The Rabbi is in


Cabaret Esodo


di Miriam Camerini

Una domanda lanciata in una mail alla fine dello Shabbat, qui a Gerusalemme, che invece in centro Europa ancora è in corso per un’oretta: “Qual è secondo te il mio verso preferito della parashà (brano di Torah) che si è letto in sinagoga oggi?”

Un gioco che non ho mai giocato e che mi è venuto in mente nella prima ora della settimana nuova, pretesto e voglia di sentirsi un po’ bambini con un uomo che bambino non è e che sta da un’altra parte, come quasi sempre, nella mia vita.

Se indovina vuol dire che mi conosce bene (difficile: ci conosciamo poco e da poco), oppure che ha grande intuito, o molta fortuna.

Se non indovina posso dirgli che si è appena (mal) giocato chissà quale seducente premio, peccato.

Il gioco prosegue nella notte, a distanza di chilometri e col grande mare di mezzo, l’amico indovina al quarto colpo, che in fondo non è male: ripeto, ci si conosce da poco. Il verso è in Esodo 14:11 e a me fa proprio ridere ogni volta che lo ascolto o che lo leggo.

I figli d’Israele - appena fuggiti dall’Egitto dopo secoli di schiavitù, molte trattative e dieci piaghe - sono intrappolati fra il Mar Rosso che hanno davanti e i carri “armati” egiziani che li hanno chiusi alle spalle; la loro scelta sembra ristretta a un paio di opzioni, magari tre: annegare, farsi uccidere dai soldati del faraone, forse arrendersi e tornare in Egitto, di nuovo schiavi. Nessuna pare particolarmente divertente, eppure in quel preciso momento quel che viene loro in mente è una battuta sarcastica, un paradosso che rovescia per un attimo la realtà, offre una prospettiva opposta: “Forse perché non ci sono abbastanza sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?” chiedono - mugugnando - al povero Mosè che li conduce.

Ora, io non so a quanti di noi in una situazione simile verrebbe tanto da scherzare, ma ogni anno quando sento questa domanda retorico-ironica è come se la sentissi per la prima volta e ogni volta di nuovo rido e mi compiaccio del senso dell’umorismo, della prontezza di spirito, finanche del saggio distacco di quei miei antenati e delle mie trisnonne, laggiù nel deserto del Sinai.

Ogni volta mi pare di leggere un racconto di Kafka, una commedia di Sholem Alechem o la sceneggiatura di un film di Woody Allen o dei fratelli Coen: la battuta, il witz, quel sovvertimento della tragedia che per un secondo diventa commedia e strappa una risata là dove non ci resta che piangere...

Ecco, a me questo, ieri sera, scrivendo all’amico (assai ironico lui stesso), è venuto da chiamarlo: “la ricetta della pervicace e ostinata sopravvivenza ebraica”, e speravo che da questo laconico indizio lui potesse subito indovinare come questo è uno dei versetti della Torah che più mi divertono, più riempiono d’orgoglio, di - posso dirlo? - gioia nell’appartenere a un popolo che non rinuncia all’arguzia nemmeno nei momenti più spaventosi, ma che anzi proprio in essi trova le proprie migliori invenzioni umoristiche.

Rovesciare l’immagine dell’Egitto come di un luogo in cui “difettano i sepolcri” non è poi casuale, dato ciò che ognuna di noi, bambina, ha letto e visto sui libri: piramidi, tombe, necropoli, divinità infere...

L’Egitto, almeno come ce lo insegna(va?)no a scuola, è tipo l’IKEA dell’aldilà: tutto quel che serve per l’oltretomba; difficile pensare che si debba andare a morire altrove, e per questo il paradosso riesce bene.

Nello stesso momento, mentre ci scambiavamo queste mail con l’amico lontano, per il quale lo Shabbat era appena finito, commentavo via Zoom per la Giornata del dialogo ebraico – cristiano - a due voci con un biblista cattolico, in Italia - il capitolo 29 del libro di Geremia, quella Lettera agli esiliati nella quale la divinità - tramite il profeta – suggerisce o piuttosto comanda al popolo ebraico di “mettersi comodo” in Babilonia, costruire case e abitarle, concepire e partorire, sposare e far sposare, generare insomma, seminare e mietere, coltivare e raccogliere e mangiare, perché l’esilio durerà 70 anni, un tempo lungo cioè, e non un giorno di meno di quello che l’Eterno ha stabilito e calcolato. Non serviranno falsi messia e sogni di profeti; chiunque cerchi di portare a casa gli esuli prima che la diaspora sia compiuta è un ciarlatano: tanto vale mettersi comodi e fare il meglio per il Paese in cui si è ora, far fiorire Babilonia e perseguirne la pienezza, lasciare che Gerusalemme “riposi” vuota, vedova, come Geremia stesso la chiama nel primo verso delle sue Lamentazioni; tornerà a riempirsi di vita e di uomini, ma prima devono compiersi dieci volte sette anni, un grande sabbatico: anche la città, non solo la terra, a volte riposa per rigenerarsi? Nel frattempo l’ebreo fertilizza e coltiva la diaspora, così sarà per i successivi duemila anni, e il ritorno a Sion rimane “come un sogno” (Salmo 126).

La risposta di Dio a Mosè che parla a nome Suo (Esodo 14:15) assicurando il popolo che la divinità combatterà per esso e loro devono solo stare tranquilli è anche parte del “cabaret”: “Che cosa gridi a Me? Parla con i figli d’Israele, e che inizino a muoversi!”, insorge l’Onnipotente, che ogni tanto vorrebbe anche vedere i Suoi figli prendere un minimo d’iniziativa nel salvarsi: va bene fidarsi e attendere e sperare, ma ogni tanto occorre anche fare.

E loro fanno: ascoltano ed entrano in acqua, nel mare che ancora non si è aperto, dice il midrash, e in effetti a leggere semplicemente i versi non è chiarissimo che cosa avvenga prima, se l’apertura del mare o il coraggioso tuffo del popolo in fuga.

Forse la risposta sta proprio lì, come in un buon gioco di seduzione, in cui non è chiaro chi inviti per primo, come nelle maree chiamate dalla luna, nella indistinguibile quasi simultaneità delle azioni salvifiche: l’umana che precede la divina e la facilita, l’invita, la chiama necessaria.

L’Eterno dell’Esodo non redime gratis, aspetta una chiamata, a volte un grido, come all’inizio dell’Esodo, altre - forse - basta una risata.

Foto di Paola Cazzaniga

Numero 644 - 16 gennaio 2022