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Chiesa della Basilica di Seckau, Stiria, Austria - foto tratta da commons.wikimedia.org

Santità della Terra, santità del contratto


di Stefano Sodaro

È strana la sensazione d’inizio novembre, di fine ottobre: la festa si mescola alla mestizia, il pudore dei propri sentimenti più segreti e profondi alla necessità di condivisione, sapori di castagne a lacrime appena trattenute.

I chiarori del fuochi – magari dentro le zucche – fanno allegria, ma inducono anche al pensiero meditabondo: che ci facciamo in questo mondo? E chi non c’è più che ci faceva?

Il culto cattolico pare una sinfonia per l’Aldilà: santi, morti. E l’Aldiquà? Chi si cura della concretezza del nostro vivere quotidiano, dei nostri dubbi, dei nostri sogni, dei nostri progetti, delle nostre ricerche, delle nostre attese, dei nostri bisogni e desideri?

Noi amiamo la Terra, il nostro essere e stare qui, impastati di limitatezza e precarietà, senza che in alcun modo l’impasto offenda l’infinito, anzi lo celebra trasformandolo in pane, in acqua, in storia di ogni nostra ora e giornata.

Invece di stare con lo sguardo rivolto chissà dove, quasi alienati da ciò che non conosciamo, che non abbiamo sperimentato – questo Cielo ignoto, questo Oltre di cui nulla sappiamo -, potremmo, dovremmo, abbassare gli occhi alle nostre mani, incrociare il volto che abbiamo davanti, che ci guarda, che ci scruta, anche a distanza, anche, per così dire, spezzettato nelle parole della scrittura, di una mail, di una chat, di un messaggio.

I Grandi della Terra hanno la responsabilità tremenda, proprio in questi giorni, di salvare il Pianeta: è l’ultimo appello, l’ultima possibilità. Diversamente, sarà la fine. E viene da dirlo senza troppa emozione, quasi con il cinismo di una constatazione semplicemente oggettiva, aderente alla più cruda ed inemendabile – direbbe Maurizio Ferraris – realtà.

Il realismo della Terra malata è il realismo dei nostri corpi, abbastanza negletti e disprezzati in effetti, nonostante l’orgia dei deliri pseudo-estetizzanti, nonostante la corsa affannata al nascondimento del tempo che passa su quegli stessi corpi. Nessun moralismo: ci piacciono le colorazioni dei capelli, l’eleganza del trucco, la cura per l’aspetto, la foggia del vestito. Perché i nostri corpi sono belli e la loro bellezza va celebrata, lo impone la nostra umanità.

Ma il realismo delle nostre vite non è abbandono della complessità, non è scelta rozza e grossolana dei fatti contro le interpretazioni. Tutto al contrario. Il realismo delle nostre vite è all’insegna di un amore che diviene struggimento perché sembra abitare le stesse dimensioni misteriose dell’Aldilà, invece è assai ben Aldiquà. Il nostro amore è ben fisico, corporeo, tattile, fatto di voci e di sensi, di emozioni e di gesti.

Esiste una visione contrattuale della vita che risulta funzionale soltanto ad un assetto di reciproci interessi. Anche il matrimonio corre il rischio di rientrare in tale visione. Però esiste un’attitudine esistenziale verso il contratto che è invece coscienza di un patto, di un accordo, di un’alleanza che riafferma il valore di questa vita a fronte di una presunta “altra” vita, estraniante e lontana. Vogliamo vivere qui, ora, noi, con nomi e cognomi, con le nostre firme ed i nostri indirizzi.

Riconosciamo, o accettiamo, piuttosto facilmente la santità che abita lassù, ma dimentichiamo la santità che ci avvolge tutte e tutti quaggiù. Che significa? Significa che solo accettando di stare insieme, di sentirci vicini e vicine le une agli altri, rendiamo possibile una vita sulla Terra non più all’insegna dello sfruttamento e della massimizzazione del profitto a scapito di qualcun altro.

La Terra è il nostro Altro immediato ed il modo di rapportarci a simile alterità non può essere lasciato ad uno spontaneismo vitalistico che si rivela irresponsabile. Abbisogna di strumenti, piuttosto, che traducano in parole definite, quanto più possibile chiare, la nostra passione per la “Casa Comune”.

Sì, la relazione con la Terra richiede anche la capacità di scrivere contratti. Di saper, cioè, impostare e sviluppare patti, intese, accordi.

Esiste una santità della Terra, senza la quale non si può nemmeno concepire una santità del Cielo. Chi non vive più tra noi, vive nella nostra memoria e nel nostro affetto con il suo corpo e con la sua voce. Di lui, di lei, abbiamo fatto esperienza qui, non lì, quaggiù e non lassù. Senza corpo e volto, di lei, di lui, non avremmo alcun ricordo.

È un discorso complicato e difficile? Forse.

L’amore ha molti colori, molte possibilità di inverarsi, molte strade per le quali correre. È parola abusata “amore”, senza dubbio, ma, pur silenziandola, il suo suono ci resta dentro e ci chiede di uscire, di essere riconosciuto, di poter sostanziarsi in un’armonia di vita. Riconoscimento non evanescente, ma concreto, effettivo.

Il matrimonio, realtà terragna e terrestre, è un contratto? Concediamolo pure. Epperò quanti tipi di contratto esistono? Quasi infiniti, quasi che l’infinito Cielo possa coincidere con un’infinita Terra.

Cinquantanove anni fa, il 31 ottobre 1962, moriva a Parigi Louis Massignon. Fu marito, con moglie “regolarmente” sposata. E fu prete, con una “compagna” che rispondeva al nome di Mary Kahil, colei che chiese alla Chiesa cattolica greco-melkita – cui apparteneva – di voler ordinare prete il suo amico.

La santità della Terra è la nostra santità.

Gli inizi di novembre non sono dunque giornate di scoraggiamento, di esitazione davanti alle torsioni cangianti, impensate, della nostra vita, sono invece appello a riscrivere un nuovo patto. Con la Terra, cioè con noi stesse e noi stessi. Un contratto per amarci, per comprendere che solo se ci si ama si può amare, che il nostro Sé dev’essere amato come prima esperienza di alterità che il vivere su questa Terra ci schiude, propone, forse anche impone.

Io sono Altro, io sono Terra. Io sono Te. Solo così defunge qualunque, un po’ ridicolo, “coraggio di dire io”, solo nell’amore per la mia Terra che è il mio corpo si frantuma la gigantografia dell’io isolato e disperato. E questo avviene – appunto – dentro un nuovo “matrimonio”, anzi chiamiamolo “contratto”. Dentro un nuovo patto, un nuovo accordo, di noi con noi stessi/stesse e di noi con quell’altro/altra che abita la nostra stessa Terra.

Discorso complicato, chissà, ma vitale.

Ed è la vita sulla Terra la passione di Dio.

Buon mese di novembre.