The Rabbi is in


“Il tuo sogno è buono e sarà buono”


di Miriam Camerini

“Una persona che vede un sogno e la sua anima ne è turbata, lo migliori di fronte a tre che hanno compassione di lui/lei (che gli o le vogliono bene); dica di fronte a loro: - ho visto un buon sogno - e quelli/quelle diranno: “Ecco, è buono e sarà buono”.

Così recita una fonte rabbinica dei primi secoli dell’era comune, e il Talmud - testo di qualche secolo successivo - lo commenta ed espande così: “Disse Rabbi Yochanan - chi vede un sogno e la sua anima ne è turbata, vada e lo interpreti/risolva davanti a tre persone. Disse Rabbi: - Lo interpreti? - E disse Rav Chisda: un sogno non interpretato è come una lettera non letta; lo migliori di fronte a tre (amici): dica davanti a loro: ho visto un buon sogno e loro diranno: è buono e sarà buono, la divinità lo renderà buono”.

Sono sempre stata affascinata da questo passaggio del Talmud babilonese, trattato delle Benedizioni, pagina 55 e seguenti (disponibile anche in italiano, per Giuntina), che celebra il sogno e lascia a noi sognatrici e sognatori la forza e la creatività, la libertà e la responsabilità di prendere un sogno brutto, che ci preoccupa e turba e “migliorarlo”, renderlo buono, letteralmente. Per farlo ci servono però delle amiche e degli amici, persone che hanno cura di noi e ci vogliono bene, perché senza un piccolo beit-din, una “corte rabbinica” di umani che hanno compassione di noi, questo miracolo non si può fare.

Questo sogno non interpretato, che è come una lettera non letta, poi mi ha sempre fatto impazzire, in senso positivo: davvero è possibile che il mio inconscio, la divinità o chiunque mi stia mandando un messaggio e io lo ignori? E poi, quanto è vero che l’interpretazione sta a noi, ed essa è – in fondo – ciò che fa il sogno?

Ho da sempre fatto molto caso ai sogni, me ne sono sempre presa grande cura e loro mi hanno curata. Ne parlavo con un amico che sta a Budapest, al mio risveglio, qualche giorno fa, all’inizio di questa settimana.

Lo stesso amico, ieri, mi ha mandato proprio il passaggio talmudico che ho citato in apertura: segue un corso di studi che ogni mattina gli propone un brano normativo e proprio ieri, dopo una settimana non facile per entrambi, e dopo aver parlato di sogni appena un paio di giorni prima (io del mio, lui della sua difficoltà nel ricordarne, invece, che molto lo turba), ecco comparire proprio questo brano nel suo programma: Tzufal iz a treyf vort! Recita il proverbio yiddish: Caso è parola impura, eccome!

Io poche notti prima avevo sognato che stavo passeggiando per Gerusalemme in cerca di un concerto al quale volevo partecipare ma non trovavo la strada e mi rivolgevo agli studenti di una yeshiva, una scuola rabbinica molto tradizionalista, per soli uomini dalle lunghe barbe e col cappello nero, che però era aperta da dietro, come una casa di bambole che guardavo in sezione da fuori. Chiamavo e chiedevo la strada, ma nessuno rispondeva perché non volevano parlare con una donna, come era stato loro insegnato, per modestia. Fingevano anche - così almeno credevo io - di non comprendere la lingua in cui stavo parlando loro, che fosse italiano o ebraico non so, e allora io ne provavo altre, ma con lo stesso risultato. A quel punto decidevo di entrare imperiosamente e da dietro percorrevo tutto il corridoio fino a davanti, per andare a cercare il rabbino, l’insegnante dell’accademia. Lo trovavo seduto che studiava alla sua “cattedra”: era un rabbino italiano, anziano, che ben conosco e stimo; era vestito all’italiana, elegante, tutto diverso dai suoi studenti in camicia bianca e pantaloni neri, lui con una bella giacca di lana, la cravatta, un orologio classico, sbarbato e ben curato. Gli chiedevo seccata: “Ma qui non insegnate ai vostri studenti a rispondere se qualcuno chiede aiuto?” e lui mi diceva: “Che ci vuoi fare? Io ci provo, ma così va ora...”. Poi parlavamo di altre cose, mi raccontava di aver appena finito di studiare – da solo – un trattato del Talmud dedicato ai digiuni, fra cui - pensavo io nel sogno - anche il digiuno che è tradizionalmente prescritto per chi ha un sogno che lo turba e che teme sia ammonimento per qualche colpa su cui deve riflettere per redimerla. Mi chiedeva poi, il vecchio rabbino, che ne era di un prete amico mio con il quale per anni ho organizzato a Milano un festival dedicato agli alberi, e anche qui c’era un legame con il Talmud, perché nello stesso trattato si parla di digiuni per piogge che non vengono, che poi vengono ma sono troppo forti, che vengono a tempo o fuori tempo, si parla di alberi e del Capodanno a loro dedicato, la festa ebraica di TuBishvat, in occasione della quale per anni abbiamo fatto il nostro festival, io e il mio amico prete.

“Ora”, spiegavo al rabbino, il prete è a Roma, in Vaticano, e il festival purtroppo non lo facciamo più da un paio d’anni, ma chissà, magari prima o poi riprenderemo...”.

Poi uscivamo per strada – io e il rabbino – e camminavamo assieme in piccole strade che potevano essere quelle del quartiere ebraico di Budapest (da Gerusalemme a Budapest sono andata nel mio sogno: non so se Theodor Herzl sarebbe proprio felice, ma magari anche sì) e mentre camminavamo mi chiedeva se avevo dello yogurt o altro da mangiare: io rispondevo che il giorno prima, sabato, ero stata in sinagoga fino alla fine dello Shabbat per poter portare via del cibo alla fine del terzo pasto della giornata festiva, offerto in sinagoga, e avevo preso degli yogurt. Gliene offrivo uno, ma era acido e cagliato e ci dispiacevamo; allora ne aprivo un altro, e questa volta era buono.

Buono come il sogno migliorato, come una relazione redenta, come un legame risanato: per farlo servono però tre che di te hanno “compassione”, ossia che ti amano e di cui ti devi fidare, per mettere il tuo sogno nelle loro mani. Ecco: forse io questa settimana ho imparato questo, e non è poco.

Foto di Paola Cazzaniga

Numero 647 - 6 febbraio 2022