The Rabbi is in


Giallo e azzurro


di Miriam Camerini

Sono state settimane intense

Per me e per il mondo

Ho compiuto 39 anni, li ho festeggiati a Milano - al sole - con buone amiche e amici e con un po’ di famiglia, a casa mia, nel mio quartiere, che oramai mi pare un luogo “di passaggio”, ma al quale ogni tanto torno volentieri per un giorno o due. Ho ricevuto mazzi di fiori bellissimi e il mio primo pensiero è stato: non starò qui il tempo sufficiente a vederli sfiorire, meglio godermeli finché ci sono e poi passarli ad altri, più stanziali, che li portino a casa loro. Alla fine li ho dati ai miei genitori, un paio di giorni più tardi, partendo. Mia madre è uscita da casa mia con le braccia cariche di rose, tulipani e altre delizie... Mi è piaciuto immaginarli nel suo salotto.

Ho lavorato, come quasi sempre, insegnato e scritto e organizzato nei ritagli del tempo.

Studiato e sostenuto un esame, proprio il mattino del mio compleanno, una domenica.

Ho fatto - proprio l’indomani del mio compleanno - una cosa che volevo fare da mesi, che mi ha richiesto più impegno e più energie, e di conseguenza più tempo, anche, di quelli che avevo previsto, il che è stato complesso, visto che io organizzo sempre tutto al millimetro, senza margini. Sono poi volata a Madrid, come da accordi, perché avevo preso un impegno di lavoro e non lo potevo né volevo rimandare nonostante fossi ancora un po’ provata dalla cosa che avevo voluto fare e che era stata più lunga del tempo che le avevo concesso in agenda.

Nel mezzo è iniziata la guerra alla quale tutti noi pensiamo tutto il tempo, che occupa le nostre menti, i cuori e le conversazioni.

All’aeroporto, qualche sera fa, partendo da Milano per Madrid, ho incontrato un gruppo numeroso di atleti ucraini, donne e uomini, tutte e tutti disabili: una squadra in partenza per la Cina per competere nelle Paralimpiadi invernali di Pechino 2022, ho scoperto poi, parlando con alcune di loro.

A convincermi a fermarmi e chiedere erano stati i colori giallo e turchese che indossavano, ai quali fino a poche settimane fa non avevo mai neppure pensato, e che ora sono nella mia coscienza al punto che, uscendo dal portone di casa la mattina del mio compleanno in cappotto azzurro, mi sono gettata ridendo fra le braccia dell’amico che era venuto a prendermi e mi aspettava in strada - per caso - in montgomery giallo. Ci siamo abbracciati, abbiamo riso ancora e poi ci siamo scattati un milione di foto in tutte le posizioni, anche sdraiandoci per terra una sull’altro (fortuna che il giallo sta sotto, nella bandiera, e che il mio amico è bello grosso) in riva al Naviglio, sulla Darsena, al sole, proprio come nella bandiera, il grano dorato che cresce sotto al cielo limpido.

È stato, tutto sommato, un buon compleanno: una zia mi ha scritto suggerendomi - o meglio: augurandomi - che quest’anno mi insegni a saper scegliere che cosa è importante e interessante e che cosa non lo è, che cosa voglio e che cosa posso lasciar perdere. Ringrazio e metaforicamente sorrido. Dentro di me penso: “Ma come si fa a pensare di sapere che cosa prova davvero qualunque altro essere umano, specie se lontano? Ognuno di noi è in fondo così irrimediabilmente solo e il mondo è tanto immenso, vario e diverso... Come si può davvero scegliere?”.

A Madrid ho incontrato e condotto gli studenti degli ultimi due anni del liceo ebraico attraverso il tema della tzedakah, ossia la giustizia o carità, o meglio quell’unico termine ebraico che unisce entrambe le idee in una sola espressione, a indicare che elargire carità, distribuire danaro, cibo o qualsiasi altra cosa serva a chi ne ha bisogno è in realtà un gesto di giustizia, riparare un torto. Con le ragazze e i ragazzi del liceo Ibn Gabirol, dedicato al poeta andaluso ed ebreo del secolo XI, abbiamo studiato una leggenda talmudica sul Messia, discusso il valore e il significato del tempo, che in ebraico divide la radice con la parola invito, come un invito a fare, a rendersi responsabili e attivi, a usarlo al meglio, per fare del bene. Le ragazze e i ragazzi recitano e giocano, immaginano di essere già a capo di una organizzazione di tzedakah “da grandi” e ne presentano ai compagni il funzionamento, gli scopi e i metodi. Ci lasciamo con la promessa di scriverci fra un paio di mesi per controllare lo stato dei progetti, l’impatto di questa giornata sul desiderio di usare il proprio tempo e le proprie risorse a favore del prossimo. Nell’istante in cui chiudo il seminario della giornata mi chiama un’amica che non sento da anni: sta cercando un appoggio in Ungheria per un amico in fuga da Kiev con la famiglia; la rete si attiva, i contatti si muovono, capisco che negli scorsi giorni sono stata tanto impegnata con il mio corpo e i miei impegni da non rendermi pienamente conto di tutto quel che da una settimana succede in Europa. Ora sono pronta, invece, per fare la mia minuscola parte. I giorni seguenti li dedico al riposo e al recupero ma anche già alla pianificazione delle prossime mosse; a est, dappertutto, c’è bisogno di mani e cuori, vestiti, coperte e voci e sorrisi: cerco l’organizzazione alla quale unirmi, il luogo in cui provare a fare qualche cosa. Vedremo.

Nel frattempo la luna è nuova, Adar, il mio mese ebraico preferito, inizia al momento più opportuno, quando proprio c’è bisogno di lui, che ci invita ad “aggiungere gioia” (così richiede la tradizione): si va verso l’allegra festa di Purim, quella in cui ci si traveste, si beve, si legge la storia della regina Ester e si allestiscono spettacoli: la data ebraica del mio compleanno, in poche parole. Un verso in particolare risuona in me: quello in cui l’ebreo Mordechai spara l’ultima cartuccia per convincere la nipote regina Ester a presentarsi ad Achashverosh, di lei marito e re di Persia, nel tentativo di convincere – a sua volta – il re a non sterminare tutti gli ebrei dell’impero, come decretato dal ministro Haman. “Se ora tu tacerai, la salvezza e la liberazione verranno per gli ebrei da un’altra parte, ma tu e la casa di tuo padre sarete perduti, e chi sa se per un momento come questo sei giunta al regno” (Ester 4:14). La frase sortisce il suo effetto, Ester capisce che è il momento di agire e anche il come farlo, tutto in un colpo solo. Da lì innanzi la salvezza è in cammino. La menzione della casa paterna, del legame con il padre, mi giungono in un momento significativo, trovano terreno fresco e zolle recentemente rivoltate nel mio cuore: la luna è nuova e anche io non mi sento poi così vecchia.. Sento come una quiete fresca che mi pervade, come di tempesta passata, di una zavorra lasciata in mare.

Lo Shabbat come sempre sigla il tempo del riposo, delle letture, dello studio e della preghiera, dello stare con gli amici a tavola e passeggiando: riaccendo il telefono all’uscita delle stelle e scopro che Bennet, il primo ministro israeliano osservante, ha saputo interpretare la Legge che impone di infrangere lo Shabbat quando è in gioco una vita umana: Bennet è volato a Mosca a parlare con Putin, perché le vite in gioco qui sono milioni.

La domenica vado - con gli amici che mi hanno invitata e con i loro figli piccoli - al Museo Reina Sofia: voglio guardare in faccia per la prima volta Guernica, e voglio farlo ora, con loro, oggi, sentire che cosa mi dice. Mi concentro, chiudo gli occhi nella bella sala affollata ed ecco lo sento: agire ora, fare il pochissimo che si può fare. Farlo ora, subito.

Foto di Paola Cazzaniga

Numero 651 - 6 marzo 2022