Celibato incandescente. Il presbitero tra eros monastico e ascetismo borghese
di Stefano Sodaro
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1. Introduzione
Il celibato ecclesiastico è da secoli oggetto di riflessione teologica, disciplina canonica e tensione spirituale.
Ma cosa significa davvero vivere il celibato come presbitero? È una rinuncia, una funzione, un segno? Oppure può essere una vocazione incandescente, un amore erotico per Dio, una forma di nuzialità mistica?
Queste povere righe provano ad esplorare la tensione tra due modelli: il celibato monastico, vissuto come eros teologico, e il celibato tridentino, vissuto come ritiro borghese dalla vita. L’obiettivo è mostrare come il ministero presbiterale possa essere luogo di desiderio e incarnazione, non di neutralità e controllo.
2. Il celibato monastico: eros per Dio
Nel monachesimo antico e bizantino, il celibato è vissuto come fuoco d’amore, tensione mistica, eros sublimato. Evagrio Pontico, Giovanni Climaco, Simeone il Nuovo Teologo e Gregorio di Narek parlano di un desiderio incandescente che brucia per Dio.
Il corpo non è negato, ma trasfigurato.
Il monaco è amante del Verbo, sposo spirituale, testimone di una nuzialità che coinvolge l’intera persona.
Il celibato è vocazione erotica, non neutralità funzionale.
È offerta totale, non rimozione del desiderio. È incarnazione del mistero, non fuga dal mondo.
3. Il celibato tridentino: l’asceta borghese
La riforma tridentina, nel contesto della Controriforma, ha istituzionalizzato il celibato come disciplina obbligatoria per il clero latino. Il prete diventa funzionario del sacro, separato dal mondo, ma non mistico.
La spiritualità è moderata, controllata, decorosa.
Il corpo è silenziato, il desiderio represso, la vita ordinata.
Il celibato diventa segno di efficienza pastorale, non di passione divina. Il sacerdote è uomo a parte, ma non uomo per gli altri. L’ascetismo è borghese, non profetico. La santità è amministrata, non vissuta.
4. Il prete sposato orientale come provocazione
La figura del prete sposato nelle Chiese cattoliche orientali rappresenta una provocazione teologica e pastorale.
La sua testimonianza incarnata mostra che il ministero può essere vissuto nella carne, non contro la carne. La relazione coniugale diventa luogo teologico, spazio di grazia, ambito di santificazione.
Il prete vive la tensione tra vocazioni, non la nega. La sua spiritualità è relazionale, pasquale, concreta. Egli rompe la logica tridentina, mostrando che la santità è possibile nella vita ordinaria. Il suo ministero è servizio nella carne, non fuga dalla carne.
5. Verso una teologia erotica del ministero
È tempo di riscoprire l’eros come dimensione teologica del ministero.
Il celibato può essere scelta d’amore, non rinuncia funzionale.
Il desiderio può essere luogo di incontro con Dio, non minaccia da reprimere.
Il ministero presbiterale può essere spazio di passione, non di neutralità. Serve una riforma spirituale e pastorale che riconosca la corporeità, la relazione, la tensione come elementi costitutivi della vocazione.
Il prete non è angelo, ma uomo redento. La sua santità è incarnata, non disincarnata.
6. Conclusione
Il celibato ecclesiastico può essere vissuto come fuoco che illumina, non come gelo che conserva. La tensione tra il modello monastico-erotico e quello tridentino-borghese ci invita a una conversione dello sguardo. Il ministero presbiterale è luogo di incarnazione, non di evasione.
La santità è possibile nella carne, non fuori da essa.
Il prete, celibe o sposato, è chiamato a vivere l’amore divino nella concretezza della vita.
Solo così il ministero sarà davvero segno del Regno, e non funzione del sistema.