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Viaggio in Italia

di Stefano Agnelli


1. Roma, Stazione Termini




Un andirivieni, un viavai ininterrotto caratterizza il lato Est, venendo dai binari, della stazione Termini. È il punto in cui passa la maggior parte dei viaggiatori per lavoro, o si potrebbe meglio dire, per affari. Il posteggio taxi è proprio qui, a pochi metri dall'uscita, lungo il cui pavimento in marmo corre una feritoia longitudinale, un taglio della larghezza di poche dita. Basta uno sguardo ai muri laterali per togliere ogni dubbio. La scanalature che corrono lungo le pareti rivelano la presenza sotterranea di una grande lastra d’acciaio anti-intrusione che la notte sale a coprire l’ingresso, come un piccolo Moise fuggito dalla laguna, e riprogrammato per tener fuori i mendicanti invece delle acque salmastre veneziane. Una difesa simile alla barriera d’energia che proteggeva la fortezza della scienza dagli attacchi alieni, ne Il grande Mazinga, solo che mentre questa a volte non bastava a contenere la forza degli attacchi nemici, l’enorme lastra d’acciaio qui posizionata potrebbe reggere l'urto di un carro armato. Rabbia: come usare una bomba atomica per un pugno di mosche; inciviltà pura, tecnologia che chiude in modo definitivo, schiacciante, alla povertà. La lastra dice chiaramente “Noi siamo più forti”, come le mura di un imponente castello medioevale marcano il confine fra civiltà e barbarie, questa sproporzionata barriera difende l’interno della stazione, i negozi ricolmi di dolciumi, indumenti e valigie costose, i bar e l’immancabile Mc Donald, sbattendo sulla faccia dei clochard tutta la potenza, la rigidità dell’acciaio. Lo stesso materiale con cui, da secoli, si forgiano le armi.

Durante il giorno diversi mendicanti si aggirano attorno all’ingresso Est; bastano due gocce di pioggia ed ecco comparire una folla di venditori ambulanti d'ombrelli, direi cingalesi o pakistani. Nessuno compra, così come nessuno si ferma alle richieste dei mendicanti o condivide qualche spicciolo, una sigaretta. Ho passato ore aspettando il treno delle 19.30, l’ipertecnologico orgoglio delle ferrovie italiane, la Freccia rossa, che hanno acquistato anche le ferrovie giapponesi – e loro se ne intendono di treni ad alta velocità. Solo che qui, a Roma Termini, l’alta velocità ha contagiato anche i passanti, e i giapponesi sono pochi. Molti irrigidiscono il volto, allungano il passo, scuotono la testa ed alzano la mano, come a volersi schernire o, peggio, difendere. Confesso che il pensiero di ritrovarli, un giorno o l’altro, seduti accanto in una chiesa mi spaventa. Allora mi imponevo di cancellare i loro volti, ma senza astio o risentimento. Scuotevo la polvere dai sandali e pensavo che, in fondo, il Signore non voleva ancora cambiare la direzione del loro sguardo: il peccato è solo un cattivo orientamento dello sguardo, diceva Simone Weil. Eppure stando lì ad aspettare per ore, condividendo quel che potevo, compreso un rifiuto, con quanti chiedevano, ho imparato. Ho imparato che rallentare e fermarsi a guardare fa bene all’anima, che ascoltare con gioia chi ti parla, senza aver paura di restare coinvolto - perché siamo già coinvolti, dal momento in cui nasciamo (e nasciamo per gli altri, credetemi) - rende allegri, leggeri.

In quelle lunghe sere di primavera romane ho visto aggirarsi muto, silente come la più inquietante delle apparizioni, quello che chiamavo il barbone esploso, un uomo enorme corpulento come un orso, dai capelli folti, sporchi e incolti, con le scarpe esplose sul davanti– da qui il soprannome – che mostravano i piedi nudi e neri; avvolto in una coltre maleodorante cercava resti, avanzi di cibo, monetine nelle buchette dei telefoni. Ho visto dove dormono tutti. Davanti alla facciata principale, nel piccolo parco, tra le aiuole di cespugli sempreverdi, dove due volte al giorno i volontari della Caritas distribuiscono i pasti. Ho diviso qualche sigaretta con un ragazzo che, ogni mezz’ora, tornava a chiedere. Gli dicevo allora “Me l’hai chiesta anche prima”, ricevendo le sue scuse sincere mentre si allontanava e, capendo che non era in sé, lo richiamavo e gliene offrivo un’altra. Ho ascoltato storie di fallimenti: in famiglia, nel lavoro, nella vita. Mi sono fatto un grande amico: Pasquino, che come il suo più famoso omonimo, scrive satire elementari su fogli di carta che poi plastifica e vende ai turisti. È bastato poco, soltanto rimanere immobile nel flusso ad alta velocità di gente valigettata, incravattata e incappottata, chiedendomi più perché corressero quelli di quanto potessi chiedermi se questi ultimi erano poi veramente “fermi”, o piuttosto sospesi in un tempo diverso, un tempo che sa di pietas latina, prima ancora che cristiana. Un tempo che anch’io, restando lì, con loro, faticavo a percepire. In fondo, una volta a Ferrara, avrei ritrovato un letto pulito, una doccia calda, il calore delle amicizie e dell’amore. Per merito mio? Non credo, non del tutto almeno, ma sicuramente non per demerito loro.