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Il luogo dove è stato premuto il telecomando della strage di Capaci - foto tratta da commons.wikimedia.org

Lo “Shabbat di tutti” che non c’era trent’anni fa


di Stefano Sodaro


Scopiazzando un po’ la geniale intuizione narrativa del nostro Stefano Agnelli sul numero di oggi, e con il pensiero alla tragedia di trent’anni fa, alla strage di Capaci che cambiò per sempre non solo la storia, ma anche i sogni ed i progetti, del nostro intero popolo e Paese, viene da pensare che, nel 1992, ogni spazio liturgico e rituale, financo religioso, fosse occupato dal Potere. Nelle sue varie, quasi infinite, declinazioni. E che fosse proprio assente la possibilità, persino fisica, di celebrare, di inverare il sacro e il santo, fuori dai recinti del Potere. Stefano Agnelli parla del “mercato che non c’è”. Qui vorremmo far cenno alla “cena che non c’era”, e la cui assenza determinò la direzione, la colorazione, di una cultura della solidarietà, della prossimità, della condivisione, degradandola a subcultura della sopraffazione, del terrore, del ricatto sui bisogni e sui desideri.

Giovanni Falcone era un magistrato. Non è un’affermazione banale, perché un’altra sottocultura, cosiddetta “antagonista”, in pieno rigoglio ai nostri giorni, travisando completamente il senso di quella “deistituzionalizzazione” che profetizzò e attuò, nel suo proprio ambito di competenza professionale, Franco Basaglia, ritiene che solo l’avversione verso le istituzioni – tutte corrotte e tutte da rottamare – dia il senso della liberazione, preceduta dalla necessaria rivoluzione.

Ed invece Falcone fu un rivoluzionario proprio perché fu magistrato integerrimo – nonostante corvi e calunnie -, dedito alla scrupolosissima applicazione della legge, che non è, come si dice, “imparziale”, ma è uguale per tutti perché tutti, e tutte, hanno bisogno di essere tutelate da un Potere bianco contro un Potere nero.

Ma come? Non ha sempre predicato il nostro Rodafà la necessaria adesione all’et et piuttosto che all’aut aut, il rifiuto di ogni pensiero binario, di ogni semplificazione bianco/nero in nome della innegabile varietà cromatica della storia e delle personali esistenze?

Proprio la complessità in effetti richiede un’individuazione categoriale di male e bene senza però – e il punto sta tutto qui – scandalizzarci della presenza del male anche nel bene e viceversa.

Il processo penale – molto di più di quello civile – ha una componente rituale, liturgica, indubitabile. Il “bancum iudicis”, da cui si amministra la giustizia, la toga di chi accusa, giudica e difende, il linguaggio stesso, i codici sono elementi di una più che evidente ritualità.

E come si deve “deistituzionalizzare” scegliendo la legge e le istituzioni – se no che senso avrebbe la politica? -, altrettanto si deve “celebrare” secondo liturgie che sottraggano l’appannaggio del sacro e del santo a forze oscure, inconoscibili, spesso esorcizzate liquidando come insostenibile, se non ridicolo, l’intero fenomeno religioso.

Venerdì sera scorso, Miriam Camerini, durante lo “Shabbat di tutti” che si è celebrato a Pisticci, nell’ambito della manifestazione “Tracce di Ebraismo” – svoltasi tra Venosa e Matera e promossa da Rocco Calandriello -, ha letto un passo di E disse, opera di Erri De Luca. A pag. 13 dell’edizione Feltrinelli del 2013, l’autore, volendo riferirsi a Mosè, scrive così: «Lo raccolsero da terra, a sollevarlo pendeva un corpo vuoto. Suo fratello se lo prese in braccio, lo depose al riparo, lo lavò, gli forzò le labbra con un sorso. Erano chiuse, un solco arato e secco. L’acqua filtrò seguita da un singhiozzo. Nel suo respiro l’aria faceva per attrito il raschio di una pialla. Il fratello gli bagnò le palpebre serrate. L’acqua sciolse polvere che il vento aveva messo per coperchio.».

Il 23 maggio 1992 Mosè però non risorse. Morì, fatto saltare in aria dalla mafia, sulla A29, nei corpi senza vita del dottor Giovanni Falcone, della dottoressa Francesca Morvillo, sua moglie, degli agenti di polizia Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Nessuna e nessuno di noi può dimenticare il momento in cui fu diffusa la notizia.

Nessuna e nessuno di noi teneva ancora a mente un canone liturgico che ci permettesse di celebrare la morte, zona esclusiva di caccia del Potere nero. Mancava qualunque rito, che neppure il funerale solenne riuscì a riproporre, se si pensa che persino lo stimato e coraggioso cardinale Pappalardo incorse in un’espressione che suscitò sconcerto e persino indignazione (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/05/27/pappalardo-ci-ha-offesi-il-suo.html). Non avevamo più, da anni, da decenni, alcuna liturgia a disposizione.

C’era un’assenza drammatica. Non ci si sedeva alla tavola assieme – agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, dopo l’ubriacatura collettiva degli anni Ottanta – ad una tavola che fosse altare per sconosciuti uno accanto all’altro nel desiderio di interrogare gli sguardi reciproci.

Ha spiegato Miriam Camerini l’altra sera: dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ogni tavola di condivisione del pasto diventa altare. Ed è esattamente questo ciò che è mancato trent’anni fa.

Eppure, con fatica, con lavoro indefesso, con passione, con acribia da vilipesi legulei, poi, alla fine, la risurrezione è avvenuta. Non dei corpi, ahinoi (almeno “non ancora”, per chi ci crede), ma della legge. Individuando colpevoli e responsabilità, comminando condanne dopo aver celebrato processi.

E trentuno anni fa, il 24 maggio 1991, mentre in Sicilia trionfava la morte, un Paese africano, l’Eritrea, trovava l’indipendenza, in un tripudio di conquistata liberazione che cozza con la realtà dei barconi accolti a Lampedusa ed in fuga da quello stesso Paese.

Dobbiamo continuare a celebrare lo “Shabbat di tutti” come categoria – ha usato tale termine la prof.ssa Anna Linda Callow, ebraista di chiara fama, presente all’evento di Pisticci di venerdì sera scorso – non solo capace di separare il Sabato Santo dal resto della settimana, ma anche la libertà e la democrazia dall’indifferenza e dal compromesso con quel Potere nero, che non sbiancherà se non lo sommergiamo di colori. Spezzando assieme il pane e alzando assieme il calice con il vino. Come due giorni fa, come invece purtroppo non fu trent’anni fa.

Buona domenica.