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Fleet prison - Thomas Rowlandson, Auguste Charles Pugin, Rudolph Ackermann, 1808 - Immagine tratta da commons.wikimedia.org



Quell’inattesa felicità di essere

prete di galera”





di Domenico Cambareri



“Benvenuto tra i preti di galera!” Così don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri, mi salutò quando fui ufficialmente inserito tra questi pochi - ma straordinari - confratelli in Italia. Prete di galera… sempre meglio di “prete da galera!” Quando una preposizione fa la differenza!

Nel luglio del 2020 il mio Vescovo mi propose di sostituire padre Franco - davvero un grandissimo uomo - come cappellano del carcere minorile di Bologna (in città conosciuto da tutti come “Il Pratello”, nome dell’omonimo quartiere in cui sorge). Accettai subito ma ammetto che, una volta in auto, al primo semaforo rosso mi dissi: «Ma che hai fatto?!». Mi prese tanta paura lo ammetto. Nonostante sia discepolo di uno che raccomanda per la propria e altrui salvezza di visitare i carcerati io in carcere non vi misi mai piede. Ma ormai avevo detto di sì ed è difficile dire di no a don Matteo (cf. Cardinal Zuppi).

Questa mia testimonianza apre la riflessione di Se vuoi sulla prossima Giornata mondiale della gioventù; e tra quella gioventù c’è la gioventù carcerata e sono sicuro di poter dire che essa, nel cuore di Dio, è presente in prima fila.

Il mio primo impatto con la realtà del carcere minorile fu scioccante. Il Direttore, il Comandante e gli agenti, il personale mi accolsero con grande cordialità. Mi fu fatto faro il classico giro della struttura e poi fui condotto in sezione, espressione che indica il luogo dove risiedono i detenuti. Non avevo mai visto un carcere, non avevo mai visto una cella e soprattutto non avevo mai visto persone prigioniere.

Stringere delle mani - allora si poteva ancora fare - con in mezzo delle sbarre… Pensavo solo ad…evadere e a pregare. Sentii l’enorme bisogno, come da tanto tempo non sentivo - e ricordatevi che sono un prete! - di pregare perché lassù qualcuno mi desse forza e coraggio ma sopratutto amore, perché percepivo che ne avrei dovuto sborsare parecchio, ammesso che sia vero che “la misura dell’amore è amare senza misura” (ma l’ha poi detto Sant’Agostino o no?!). Io ho bisogno di crederlo.

La realtà del carcere minorile di Bologna è una realtà medio - piccola: al massimo può ospitare venticinque detenuti tra i 15 e i 25 anni. In questi mesi ho avuto modo di apprezzare il generoso servizio di tanti che, sia dipendenti sia volontari, vogliono bene ai ragazzi, li incoraggiano e agiscono perché il loro futuro sia migliore. Professionisti dell’educazione la cui determinazione e competenza mi stanno molto istruendo.

Un prete di galera si sente prete. Si lascia il cellulare - con tutto ciò che esso significa per noi - in portineria e per qualche ora ti consegni senza distrazioni, impegni, appuntamenti alle persone: i ragazzi ma anche tutti gli operatori, ché un cappellano carcerario è cappellano di tutti coloro che in qualche modo vi transitino.

Tempo di ascolto, di relazioni, di presenza fisica all’ora d’aria come al pranzo per farti conoscere, perché possano avere fiducia in te. L’ordinamento giudiziario italiano riconosce nella dimensione spirituale un importante contributo alla “riabilitazione” del detenuto; su questa determinazione si fonda la legittimità della mia, la nostra presenza, come quella dei rappresentanti delle altre fedi. E io sono lì per questo, per fare amicizia con chi vuole (Se vuoi) e ribadire l’enorme valore che le loro vite hanno, indipendentemente dal Dio innanzi a cui si confidano.

Intuite che le cose sono parecchio cambiate rispetto dallo schock iniziale. Giorno dopo giorno sono stati i ragazzi a convincermi che fosse, oltre che giusto, bello che fossi lì, come prete e come uomo. Provo a spiegarvelo: c’è una profondità, una tragica bellezza, nelle loro vite, nelle loro parole; è come se la vita, per tutti durissima, li avesse costretti a prendere sul serio la vita e tutte le sue domande.

Prendere sul serio la vita… ma non come dico sempre io da prete in parrocchia o quando faccio il prete… lì è qualcosa di vero, non di retorico. Avverti che a un prete fa bene essere là dove queste domande si pongono, sopratutto quando il primo a porgersele è il prete stesso. Io in questo caso.

Con due di essi stiamo compiendo un bellissimo cammino in preparazione alla loro cresima che avverrà il prossimo marzo. Affido questi vostri coetanei alle vostre preghiere, assieme a tutti gli altri, che, credetemi, sono pieni di talenti.

Questi mesi mi hanno convinto che ha ragione papa Francesco quando ci invita ad andare nelle periferie perché da esse si vede il mondo com’è realmente. Prima ci credevo con la testa ma ora sono totalmente persuaso: sono loro la nostra priorità e in questa priorità c’è tanto bene anche per noi inviati. Devo riconoscere che nel mio cuore, prima ancora che in tutte le nostre strutture ecclesiastiche, oggi c’è poco posto per ragazzi come loro. Devo, possiamo cambiare, ne guadagneremo in felicità evangelica.

Non sono lì solamente per pronunciare preghiere o celebrare messe ma a fare tutto ciò quando questo significa celebrare la rinascita alla vita bella di questi ragazzi. È importante favorire progetti di studio e lavoro che li possano raggiungere e in carcere e, sopratutto forse, quando dal carcere saranno usciti. La Chiesa non è - e non deve essere - una madre surrogata e a tempo.

Il cantante Leonard Cohen cantava: «C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che passa la luce». Prendersi cura delle crepe - e le prime crepe si aprono nel nostro cuore - di questi ragazzi è farsi raggiungere da una luce benefica che “guarisce il guaritore”. Ti fa intuire qualcosa di quello straordinario potere con cui Gesù “risanava i cuore affranti fasciando le loro ferite”.