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«Sacro è credere ai guadagni che vengono dalle perdite», Franco Arminio


di Stefano Sodaro


Preti a Roma - foto tratta da commons.wikimedia.org


C’è qualcosa che accomuna i preti e gli – e le – intellettuali: il fatto che non gradiscano, o forse potremmo dire che addirittura non possano, ricevere fiori. Provate pure e vedrete le reazioni. E se ci saranno eccezioni, c’è da temere che siano null’altro che mere conferme della regola.

“Gettano fiori, son traditori!”.

O nell’altra versione maschilista e patriarcale, di molto peggiore: “Le donne e i fiori son traditori!”.

Esiste una retorica, ammantata di spessi panni religiosi, per cui è salvifico ed ammirevole il “dare”, mai il “ricevere”.

Chi è ritenuto detentore – o detentrice – del Sacro, non ha null’altro da ricevere: come potrebbe? Ha già Tutto. “Ricevere” si configurerebbe come una specie di “perdita di dignità”. Un “minus quam”. Un abbassamento inaccettabile.

La stessa logica del dono, del regalo – logica in effetti assai giocosa, persino in certo modo “scherzosa” – è aborrita dal ceto degli/delle intellettuali e degli/delle esperti/e del Sacro.

Perché il Sacro dà, ma non può ricevere. È datore e non recettore. Giammai. In termini economici, se al riguardo leciti: il Sacro guadagna sempre, non può mai perdere.

Del resto l’espressione “guadagnarsi meriti” è appartenuta al lessico delle devozioni sino a tempi recenti e la stessa redenzione è stata additata, fin dagli scritti di Paolo, come “grazia a caro prezzo”: il sacrifico della croce sarebbe una perdita, un fallimento, solo apparente, perché, al contrario, sacro guadagno di salvezza per il mondo. E addirittura anche Dio avrebbe “riguadagnato” a sé l’opera della Sua creazione.

Del resto la veste talare – di cui all’immagine sotto il titolo di queste righe – è pure il segno di un guadagno, di una segregazione metafisica nello spazio di una condizione dentro la quale non c’è nulla da perdere e tutto da guadagnare, o meglio: anche le perdite contingenti, come ad esempio un affetto matrimoniale od un lavoro stipendiato, nulla sono davanti all’immensità del beneficio conseguito, vale a dire lo stare con Dio, dalla Sua parte, per sempre.

Viene alla mente il passo del capitolo 6 del Vangelo di Matteo (vv. 25-33). Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.

Matteo mette in bocca a Gesù di Nazaret parole di elogio della perdita che lasciano stremito l’assetto culturale odierno, anche sul suo versante teologico.

Al momento in cui esce questo – come definirlo? – “primo” editoriale (venerdì 27 ottobre 2023 sera) non conosciamo ancora il contenuto della Relazione Finale della prima parte del Sinodo che si conclude domenica 29 ottobre prossima.

Certo, ipotizzare il diaconato accessibile alle donne ed il presbiterato conferibile agli uomini sposati è ipotizzare una “perdita” assai rilevante e significativa rispetto ai guadagni pseudo-dottrinali sinora capitalizzati da una prassi condizionata esclusivamente da pregiudizi culturali e priva di qualsivoglia fondamento teologico. Ne dovremo riscrivere, non appena la Relazione Finale sarà pubblicata.

Neppure la teologia di von Balthasar – tornata così di moda in questi giorni con la sua polarizzazione tra presunti principio petrino e principio mariano – avrebbe voluto configurarsi come un profittevole guadagno che mette tutto a posto ed acquieta dubbi e interrogativi, se solo si pensa al mero dato biografico della sua uscita dalla Compagnia di Gesù per essere incardinato a Coira come presbitero diocesano (ciò che impressionantemente somiglia ad un’altra incardinazione diocesana, ma in Slovenia, di un ex gesuita, Marko Ivan Rupnik, di cui s’è appreso giovedì scorso e su cui ribollono in queste ore i contrastanti comunicati delle curie) ed al fatto che lo stesso Hans ripetutamente affermava di avere ricevuto da Adrienne von Speyr, con cui convisse nella medesima casa, benché fosse sposata, e per la seconda volta, molto di più di quanto avesse potuto dare a lei.

Franco Arminio, con i suoi versi, canta la sacralità di una perdita cui non siamo per nulla abituati. Andare in perdita proprio non è cosa, sotto nessun punto di vista.

Eppure davanti a noi sta la morte, che per quante consolazioni si possano cercare – e magari anche trovare – sancisce, come che sia, una perdita effettiva, almeno da parte di chi quel volto e quel corpo più non potrà vedere e quella voce ascoltare. E così come esiste una rimozione culturale della perdita, esiste una parallela rimozione culturale della morte.

Cosa resta?

Resta, in effetti, la poesia, cioè – insistiamo – l’attitudine al gioco, a quella sospensione spaziotemporale, che, quando termina, termina, ma intanto ci ha fatto guadagnare un poco di gioia. Come un poco di ossigeno. Quel poco che ci fa respirare, che ci permette di capire che in fondo alla perdita brilla proprio la luce, così attraente, del guadagno. Sacro però. Ed il cerchio stenta così a chiudersi. Forse è meglio lasciarlo aperto.

Buon fine settimana.