The Rabbi is in ... confusione

di Miriam Camerini

Sono arrivata un po’ tardi, alla fine della lettura della Torah, in sinagoga: era lo shabbat, il sabato, in cui si iniziava da capo a leggere il rotolo dal Principio, in cui la divinità crea il cielo e la terra, le piante e gli animali, gli astri e i mari e poi gli umani…

Il punto in cui sono entrata io era proprio la fine del brano, in cui gli umani, non paghi di aver mangiato il frutto proibito, nonostante il nome, o forse proprio per quello, iniziano a comportarsi male, commettere ogni sorta di nequizia e malvagità, dispiacere in tutti i modi il loro Creatore.

La divinità per un po’ sopporta, poi si “pente di averli fatti”, ci dice il testo, ed è un pentirsi che però porta nella sua radice anche il germe di una consolazione: nakham: allo stesso tempo pentirsi e consolarsi, in ebraico. L’Eterno si pente di aver fatto gli esseri umani (il termine è proprio quello: non creati, ma fatti, come il pane e come un vaso…) e inizia forse già a pensare di distruggerli, come vedremo poi con il diluvio.

Però il brano, la pericope settimanale, finisce con una nota positiva, non enfatizzata e anzi quasi appoggiata lì un po’ a caso: “E Noè trovò grazia agli occhi del Signore”.

Noè, di cui ancora nessuno ci ha parlato, che nessuno ha nominato, entra in scena così, con quella congiunzione che - è vero - nell’ebraico biblico congiunge o disgiunge, visto che può fungere anche da Eppure, Oppure, Però... ma arriva comunque a sorpresa e un po’ come una inaspettata consolazione, appunto.

L’umanità è corrotta e forse già condannata, “E Noè trova grazia”: qualcuno si salva, qualcuno resterà, sopravvivrà. Non si metterà a discutere con la divinità per salvare gli altri, quello lo fa solo Abramo con Sodoma, e più tardi, e ripetutamente, Mosè per il suo popolo di Israele. Noè forse è un non-salvatore: salva se stesso, e nel suo caso è già tanto: fa sì che il seme umano non anneghi e scompaia fra i flutti, traghetta l’umanità - così irrimediabilmente imperfetta - “dall’altra parte”: dall’altra parte delle acque, dall’altra parte del naufragio totale, diluvio universale. Tiene se e i suoi all’asciutto dentro l’arca e si occupa degli animali: non è idea sua, certo, ma lui la esegue, non pare un compito facile, ma lui lo mette in pratica con cura e – unicorno a parte – con successo.

La consolazione è tutta lì, in una persona, nella sua famiglia, che rende il tutto degno e capace di sopravvivere.

A volte basta così.

Oggi ho parlato con due amiche, lontane da me, su internet. Entrambe erano molto felici di aver passato questa domenica milanese già un po’ autunnale a sistemare camere e case, terrazzi e balconi, soprattutto le camere dei bambini. Raggianti mi hanno mostrato le nuove stanze, i nuovi letti a castello, le piante sul terrazzo che si prepara ad affrontare l’inverno. Il sole del pomeriggio di ottobre filtrava dalle loro finestre e sul mio schermo, e mi ha ricordato di quella finestra, forse un oblò, di cui è dotata l’arca di Noè, perché bisogna poter guardare fuori, saper vedere la luce che poco a poco filtra, rendersi conto che non tutto è buio.

Forse la salvezza sta in una casa da sistemare, camere da riadattare, bambini da far felici con uno sticker a forma di leopardo da incollare alla parete vicino al nuovo letto a castello… Se non è questa un’arca di Noè, allora non so proprio che cosa lo sia.

Foto di Paola Cazzaniga