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Crocifisso di bronzo di scuola parigina, XIV secolo - immagine tratta da commons.wikimedia.org
Il crocifisso a scuola
di Dario Culot
Negli ultimi anni si è svolta una vera e propria guerra identitaria del crocifisso, ma più che cercare un dialogo costruttivo, le varie fazioni sembrano essersi bloccate sui propri totem ideologici: più alte sono le mura che innalzano di fronte all’avversario, più credono di essere protette.
Il richiamo alle radici cristiane, non accolto nel Trattato di Lisbona del 2007, base della odierna Unione europea, è stato solo l’inizio di una guerra frammentata in molteplici piccole battaglie. In particolare, sulla questione del crocifisso, c’è chi ha impugnato la croce per il braccio più corto a mo’ di pistola (ad es. per respingere gli immigrati musulmani); chi vede nella croce un simbolo piuttosto macabro,[1] un simbolo di tutte le prove, le fatiche, i sacrifici, le sofferenze che gravano sulla vita di ciascuno[2] (anche fra i cristiani, cioè, spesso la croce è stata abbinata a tutto quello che fa male, per cui sono stati definite ‘croce’ le malattie, le sofferenze, i lutti della vita, ecc.); chi vede un simbolo di potere e supremazia, per cui porta con orgoglio sul petto grosse croci di oro e pietre preziose; chi in nome della laicità dello Stato pretende comunque l’abolizione di ogni simbolo religioso negli edifici pubblici, senza se e senza ma.
Il crocifisso a scuola fa parte delle radici cristiane dell’Europa? Sono incontestabili le radici cristiane dell’Europa, ma queste radici sono state anche abbondantemente bagnate da sangue cristiano[3]. Alla fin fine, i papi hanno ucciso più cristiani per imporre la religione cattolica di quanti ne abbiano uccisi gli imperatori romani perseguitando il cristianesimo: come mai anche i bambini sanno delle persecuzioni romane, ma nessuno parla dei morti causati dalla stessa Chiesa?[4]
Papa Benedetto XVI forse non si è avveduto dell’incoerenza logica quando ha chiesto che nella Costituzione europea venisse inserito il richiamo alle radici cristiane,[5] perché secondo lui solo “il Cristianesimo ha permesso all’Europa di comprendere cosa sono la libertà, la responsabilità e l’etica”[6].
Per fortuna, il 9 maggio 2016, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, papa Francesco ha posto sperabilmente fine alla questione spiegando che Chiesa ed Europa sono due entità diverse; per questo è preferibile non parlare di radici cristiane dell’Europa, perché giustamente questo papa teme il tono con cui se ne parla, che può essere trionfalista o perfino vendicativo. Infatti, nella storia della Chiesa, vi sono state esperienze di missioni inquinate dal processo di espansione commerciale, militare ed economica, e questo è un impedimento e crea un sospetto nel Terzo Mondo[7].
Oggi, un credente di buon senso dovrebbe dire che non servono battaglie sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, se poi non si vivono i valori che il crocifisso rappresenta: quindi meno croci e più vangelo, come già anni fa indicavano varie comunità di base. Col che non si dovrebbe pretendere di ostentare il crocifisso nelle scuole solo perché c’è in tal senso un’antica tradizione, soprattutto quando ormai quasi tutti gli Stati europei si dichiarano laici.
Sta di fatto che questa battaglia continua, e più e più volte, ormai, giudici italiani e di altri Stati europei sono stati chiamati in causa per pronunciarsi sul crocifisso in aula.
Diamo dunque un’occhiata ad alcuni importanti precedenti giurisprudenziali che riguardano il nostro Paese.
- Già una quindicina di anni fa, il Consiglio di Stato (Cons. St. VI, 13.2.2006, n.556) aveva affermato che il crocifisso non è né una suppellettile, né un invito al culto, ma esprime i valori di solidarietà, di libertà di coscienza nei confronti dell’autorità e di rifiuto di ogni discriminazione propri della nostra cultura; pertanto la sua esposizione in aula non è lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento, fra cui quella che stabilisce la laicità del nostro Stato.
- La Corte Suprema (Cass. pen., 1.3.2000, n.4273) aveva assolto un nominando scrutatore che si era rifiutato di prestare il suo servizio in un seggio (ricavato in aula scolastica) dov’era presente il crocifisso, adducendo incompatibilità religiosa. Trattandosi di seggio, la corte suprema aveva affermato che doveva in quel caso prevalere il principio di laicità dello Stato.
- Ma nel 2011, sempre l’organo supremo di giustizia (S.U. 14.3.2011, n. 5924) aveva invece confermato la sanzione disciplinare della rimozione di un giudice, che si era astenuto dal lavoro anche dopo che il crocifisso era stato rimosso nell’aula dove lui doveva operare. La sua pretesa di tutela del principio di laicità soddisfatta solo quando il crocifisso sarebbe stato tolto da tutte le aule di giustizia non costituiva un suo diritto soggettivo, posto che il suo diritto di libertà religiosa poteva essere leso solo se il crocifisso si trovava nell’aula in cui egli svolgeva la sua attività.
- Ma ancor più interessante è la causa svolta davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Lautsi contro Italia), promossa da una cittadina finlandese contro l’Italia sostenendo che il crocifisso esposto in aula offendeva lei e i suoi figli a scuola[8]. L’Italia è stata condannata in primo grado con decisione del 3.11.2009, con la motivazione che, fra i molti significati che il crocifisso può avere, è predominante quello religioso: di conseguenza la presenza obbligatoria e ostentata del crocifisso, che è un segno esteriore forte nelle aule scolastiche, è tale non soltanto da offendere le convinzioni laiche della ricorrente, ma anche di turbare emotivamente gli alunni che professano una religione diversa da quella cristiana o non professano alcuna religione; perciò nel caso concreto lo Stato italiano non si era dimostrato neutrale e non aveva perseguito il pluralismo educativo. Ma nell’ulteriore grado di giudizio (sentenza 18.3.2011) la decisione è stata capovolta, facendo leva sul carattere passivo del crocifisso esposto, sulla tradizione tipicamente italiana e sul carattere oggettivamente pluralista della scuola pubblica in Italia. Con ciò è stato escluso che lo Stato italiano stesse imponendo un indottrinamento con quell’esposizione in aula.
- Con la recente sentenza delle Sezioni Unite (udienza 6.7. – depositata 9.9.2021, n.24414), la Cassazione si è occupata del caso in cui un professore di scuola superiore, nonostante il parere contrario della classe che riteneva di non essere disturbata dal crocifisso, rimuoveva dalla parete il simbolo religioso ogniqualvolta cominciava la sua lezione e lo riappendeva al termine della sua lezione. Sanzionato dalla dirigente per non essersi adeguato alla scelta della classe, sosteneva di essere stato discriminato e lamentava la violazione dei suoi diritti di libertà d’insegnamento e di libertà di coscienza in materia religiosa.
Le sezioni unite, sostanzialmente respingendo le sue doglianze, hanno sostenuto in questa sentenza:
- che è vero che non esiste alcuna norma di legge che impone l’esposizione del crocifisso in classe. Esiste invece un regolamento (art.118 RD 30.4.1924, n.965 e art.119 RD 26.4.1928, n.1297) che parla solo di scuole elementari e medie. Ma il termine istruzione media di cui parla il regolamento del 1924 si riferisce anche alle scuole superiori, perché nel 1924 gli istituti medi di istruzione erano di primo e di secondo grado. Il regolamento, quindi, è tuttora in vigore.
È indubbio che, oggi, la religione cattolica non è più la sola religione dello Stato italiano come affermava il Concordato del lontano 1929. Oggi lo Stato si limita ad assicurare la libertà di ogni religione. Pertanto l’ostensione obbligatoria nella scuola pubblica del crocifisso, per ordine dell’autorità, è incompatibile con l’imparzialità che deve mantenere la pubblica amministrazione nei confronti di tutte le religioni. L’autorità non può cioè promuovere con effetti vincolanti un simbolo religioso, neanche se considerato passivo, come il crocifisso sulla parete. La libertà religiosa negativa (ateismo) merita la stessa tutela e protezione della libertà religiosa positiva. Non identificandosi lo Stato con alcuna religione, esso deve limitarsi a sanzionare solo aggressioni o denigrazioni di ogni diversa fede (compreso l’ateismo).
Tuttavia, se l’esposizione del crocifisso non è più un atto dovuto, non per questo è un atto vietato. Il regolamento del 1924, va conseguentemente letto nel senso che l’aula può accoglierne la presenza quando la comunità scolastica decide autonomamente di esporlo, purché, in caso di richiesta (anche di una minoranza), affianchi al crocifisso altri simboli delle altre fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica. Pertanto quello che era un obbligo regolamentare resta oggi come facoltà e non più come obbligo, e la decisione spetta alle singole comunità studentesche (cioè la comunità che si raccoglie nella singola aula), in coerenza col ruolo dell’autonomia delle istituzioni scolastiche concepite appunto nel nostro ordinamento come comunità.
Principio di laicità, poi, non significa negazione dei valori religiosi, ma valorizzazione delle scelte personali in materia religiosa, con pari dignità fra tutti i cittadini. La laicità, dunque, presuppone grande capacità di apertura alle diverse identità, presuppone accoglienza del pluralismo e quindi delle differenze, perché tende a far convivere culture diverse.
Viene ribadito che il crocifisso appeso al muro è un simbolo essenzialmente passivo, come sostenuto dalla Corte europea di Strasburgo, perché non implica adesione ad esso, né pretende osservanza o riverenza; non è un atto di propaganda e non rappresenta uno strumento di proselitismo. È un atto di testimonianza, di professione della fede religiosa da parte dei componenti di quella comunità. La libertà d’insegnamento del docente non è in alcun modo influenzata dall’esposizione del crocifisso.
La nostra Costituzione richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Il punto di equilibrio va ricercato secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Un diritto non può diventare tiranno nei confronti di un altro diritto, quindi occorre evitare che ci sia un tutto per una delle due libertà in conflitto, senza nulla per l’altra. Conseguentemente la logica non è quella dell’aut aut (alternativa secca fra questo o quello), ma dell’et et (ricerca dell’accomodamento senza far prevalere una posizione a spese totali dell’altra, perché un secco sì o un secco no semplicemente non funzionano davanti a un problema complicato per le troppe sfaccettature) il che richiede sempre una volontà di dialogare concretamente. Non c’è spazio per il fondamentalismo o per il dogmatismo intransigente. Ci deve sempre essere un terreno di mezzo su cui venirsi incontro. Pertanto, da un lato la regola di maggioranza senza correttivi non può essere utilizzata nel campo dei diritti fondamentali: cioè il numero non può essere decisivo di per sé solo. Dall’altro lato neanche il singolo può avere un potere interdittivo di veto assoluto. È invece necessario applicare ascolto, tolleranza, mediazione per promuovere un pluralismo non divisivo.
La mera percezione soggettiva del docente di essere discriminato dalla presenza del crocifisso sulla parete alle sue spalle, non comprovata da elementi concreti di riscontro, esclude che una persona matura e dotata di spirito critico come l’insegnante possa pensare che vi sia stata una svantaggiosa interferenza nella sua attività di docenza. L’affissione del crocifisso, nel caso sottoposto al giudizio della corte, non era concretamente di ostacolo al docente nell’esercizio di alcuna delle sue libertà, visto che lo stesso poteva esplicitare perfino una critica davanti alla classe, purché in forme legittime e rispettose dell’altrui coscienza morale. Il diritto di professare liberamente la propria non-credenza non appare violato per il fatto di dover convivere con rappresentazioni di un pensiero diverso, non imposto dall’autorità, ma richiesto dai fruitori del servizio scolastico. Anche il docente che non condivide le altrui opinioni deve rispettare, con tolleranza, la coscienza morale degli alunni.
Nel caso specifico, se il dialogo (che non c’è stato) non si fosse concluso con una soluzione condivisa, spettava al dirigente scolastico adottare la determinazione più armonica, in linea con l’et et. Invece è accaduto che la scelta a favore dell’affissione del crocifisso, recepita dal dirigente scolastico, sia collegata esclusivamente alla richiesta della comunità studentesca. Non c’è stata imposizione alcuna del potere pubblico, ma adeguandosi tout court alla decisione studentesca, il preside ha creduto, sbagliando, di interpretare il volere dell’intera comunità, mentre avrebbe dovuto ricercare una soluzione mite, ossia di accomodamento ragionevole tra posizioni difformi; tuttavia il suo atto non ha posto il docente in una situazione di particolare svantaggio o di discriminazione[9] o d’intimidazione.
A me sembra che la linea seguita dai giudici sia di grande equilibrio, con un occhio alla valorizzazione dell’autonomia scolastica e un occhio al pluralismo religioso, tenendo anche conto di quanto è stato deciso all’estero[10].
Perciò penso che difficilmente ci si discosterà in futuro da questo indirizzo.
NOTE
[1] Al contrario, se il sacrificio di Cristo sostituisce i molti sacrifici della religione antica e di tutte le religioni, il cristiano dovrebbe affermare che l’incremento della vita e la lotta in favore della vita non si produce sacrificando vite, bensì tutto il contrario: lottando in favore di queste vite, soprattutto le più minacciate, ancorché questo possa portare con sé il pericolo di mettere in pericolo la propria vita o a costo della propria sicurezza, del proprio onore, del proprio potere, così come Dio, in Gesù, sacrificò tutto questo nel suo fallimento e nella sua morte in croce.
[2] Ravasi G., Le tante croci della nostra vita, “Famiglia Cristiana”, n.4/2113, 119.
[3] Maggi A., La bestemmia del figlio dell’uomo, in AA.VV., E se Dio rifiuta la religione?, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 58.
[4] Si chiede giustamente Russel B., Perché non sono cristiano, ed. Longanesi, Milano, 1972, 26.
[5] Richiesta accolta da alcuni partiti nel nostro Parlamento con un emendamento, come riportato su “Avvenire” 26.1.2012, 7.
[6] Benedetto XVI, discorso del 12.6.2010 alla Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa, in www.ratzingerbenedettoxvi.com.
Ma come si può dimenticare che l’Indice dei Libri proibiti, abolito appena nel 1966 da papa Paolo VI, vietava, fra gli altri, la lettura di Guicciardini, Monti, Leopardi, Beccaria (proprio quello che fu il primo ad opporsi alla pena di morte, cancellata appena da papa Francesco), Copernico, Galileo, Erasmo da Rotterdam, Bacone, Hume, Locke, Rousseau, Montesquieu, cioè di quasi tutti gli autori universalmente oggi riconosciuti come decisivi per la formazione della coscienza europea? Quindi libertà, responsabilità, ecc. arrivano sicuramente da Gesù, ma non proprio dalla Chiesa.
[7] Fabbris R., La Chiesa nel Nuovo Testamento, ed. Centro Diocesano di Pastorale Universitaria, Trieste,1997, Quaderno n.2/1992-1993, 77.
[8] Si trattava della prosecuzione in Europa del giudizio perso in Italia con la sopra citata sentenza del Consiglio di Stato.
[9] Nella sentenza viene data anche una puntuale definizione di discriminazione, che potrà sicuramente tornare utile anche nella discussione sul disegno di legge Zan.
[10] Vengono infatti richiamate varie sentenze straniere, come ad es. quella canadese sulla facoltà di un ragazzo sick di portare anche a scuola, come prevede la sua religione, il kirpan (il pugnale tradizionale che indica giustizia e discernimento fra bene e male), pur con determinate cautele; o quella della Corte di Strasburgo sulla possibilità che il datore di lavoro impedisca a una sua impiegata a contatto con i clienti di indossare il velo islamico; e altre ancora.