Sansone e Dalila


di Paola Franchina

Addentriamoci nel racconto di Sansone e Dalila, una delle storie più suggestive della Bibbia, intrisa di tensioni politiche, seduzione e inganno. L’autore biblico riprende i colori della mitologia e ci introduce in un racconto dal sapore fiabesco. Il noto giudice, il cui nome ebraico Shimshon significa piccolo sole, appartiene alla famiglia dei daniti: la tribù, discendente dal quinto figlio di Giacobbe, in seguito all’arrivo dei Filistei, stabilitisi nella costa meridionale della Palestina, è stata costretta a ritirarsi a Nord; in questo scenario di tensione politica si insinua la vicenda affettiva ed erotica di Sansone e Dalila. Il possente eroe è figlio di Manoach e della moglie Manoa, i quali avevano ricevuto il dono provvidenziale di Sansone in età ormai avanzata. I due genitori, a motivo della senilità, sono privi della fibra e del vigore educativo proprio di una giovane coppia: essi, infatti, non si oppongono all’unione tra Sansone e una donna straniera, da lui conosciuta nella città di Timna, priva dei valori condivisi dal popolo d’Israele.

Il racconto incalza con la descrizione del progressivo tradimento da parte del protagonista degli oneri previsti dal voto di nazireato: non toccare cadaveri, non bere bevande alcoliche e non tagliarsi i capelli. In primo luogo Sansone trafuga il miele dalla carcassa di un leone, sulle cui ossa si era venuto a creare un alveare di api; secondariamente, partecipa ad un banchetto animato da bevande inebrianti. Infine, la storia di trasgressione raggiunge l’apice in occasione dell’incontro con Dalila, straniera della valle di Sorek, di cui Sansone si innamora.

Alla donna, il cui nome ha origini ebraiche e significa misera o povera, viene consegnata dai Filistei un’ingente somma di denaro per ammaliare il possente giudice e scoprire il segreto della sua forza: Dalila, così sollecitata, persevera nel circuire l’eroe ed estorcere da lui la verità. I tentativi della prostituta, in un primo momento, paiono vani: prima fa legare Sansone con sette corde d’arco fresche, poi con funi nuove non ancora adoperate, infine, si mette a tessere le sette trecce della testa nell’ordito e le fissa con il pettine del telaio. Dalila, purtuttavia, non si arrende e continua a colpire Sansone con le implacabili frecce di Eros. Dinnanzi alle incalzanti richieste della donna, il giudice apre il suo cuore e rivela il segreto della sua forza, confessando: «Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo di Dio dal seno di mia madre; se fossi rasato, la mia forza si ritirerebbe da me, diventerei debole e sarei come un uomo qualunque»[1].

Viene, così, sancita la condanna a morte del protagonista: Dalila fa addormentare Sansone sulle sue ginocchia, ammansendolo, mentre un uomo nemico procede a tagliargli i capelli.

I filistei, dopo aver sottratto la forza al giudice, possono cavargli gli occhi e legarlo con catene di rame. All’accecamento fisico, segue una rinnovata capacità di visione interiore: Sansone, costretto a far girare la macina nella prigione alla stregua di un animale da circo, torna in sé e con un grido invoca il Signore il quale non fa mancare il suo aiuto e conferisce nuovamente al giudice la sua forza. Così, nel momento finale della storia, l’eroe si riscatta, uccidendo tutti i Filistei e pronunciando la frase divenuta celere: «Ch’io muoia insieme coi Filistei»[2].



[1] Gdc 16,17

[2] Gdc 16,30



Numero 676 - 28 agosto 2022