché Gesù è a sua volta inserito nella storia, ed è modello di umanità in quanto inserito nella sua storia, e quindi nei limiti della cultura del tempo[49] e nel condizionamento culturale della religiosità ebraica del suo tempo da cui è emerso, come ciascuno di noi è chiamato ad emergere dalla propria cultura, per avanzare, per procedere oltre. Ma il richiamo oggi a Gesù deve essere coniugato con la nostra fedeltà al vangelo che lui ha proclamato; o al racconto della sua avventura, dato che ci è pervenuto appunto come racconto, in diverse forme, visto che i vangeli sono ben 4 e ci sono poi altre tradizioni che si sono sviluppate. Stando ai vangeli, si conosce Gesù solo mediante la sequela, non mediante lo studio della teologia, del catechismo o dei dogmi[50]. Parlare quindi di Gesù come modello di umanità vuol dire chiedersi come noi oggi, vivendo la sequela di Gesù, possiamo far emergere all’interno della storia umana nuove forme di umanità, cioè di fraternità, di condivisione, di giustizia, di pace: cioè quelle caratteristiche che corrispondo agli ideali che l’umanità sta perseguendo oggi, quindi al cammino che sta sviluppando nella storia[51].

La metafisica dell’essere aspira ingannevolmente a spiegarci il trascendente. La storia dell’accadere ci riposiziona nella realtà dell’immanente, l’unica che noi uomini abbiamo alla nostra portata e l'unica di cui possiamo parlare con cognizione di causa. Per questo Dio, per farsi conoscere, si è umanizzato in Gesù di Nazareth.

Lo specifico del cristianesimo non è l’affermazione di un insieme di verità su realtà trascendenti,[52] basate su concetti e un linguaggio metafisico di matrice greca, bensì qualcosa di molto più importante nella vita, che si colloca al centro dell’esistenza umana. Dio si è fatto conoscere in Gesù umanizzandosi, discendendo fino in fondo, fino al gradino più basso (quello di servo o schiavo), fino al livello minimo che resta comune a tutti gli esseri umani, ciò in cui tutti noi esseri umani coincidiamo, ben oltre le differenze etniche, nazionaliste, culturali, di genere, di origine, di lingua, di religione o di cultura[53]. Quindi, ciò che interessa a Dio è renderci sempre più umani, e non darci una descrizione del suo essere.

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13. Ma se anche i novissima fanno parte della Trascendenza, e Lei dice che non possiamo sapere nulla di certo su ciò che fa parte della Trascendenza, Lei sottintende che non possiamo sapere con certezza neanche se esiste l’inferno.

Dunque, le ultimissime cose di fronte alle quali si troverà l’uomo (giudizio dopo la morte, giudizio finale, eventuale risurrezione, paradiso/inferno), cioè i cd. novissima, si situano dopo la morte, quindi sono eventi al di fuori della storia perché la storia (quella di Giulio Cesare, di Napoleone, ma anche quella di ciascuno di noi) finisce con la nostra morte. Ciò che ci succede dopo la morte non può essere un fatto storico, perché storico è solo quel fatto che ci succede nell’arco della vita terrena. Quello che accade dopo la morte non è più dentro la storia; potrà anche essere reale, ma sarà un fatto meta-storico, trascendente e non più immanente. E come detto più volte, l’unico ambito al quale abbiamo accesso e che possiamo conoscere è quello immanente.

Sull’inferno in particolare, come detto al punto 2 dell’articolo Frasi dure dei vangeli, al n.583 di metà novembre 2020 di questo giornale, la Chiesa non ha mai affermato che una determinata persona è di sicuro finita all’inferno[54]. Non lo ha affermato perché neanche la Chiesa lo può sapere[55]. Per di più sappiamo che Gesù – come gli evangelisti,- era legato alla cultura del suo popolo e del suo tempo. L’inferno[56] sembra esistere anche per Gesù (cfr. la parabola del ricco epulone dove si parla dell’arsura delle fiamme che tormentano il ricco epulone, dove un abisso separa i premiati che si trovano accanto ad Abramo e i castigati che si trovano più in basso, eppur possono vedersi - Lc 16,24). Ma come è pensabile che il povero Lazzaro possa finalmente vivere felice vedendo più in basso altri esseri umani che soffrono, visto che lui ben sa cosa vuol dire soffrire? In realtà qui si parla degli inferi (Ade, Sheol, il regno dei morti, concetto conosciuto da molti popoli, poi diventato inferno per i cattolici come si recitava nel Credo quand’ero piccolo, mentre oggi si è tornati al termine inferi). Gli antichi credevano che dopo la morte si scendesse nell’Ade. Quindi c’è un’evidente interferenza culturale nel discorso sull’inferno.

In ogni caso ribadisco che ogni castigo è un mezzo che ha uno scopo preciso: evitare che il castigato compia di nuovo il male, correggerlo, eccetera. E allora una punizione eterna, un fuoco eterno che causa sofferenza reale, brucia e reca dolore senza mai distruggere, non ha alcuna finalità concreta; è solo una vendetta, e un Dio così vendicativo fa a pugni con un Dio misericordioso. Per questo ho effettivamente più di qualche difficoltà ad accettare la teoria tradizionale dell’inferno.

Cfr. ulteriormente quanto detto nell’articolo sull’Inferno al n.467 di questa rivista, in

https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-467---26-agosto-2018


NOTE

[1] Lenaers R., Il sogno di Nabucodonosor, ed. Massari, Bolsena (VT), 2009, 41).

[2] Anche se non si può affatto dire con certezza che i contenuti di tutti i vangeli apocrifi siano sicuramente tutti dei falsi. Anzi, c’è da dire che la tradizione popolare ha pescato e continua a pescare a piene mani dai vangeli apocrifi: pensiamo a san Giuseppe descritto sempre come un vecchio, alla nascita di Gesù in una grotta, alla presenza del bue e dell’asinello al momento della nascita di Gesù, all’assunzione in cielo di Maria, al fatto che i re magi fossero tre, al fatto che gli angeli indossino una veste bianca e abbiano le al, ecc.. Nulla di questo si trova nel canone.

[3] Molari C., relazione Gesù chi?, tenuta a Trieste il 27.2.2016 nella Chiesa di santa Teresa del Bambino Gesù.

[4] Anche se oggi sappiamo che questa lettera non è stata scritta da Paolo, come non è di Pietro la seconda lettera di Pietro, come non è di Isaia la parte finale del suo libro. Dunque, a proposito di contraddizioni e difficoltà, partiamo già con un Paolo che non è Paolo, un Pietro che non è Pietro e ben prima di loro, un Isaia che non è Isaia. Navighiamo nel relativo, non nell’assoluto.

[5] Se don Molari ci facesse oggi una predica sull’amore fraterno saremmo tutti incantati ad ascoltarlo; però se uscendo dalla sala dove l’abbiamo ascoltato la nostra vita continuasse come prima, se cioè non si cerca poi di praticare il messaggio nel modo più concreto e coerente possibile, non siamo ancora credenti. Analogamente, puntare su una dottrina impeccabile, con dogmi ben formulati, ma che non ha poi un riscontro nella vita reale quotidiana non ci rende credenti.

Questa forse è ancora oggi la più grande divisione e distinzione all’interno della Chiesa: una parte si ritiene credente perché privilegia il culto, crede ad una determinata dottrina, e tiene nettamente separato il sacro e il profano; un’altra parte si ritiene credente, a prescindere dalla dottrina e dal culto, perché fuori della chiesa, e quindi nel profano, nel quotidiano, si comporta in una maniera che cerca di imitare il comportamento di Gesù.

“Ma voi, chi dite che io sia!” (Mt 16, 15). La sua assomiglia alle domande che si fanno gli innamorati: quanto posto ho nella tua vita, chi sono per te? Gesù vuol sapere se gli apostoli hanno aperto il cuore come gli innamorati. Non c’è nessun Credo da comporre, Gesù non dà risposte già fatte, non indottrina nessuno (Ronchi E., Le nude domande del Vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2020, 69).

[6] Cristo in greco, Unto in italiano. L’unzione, segno visibile della scelta di Dio, è un atto cultuale che simboleggia l’incarico divino e implica il dono dello Spirito (Is 61, 1). L’unzione, pertanto, conferisce a chi la riceve la forza, la potenza e lo splendore divini, ed è un mandato d’autorità (Maggi A., La verità ci rende liberi – conversazioni con Paolo Rodari, Garzanti, Milano, 2020, 53).

[7] Schneider G., «horízô», in Balz H. e Schneider (a cura di), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004.

Come già detto nella relazione, è chiaro allora che dal momento in cui Gesù cominciò ad essere pensato in modo da essere situato dai cristiani nell’ambito soprannaturale del divino, inevitabilmente l’immagine di Gesù il Nazareno si fece confusa. Perché diventava obbligatorio chiedersi: continua ad essere un uomo? ha smesso di essere uomo per trasformarsi in Dio? Ma, allora se effettivamente era stato costituito «Figlio di Dio» e «Signore», cosa restava dell’uomo che era stato?

[8] Così risulta anche da At 2, 22-24: «Gesù il Nazareno fu uomo accreditato da Dio presso di voi…»; nonché dallo stesso Paolo (Rm 1, 3-4) il quale parla di Gesù come uomo nato dalla stirpe di Davide che tramite la resurrezione fu appena a quel punto «costituito Figlio di Dio». Anche per i suoi discepoli di Emmaus, Gesù era semplicemente un grande profeta (Lc 24, 19), quindi un uomo. Su questa linea teologica vedasi l’intervista al teologo Hans Küng del 17.12.2012 (in www.dongiorgio.it del 12.1.2013), ove alla domanda: La differenza teologica tra lei e Ratzinger?”«Per me Gesù è uomo figlio di Dio, per lui è Dio».

[9] Cfr. sulla convinzione dell'imminente arrivo del Messia Lc 21, 32; Mc 13, 30; 10, 22-23; 1Ts 4, 16s. Cfr. Lattanzi U., Il primato di Pietro nell’interpretazione di O. Cullmann in Il protestantesimo ieri e oggi, a cura di Piolanti A., Libreria Editrice Religiosa F. Ferrari, Roma, 1958, 1284: Cristo, per Cullmann, aspettava a breve la parusia. Quindi, in sostanza avrebbe errato. Ma se Cristo ha errato, Cristo non è Dio.

Parusìa termine che deriva dal greco e significa presenza, è un altro di quei termini che ha cambiato di significato nel corso del tempo. In Platone indica la presenza delle idee nel mondo materiale (cfr. sulle idee di Platone la nota 14 alla domanda n.4), in politica è la presenza o l’arrivo in visita dell’imperatore; nel Cristianesimo indica la seconda venuta di Cristo alla fine del mondo.

[10] E questa idea si è radicata nelle nostre teste recitando il Credo: “Per la nostra salvezza discese dal cielo”.

[11]Il luogo dell’incarnazione è l’uomo, anzi la carne. Il luogo dell’uomo è la terra, anzi la chiesa-comunità nel suo cammino, e non certo la chiesa-istituzione. La meta di questo cammino è la pienezza dell'uomo e non il nulla (Panikkar R., La pienezza dell'uomo, ed. Jaca Book, Milano, 2000, 224).

[12] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 409.

[13] Ma tutti possono diventarlo, e allora essere Figlio di Dio non è un privilegio esclusivo di Gesù (Maggi A., La verità ci rende liberi – conversazioni con Paolo Rodari, Garzanti, Milano, 2020, 56), ma tutti possono diventarlo: basta accoglierlo e collaborare alla sua stessa azione sempre tesa a dare vita.

[14] Gli dèi non sono sarx, bensì nous (ragione), epistéme (intelligenza), lógos (parola) (Seebass H., «Carne», in L.Coenen - E. Beyreuther - H. Bietenhard (a cura di), Diccionario teológico del Nuevo Testamento, vol. 1, Sígueme, Salamanca 62012, 227.

[15] “Io sono stato forgiato dall’idea che il mio Dio non è il Dio degli altri” (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020).

[16] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 329s.

[17] Ronchi E., Le nude domande del Vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2020, 51ss.

[18] Idem, 60s.

[19] Panikkar R., Trinità ed esperienza religiosa dell'uomo, ed. Cittadella, Assisi, 1989, 75.

[20] Dio trinitario può essere riconosciuto presente ovunque, sia prima, sia durante, sia dopo l'evento-Cristo e la fondazione della Chiesa (Dupuis J., Perché non sono eretico, ed. EMI, Bologna, 2014, 53).

[21] Molari C., relazione Gesù chi?, tenuta a Trieste il 27.2.2016 nella Chiesa di santa Teresa del Bambino Gesù.

[22] Quando diciamo che Dio è venuto sulla terra intendiamo che Dio è riuscito ad esprimere la potenza della sua Parola in Gesù al punto da renderlo capace di donare il suo Spirito. Quando diciamo che Dio viene, intendiamo dire che la sua azione diventa azione di creature che lo rivelano (Molari C., Gesù disceso dal cielo o sbocciato sulla terra?, "Rocca" n.10/2013, 52s.).

[23] Johnson E.A., Colei che è, Queriniana, Brescia, 1999, 402.

[24] Molari Carlo, La fede nel Dio di Gesù, ed. Camaldoli, 1991, 32.

[25] E. Boismard, All’alba del cristianesimo, ed. Piemme, Casale Monferrato, 2000, 157; Küng H., Cristianesimo, ed. RCS Libri, Milano, 1997,104, il quale dice: per quante formule triadiche ci siano nel Nuovo Testamento, in esso non si legge una parola in favore dell'unità di queste tre entità estremamente diverse, di un'unità su un uguale piano divino.

[26] Küng H., Cristianesimo cit., 104.

[27] O’Collins G., The Tripersonal God, ed. Paulist Press, New York/Mahwah, N.J. (USA), 2014, 141: economia di salvezza significa storia della salvezza. Anche Boff L., Trinità e società, ed. Cittadella, Assisi, 1992, 144, 250 e 289s., riconosce che ogni riflessione deve partire dalla Trinità economica, perché la Trinità non è stata rivelata come dottrina.

[28] I cristiani, col tempo, sono passati dalla Trinità economica a quella immanente (O’Collins G., The Tripersonal God, ed. Paulist Press, New York/Mahwah, N.J. (USA), 2014, 142), anche se già Ireneo dissuadeva dallo speculare su ciò che avveniva nel segreto della divinità, sulle sue processioni o generazioni, e suggeriva di limitarsi a ciò che Dio rivela nella 'economia' storica delle sue relazioni con gli uomini, per mezzo del Figlio e dello Spirito. I teologi non hanno imitato la sua prudenza, e si sono interessati più ai misteri dell'eternità che alle realtà della storia, e così l'idea di Dio ha finito per oscurarsi nelle speculazioni della metafisica. Pian piano la Trinità è stata collocata dai teologi in cielo, dimenticandosi di riportarla sulla terra; solo la teologia di Karl Rahner, identificando Trinità economica e Trinità immanente ha rimesso i piedi sulla terra (Moingt J., I tre visitatori, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 34, 54 e 63).

[29] Ricordo ciò che aveva detto che sant’Agostino nel suo De Trinitate libro V, 9: “se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’insufficienza estrema dell’umano linguaggio. Certo si risponde: "tre persone", ma più per non restare senza dir nulla, che per esprimere quella realtà”.

Oggi c’è chi parla di identità reciproca fra Trinità immanente e Trinità economica (Rahner K., A proposito del mistero della Trinità, in Teologia dell'esperienza dello Spirito, Nuovi Saggi, VI, ed. Paoline, Roma, 1978, 396: la Trinità economica è la Tri­nità immanente e viceversa). La formula come tale può essere interpretata in senso esclusivamente economico (salvifico), anche se - occorre onestamente sottolinearlo, a conferma di quanto l'argomento sia ostico anche fra grandi teologi, - non c'è affatto concordanza di opinioni. Alcuni, come Y. Congar (Credo nello Spirito santo, 3°, Queriniana, Brescia, 1983,25; Forte B., Trinità come storia, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985, 21-22, 128-130), ne accettano la prima parte e negano il ‘viceversa’ «in nome della inconosci­bilità e della trascendenza divina». Altri (Boff L., Trinità e società, Cittadella, Assisi, 1992, 121s.) affermano decisamente che il modo in cui Dio viene incontro all'essere umano nel tempo è anche il modo in cui Dio sussiste: se Dio a noi appare come Trinità, è perché Egli stesso è Trinità. Altri ancora, come Walter Kasper, accettano la formula dubitativamente (Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1984, 367: «potrebbe prestare il fianco a certe ambiguità ed interpretazioni sbagliate»); egli ricorda tra gli altri P. Schoonenberg secondo cui «le differenze fra le tre persone sarebbero tutt’al più modali, mentre sarebbero reali soltanto nella storia». Invece Hans Küng tenderebbe a «relegare più o meno nell’ombra la dottrina della Trinità immanente, concen­trandosi sulla Trinità storico-salvifica». Anche Molari Carlo si associa a quest’ultima tendenza ritenendo sia la più coerente (La fede nel Dio di Gesù, ed. Camaldoli, 1991, in nota a 32), ed è questa la tesi che seguo perché mi ha convinto.

[30] O’Collins G., The Tripersonal God, ed. Paulist Press, New York/Mahwah, N.J. (USA), 2014, 200.

[31] Così Rahner, riportato in Johnson E.A., Colei che è, ed. Queriniana, Brescia, 1999, 386.

[32] La verità metafisica va abbandonata, perché davanti all’interpretazione della vita della stessa persona le visuali sono dall’inizio necessariamente diverse: infatti abbiamo 4 vangeli. L’incarnazione è storia, susseguirsi di eventi interpretabili. La verità metafisica, assoluta, uguale per tutti, che si pretende d’imporre a tutti, è invece la negazione dell’incarnazione, perché questa verità è un assioma astratto, fuori della storia, che non accetta interpretazioni diverse. Ma anzi fa di tutto per annichilirle (Cugini P., Visioni postcristiane, EDB, Bologna, 2019, 32ss.).

[33] Molari C., Dottrina e prassi nel cammino ecclesiale, “Rocca” n.9/2014, 53.

[34] Cfr. quanto detto alla precedente nota 5.

[35] Da Resistenza e resa, (p. 462) citato da Ciancilla I., Dietrich Banhoeffer Dietrich Bonhoeffer: la forza dell'immanenza lungo le vie della trascendenza, in http://mondodomani.org/dialegesthai/ic01.htm.

[36] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 87.

[37]Jaeger W., Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, Sansoni, Firenze, 2004.

[38] Metafisica, E 1, 1026a 13.

[39] Si pensi solo al libro di Giobbe dove Dio, dopo che Giobbe gliene ha dette di tutte, afferma che il suo servo Giobbe ha parlato rettamente di Lui (Gb 42, 7-8).

[40] Ancora fino al concilio Vaticano II si affermava che la Chiesa non era inserita nella storia e non ne veniva toccata, e per questo era immutabile, doveva restare sempre uguale, mentre la storia è corruzione progressiva dell’uomo, causata dalla negazione del principio di autorità. L’aspetto innovativo del concilio Vaticano II, invece, è stato proprio l’attenzione per la storia (Ruggeri G., Ritrovare il Concilio, Einaudi, Torino, 2012. Pesce M., Chi ha paura di Gesù storico?, “MicroMega”, n.7/2012, 202.): non solo si riconosce che la mentalità scientifica ha ormai modellato in modo diverso la cultura e il modo stesso di pensare, ma si riconosce anche che il genere umano è passato da una concezione piuttosto statica dell'ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva (Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes § 5 – del 7.12.1965). Allora una «cosa è il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata» il che permette quel «balzo in avanti», separando sostanza e formulazione, perché la comunità può finalmente tradurre in modo nuovo l’esperienza che vive oggi (Discorso inaugurale al Concilio Vaticano II, del 12.10.1962, di papa Giovanni XXIII, Gaudet Sancta Mater Ecclesia). Cfr. anche la risposta alla domanda sub 4.

L’universo è sempre lo stesso, eppure Tolomeo ne aveva dato una spiegazione che per la Chiesa doveva essere definitiva perché sembrava coincidere con l’immagine descritta dalla Bibbia; invece poi è arrivato Galileo Galilei, inutilmente ostacolato dalla Chiesa, e poi è arrivato Einstein. Oggi, nessuno, neanche la Chiesa, pensa che Einstein abbia ormai dato la risposta ultima, perché si riconosce che ci stiamo sempre spostando verso la verità, ma forse non la raggiungeremo mai.

[41] Il teologo von Harnack (richiamato da Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006,32) ha chiaramente spiegato che il vangelo è stato ellenizzato. Hanno alterato la natura della fede, e invece di una comunione di vita con Dio hanno fatto diventare il tutto una dottrina metafisica da accettare.

[42] Si capisce allora che quando l’ex presidente del senato Pera dice di pregare affinché papa Francesco finalmente capisca che la Parola di Dio non è di giustizia sociale, ma di salvezza eterna (Langone C., Andiamo a messa, nonostante il Vaticano, “Il Giornale” 13.11.2020, 24), sta seguendo la teologia speculativa, ma forse neanche sa che esiste quella narrativa seguita da papa Francesco.

Il Regno di Dio – come invece ben spiega il prof. Castillo (Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 235ss.) - ha tre obiettivi:

1. La salute delle persone (motivo per cui Gesù cura tanti infermi);

2. Il cibo (che tutti abbiano da mangiare, e che si mangi condividendo, non da soli ) (Casati A., I giorni della tenerezza, ed. Fraternità di Romena Pratovecchio (AR), 2013, 71s. scrive: nella terza manifestazione del Signore, risorto, sulla riva del lago, ci s’immagina che se si manifesta sarà per dire cose importanti, come quando da noi appare la Madonna; e invece per lui la cosa che sembra importante è mangiare e far festa. La dottrina ufficiale, sconcertata per questa materialità, inventa l’interpretazione che questa fosse solo una scusa per attirare l’attenzione; ma allora perché accendere il fuoco sulla spiaggia e curarlo per poi arrostire il pesce? La nostra è una spiritualità listata a lutto. Gesù preferisce accompagnare le persone verso la felicità, per questo ci propone il Regno di Dio come una festa, un banchetto, senza distinguere fra corpo e spirito. Gesù non è spirituale nel senso che intendiamo noi: ricordiamo che lo vedevano come un mangione ed ubriacone.

3. La felicità delle persone su questa terra.

Tutti e tre questi obiettivi sono sostanzialmente fuori della religione, e anzi visti con sospetto dalla stessa. La religione preferisce accompagnare le persone verso la perfezione dell’anima e la santità.

[43] in https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-12/quo-288/se-francesco-br-incontra-ghandi.html

[44] Castillo J.M., Perché il Concilio non ha dato i frutti attesi, conferenza tenuta a Montefano il 1.6.2013.

[45] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 150.

[46] L'infinito di Dio non è un composto, raggiungibile mediante un semplice prolungamento del finito (De Lubach, Il mistero del soprannaturale, Jaca Book, Milano, 1978, 81).

[47] Gli antichi avevano capito meglio di noi, o forse erano meno presuntuosi di noi, perché dicevano che Dio vive nel mistero (1Cor 2, 7; è nascosto in una nuvola secondo Es 34, 5) e noi non abbiamo la possibilità di penetrare questo mistero.

[48] Dupuis J., Perché non sono eretico, EMI, Bologna, 2014, 70ss.

[49] Per cultura intendo il modo di stare al mondo.

[50] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, ed. La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 101.

[51] Molari Carlo, Il Cristo modello di umanità, relazione 30.8.2015 tenuta a Trevi, per la settimana di spiritualità Mai senza l’altro – è tempo di nuove umanità, organizzato dall’Associazione Oreundici di Roma.

[52] Anche papa Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia, 2000, 91 ha riconosciuto che il cristianesimo non è un sistema di nozioni, bensì una via.

[53] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 164.

[54] La Chiesa non ha mai fatto il nome di alcuna creatura umana che si trovi all’inferno. Lo riconosce perfino un duro conservatore come Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 43.

[55] Invece, nominando tanti santi, sembra che la Chiesa sappia per certo che queste persone sono finite in paradiso. Ricordo allora che, quando Josemaria Escrivá, il contestato fondatore della Opus Dei fu canonizzato nel 2002, un gesuita irriverente disse: “Questa è la dimostrazione che tutti, proprio tutti, finiscono in paradiso”.

[56] Nel Libro X (Cap. 13) della Repubblica Platone racconta che le anime dei giusti vanno sulla strada di destra, verso il cielo, dove domina un'incomparabile bellezza; quelle dei malvagi sulla strada di sinistra, giù in un abisso sotterraneo della terra, dove devono espiare i loro peccati per il decuplo (non per l’eternità). I più cattivi sono incatenati e tormentati da uomini selvaggi: siamo davanti all'idea di paradiso e d'inferno, quattro secoli prima di Cristo. Quindi, neanche qui, siamo davanti a una novità del cristianesimo.