La strada che non andava in nessun posto

di Paola Franchina

All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po’ a tutti, e da tutti aveva avuto la stessa risposta:

-Quella strada lì? Non va in nessun posto. È inutile camminarci.

-E fin dove arriva?

-Non arriva da nessuna parte.

-Ma allora perché l’anno fatta?

-Ma non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì.

-Ma nessuno è mai andato a vedere?

-Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c’è niente da vedere…

-Non potete saperlo, se non ci siete mai stati[1].

Così si apre il racconto di Gianni Rodari, La strada che non andava in nessun posto: il lettore è posto dinnanzi a tre vie: una che porta verso il mare, una verso la campagna e la terza che non andava in nessun luogo.

La tecnica utilizzata è molto efficace: la narrazione, infatti, si mantiene in terza persona, fondendo le voci dei personaggi con quelli del narratore. La strategia del discorso indiretto libero consente di penetrare nell’intimo dei paesani, mettendo in evidenza le loro emozioni e i loro pensieri.

Si manifesta, così, la metathesiofobia degli abitanti, ovvero la paura del nuovo: l’irrazionale terrore nei confronti di qualsiasi cambiamento.

Le trasformazioni spaventano e chiedono di allontanarci da quel senso di confort e familiarità che infonde il nostro quotidiano. Tuttavia, l’immobilizzazione prolungata è altresì dannosa e può portare ad uno stato di atrofia: ad ogni uomo non resta che scegliere quale strada percorrere.

Siamo dinnanzi a due forme di esistenza, di heideggeriana memoria: l’esistenza anonima e quella autentica. La prima è propria di tutti e di nessuno, del “si dice” o del “si fa”, caratterizzata dalla chiacchiera inconsistente, vuota e morbosamente tesa verso l’esterno, ove si cerca di soddisfare le proprie frivole curiosità.

La seconda, invece, è quella autentica, la quale ha come tonalità emotiva l’angoscia: il soggetto, attraverso un atto della coscienza, pone una decisione anticipatrice che assume la morte quale cifra della propria vita.

L’esistenza autentica è propria di coloro i quali decidono di accettare il rischio del cambiamento e avventurarsi nella strada che non porta in nessun posto.

La storia è costellata di piccoli eroi del quotidiano, uomini e donne che hanno avuto l’ardire di avventurarsi in sentieri non battuti.

Ricordiamo Rosa Parks, la quale venne arrestata perché si era rifiutata di cedere un posto in autobus ad un bianco. Malala Yousafzai che a soli 11 anni, in un blog, erge il proprio grido contro il regime talebano. Amelia Earhart, prima aviatrice ad attraversare il Pacifico. Fabiola Gianotti, prima donna direttrice generale del Cern. Marie Curie, prima donna ad ottenere una cattedra alla Sorbona, insignita di due premi Nobel: uno per la Fisica e uno per la Chimica. E con loro, infinite storie, non sempre raccontate, di persone che si avviano verso sentieri non battuti.

Il racconto di Gianni Rodari è un invito ad osare, ad assumere il rischio dell’ignoto: un incoraggiamento a tutti coloro che non si fermano dinnanzi alle resistenze degli uomini, anche i più cari e vicini, ma rispondono, ogni giorno, alla chiamata della strada che li interpella ad essere loro stessi, senza preoccuparsi troppo del vociare degli altri: «Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto»[2].



[1] G. Rodari, Favole al telefono, Einaudi Ragazzi, Trieste 2010, 72.

[2] Ibid.