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Trittico della Salvezza - 1521 - opera di Moretto da Brescia (1498-1554), collezione privata, immagine tratta da commons.wikimedia.org


La salvezza

di Dario Culot



Salvare significa sottrarre qualcuno a un pericolo, a un danno o alla morte. Se non c’è un pericolo, non ci può essere neanche salvezza. E la salvezza è un problema che da sempre ha afflitto l’umanità. Sia la religione, sia la filosofia hanno affrontato lo stesso problema perché tutti sentono il bisogno di salvarsi.

L’uomo delle caverne si svegliava di notte con la paura di essere divorato dalle belve feroci. Poi, in senso ampio, c’era il problema di salvarsi dalla fame, dalle malattie, dai nemici che potevano ucciderci o catturarci e renderci schiavi. A ben pensarci, le stesse feste pagane – rovesciando per qualche giorno l’ordine costituito (pensiamo alle Saturnali quando gli schiavi potevano farsi padroni),- erano una valvola di sfogo, un rimedio alle difficoltà della vita quotidiana: anche questo era un modo per salvarsi.

Per l'uomo ebreo a salvare era l'osservanza della legge. Ma per Paolo la legge non ha condotto l'uomo alla salvezza e non è in grado di farlo. Tutti gli uomini sono peccatori, pagani ed ebrei (Rm 3, 9 e 20). Solo il Cristo crocifisso salva senza la legge, e la legge non è in grado di condurre a Cristo, mentre il peccato può anche servirsi della potenza della legge e ci fa capire che abbiamo bisogno di aiuto[1]. 

Più volte, in tanti articoli, ho sottolineato come Gesù abbia accolto tutti senza escludere nessuno, dando salvezza a tutti quelli che gli si accostavano.

Sicuramente è curioso scoprire che nei vangeli sinottici, il Salvatore è un uomo. I sinottici, in effetti, quando parlano di salvezza, si riferiscono a situazioni di sofferenza e di minaccia che riguardano questa vita. Utilizzando il verbo sôzô (salvare) i vangeli si riferiscono soprattutto alla cura degli infermi come salvezza. Una salvezza che, a quanto indicano i testi, si attribuisce alla fede dell’essere umani: «la tua fede ti ha salvato» (Mc 10, 52; Lc 7, 50; 8, 48; 17, 19; 18, 42), tenendo anche presente che si tratta di una salvezza integrale, che sana sia il corpo che la dignità della persona, com’è il caso di Zaccheo: «Oggi è arrivata la salvezza in questa casa» (Lc 19, 9). In queste situazioni non si fa menzione di intervento divino, bensì di decisioni umane[2].

A partire dalla resurrezione, però, l’impostazione cambia. Negli Atti degli apostoli e negli scritti di Paolo, il Salvatore diventa Dio. A partire cioè dal momento in cui Gesù cessa di essere visto come un uomo fra gli altri uomini si producono due conseguenze: 1) il «Salvatore» è Dio, un’affermazione che acquista ogni volta più forza, fino a raggiungere la sua formulazione più forte nelle lettere pastorali (1Tm 4, 10; Tt 2, 10s.). Di modo che, perfino quando a Cristo si attribuisce il titolo di Salvatore, non si tratta più del Gesù storico, bensì del Cristo resuscitato, l’artefice escatologico (Fil 3, 20)[3]. 2) Se il Salvatore diventa Dio, inevitabilmente la Buona Notizia e la conseguente gioia della salvezza non è per tutti, ma unicamente per coloro che accettano che solo nel nome di Cristo ci sia salvezza (At 4, 12). Il che – osserva acutamente il prof. Castillo,[4]-  ci pone davanti a un dilemma drammatico. O questa drastica affermazione degli Atti deve essere addolcita e sfumata, fino a farle dire quello che in realtà non dice; o, a partire da simile affermazione, il nome di Cristo si converte in un nome escludente che espelle dalla salvezza la maggioranza dell’umanità, che non ha avuto (né ha) notizia del nome di Cristo. Da ciò seguirebbe che il Gesù storico, il quale non ha mai escluso nessuno e ha portato salvezza per tutti, nell’essere costituito Signore e Figlio di Dio (Rm 1, 4), invece di salvare tutti ha cominciato a portare in questo mondo l’esclusione per la maggioranza degli uomini, il che appare onestamente assai contraddittorio. La Chiesa ha purtroppo seguito questa seconda linea,[5] sì che l’adesione originale al Gesù terreno, occasione e spazio d’incontro fra esseri umani, ha cominciato ad essere causa di divisione per motivi dottrinali e osservanze religiose. In estrema sintesi, l’incontro con Gesù, che all’inizio era un incontro con un essere profondamente umano che univa e abbracciava tutti quelli che gli si avvicinavano, è presto degenerato nella direzione di una sottomissione a verità, norme e rituali religiosi, che di frequente dividevano, stabilivano differenze, fino a far scontrare fra di loro gli stessi credenti cristiani. In definitiva, la questione di fondo era che il centro della vita dei cristiani non stava più in Gesù, ma nella salvezza indicata dal magistero, che col tempo si è dichiarato pure infallibile. E da lì si ricavava un’ulteriore conseguenza basilare: per assicurare la salvezza era assolutamente necessario accettare una retta dottrina, sottomettersi a determinate norme insegnate dal magistero e adempiere ai rituali prescritti: vero cristiano, infatti, è colui che è battezzato, che crede e professa la dottrina cristiana e obbedisce ai legittimi Pastori della Chiesa, proclamava infatti l’art.3 del Catechismo di Pio X.

Nella soteriologia,[6] che nel corso dei secoli è stata insegnata nella Chiesa ci viene ripetuto che Cristo patì e morì per i nostri peccati, sì che la sofferenza è necessaria affinché possa risolversi il problema del peccato. Visto che siamo tutti peccatori, anche a causa del peccato originale, Gesù è morto per noi (Rm 5, 8), è morto per espiare i nostri peccati. Dio non punisce il peccatore come meriterebbe, ma immeritatamente lo giustifica attraverso la morte di Cristo che ha quindi portato al perdono dei nostri peccati (At 10, 43; 13, 38s.). Il mondo è redento dal sangue di Gesù (Ef 1, 7; Col 1, 14). C’è forse da domandarsi: ma noi vogliamo veramente essere salvati dal sangue di un innocente? Qual è la conseguenza di questo insegnamento tradizionale? Se il peccato è ciò che ci separa da Dio e la liberazione dal peccato è ciò che ci avvicina a Dio, allora c’imbattiamo nel dato, piuttosto angosciante, secondo cui la condizione indispensabile per stare vicini a Dio è passare attraverso la sofferenza. Un testo che ha il suo parallelismo in san Paolo: Dio non perdonò neanche suo Figlio consegnandolo (alla morte) per i nostri peccati (Rm 8, 32). Si tratta dell’affermazione fondamentale della stretta relazione che la religione ha stabilito fra la violenza e la salvezza[7].

Ma la dottrina dell’espiazione, secondo cui Gesù ci salva avendo espiato per noi i peccati che Dio non era capace di perdonarci, è la più profonda distorsione del cristianesimo. Per ottenere la nostra salvezza Dio avrebbe costretto il Figlio divino a subire il destino che noi umani meritiamo. Più mostruosa è la sofferenza di Gesù morto in croce, più sicura è la nostra salvezza. Il massimo del sadomasochismo. Dio Padre punisce il Figlio divino in modo da ottenere l’espiazione per gli uomini peccatori. Dove si vede il grande amore di Dio? Ci deve essere un altro modo per raccontare la storia di Gesù, osserva giustamente il vescovo Spong[8].

Da cosa ci ha salvati Gesù? Forse oggi è più corretto dire che Gesù ci ha salvato dalla religione; dalla religione così come era intesa, vissuta e praticata dal sistema religioso imposto dai capi del giudaismo al tempo di Gesù, ma che poi anche la Chiesa ha riprodotto. La religione come vincolo con precise regole ed un sistema di vita che focalizza la persona su alcune verità assolute che non ammettono discussione, su alcune osservanze ed alcuni rituali, ai quali bisogna sottomettersi prescindendo da quello che succede nel mondo e dal fatto che le persone soffrano. È la religione che indurisce il cuore dell’uomo, che divide e crea lo scontro fra le persone, anteponendo il sacro al profano, il religioso al laico[9]. Se passo qualche ora in adorazione del Santissimo, posso poi tranquillamente cacciare lo straniero che sbarca sulle nostre coste, perché i diritti di Dio vengono prima di quelli dell’uomo.

Forse oggi si può anche dire che la salvezza portata da Cristo culmina nella speranza che neanche la morte ha ormai potere sulla nostra fragile umanità[10]. Gesù ha semplicemente dimostrato che per diventare sé stessi si deve semplicemente crescere in umanità. E portando la crescita alla sua conclusione ci si divinizza e si può superare indenni la morte biologica. Quindi Gesù è salvifico non perché ha espiato i nostri peccati, ma perché dimostra che tutti possono portare a compimento la propria umanità, come ha fatto lui. Il che significa solide relazioni con le altre persone, non rinchiudersi in chiesa ad adorare il Santissimo.

Allora compito della Chiesa (di noi cristiani) è rendere presente e operante in essa la salvezza dalla religione, che poi è salvezza dal potere e dall’onore, in quanto forze che generano violenza e sono causa di sofferenza[11].

A questo punto si può capire anche perché Darwin è stato visto come una minaccia dalla Chiesa.  Perché la Chiesa aveva insegnato (e insegna) che la creazione era inizialmente perfetta, è seguita una caduta nel peccato che richiedeva allora un’operazione di salvataggio, affidata da Dio a Gesù con il suo apice nella croce che ha prodotto l’affermazione “Cristo è morto per i nostri (quindi anche miei e i vostri) peccati. Ma Darwin ha fatto capire al mondo che non c’è mai stata una perfezione originale da cui noi esseri umani siamo caduti. Noi umani siamo da sempre limitati e incompiuti, e anche l’universo lo è perché si stanno ancora formando nuove galassie. Nessuna forma di vita è oggi ciò che era in origine, perché la vita non si ferma, è sempre in divenire. Quindi nessuna forma di vita è mai caduta dalla perfezione a causa del peccato. Ma se non c’è alcuna caduta nel peccato non c’è bisogno di un salvatore che ci riscatti: ecco perché Darwin è stato scioccante per la religione cristiana. Con Darwin non è più credibile che Gesù abbia pagato il prezzo della nostra caduta per salvarci dal peccato. Non siamo peccatori caduti, ma persone incomplete che anelano alla pienezza, mentre la religione ha trasformato Gesù in una vittima masochista di un Padre sadico (che contraddittoriamente ci dicono essere Amore perfetto). Abbiamo bisogno di essere amati e responsabilizzati, non di essere salvati da una caduta mai avvenuta[12].

Per di più, se Gesù fosse venuto a salvare il mondo, dov’è questa salvezza? Se Gesù ci ha salvato dal peccato, com’è che si continua a peccare? Com’è che il male sembra sempre prevalere?

La parabola del buon grano e della zizzania (Mt 13, 24-30) ci spiega la dinamica della storia. La storia è crescita evolutiva; male e bene crescono contemporaneamente e in maniera inseparabile proprio a causa della limitatezza e imperfezione del mondo, e noi non siamo sempre in grado di distinguere immediatamente il bene dal male, per cui la parabola ci mette in guardia dalla tentazione fondamentalista di volerci incaricare di eliminare il male dalla faccia della terra (e visto che ci siamo, il passo successivo sarà quello di eliminare anche le persone che esprimono questo male).

Per noi è più facile rendere comoda la realtà, semplificandola, ma questo è tipico degli individui psichicamente fragili, i quali non accettano che il mondo sia complesso. La complessità disturba per cui sono proprio i più fragili ad aderire più facilmente degli altri alle ideologie integraliste che appaiono più rassicuranti, perché garantiscono loro che il mondo è semplice: bianco o nero; buoni e cattivi. Così sono convinti che basta eliminare la zizzania, i cattivi, gli impuri, e il bene trionferà automaticamente. Ma non è questo ciò che ci ha insegnato Gesù. La parabola, contrapponendo l'improvvida impazienza dei contadini (noi) alla pazienza del proprietario del campo (Dio), dimostra che noi facciamo fatica a capire che siamo ancora nella stagione della semina e della crescita. Noi vorremmo vedere subito i risultati della mietitura, utilizzando il nostro metro di giustizia. Ma il mondo non va avanti come vorremmo. Non c’è altra soluzione che pazientare, sapendo che forse noi non vedremo la mietitura in tutta la nostra vita.

Anche se l’insegnamento della parabola è chiaro, noi facciamo fatica a seguirlo: a giudizio di Gesù, in questa vita nessuno ha il diritto di ergersi a giudice del bene e del male. Nessuno ha quindi il diritto di decidere dove sta il bene (il grano) e dove sta il male (la zizzania). Ed ancor meno, nessuno ha il diritto di considerarsi in possesso del diritto di estirpare il male dalla radice (strappare la zizzania). Perché può capitare che, pensando di strappare la zizzania, in realtà si stia strappando il grano. Conseguenza ulteriore: nessuno può costituirsi come giudice degli altri.

Abbiamo disatteso questo insegnamento: infatti quante guerre di religione ci sono state, quanti morti per voler far trionfare il Bene, il Vero e il Giusto. Abbiamo subito dimenticato che prostitute e pubblicani (zizzania da estirpare secondo i puri ortodossi) precedono gli zelanti difensori dell’ortodossia nel Regno dei cieli (Mt 21, 31). Ecco perché toni da crociata, atteggiamenti violenti e intolleranti portano a far diventare zizzania quelle stesse menti eccelse che si ritengono purissimo grano. Basta pensare a come viene affrontato spesso ancora oggi il tema dell’aborto, del testamento biologico, dell’omofobia, eccetera.

Ancora oggi, pur vivendo una vita molto più sicura rispetto a quella dei nostri antenati, pur avendoci la Chiesa insegnato che Gesù ci ha salvati, non abbiamo ancora una vita che si possa definire salva. Salvarsi, oggi, vuol dire innanzitutto riuscire a dare un senso alla propria vita; vuol dire dare una risposta a come si fa a vivere un’esistenza piena e soddisfacente. Salvezza significa vita vera; uscire dalla condizione di morte.

L’Achille omerico si salvava cercando di vivere con una vita significativa, eroica, materiale, e non una vita banale, amorfa, prima di morire e finire come tutti nello Sheol. Invece Socrate, parlando dell’anima, aveva affrontato il problema della salvezza dell’uomo toccando il tasto spirituale anziché quello materiale.

Questo dimostra che fin dall’antichità, dunque, gli uomini hanno elaborato strategie di salvezza, che oggi si possono probabilmente riassumere in due grandi categorie:[13]

1) Quella del potere, che certamente tira fuori da noi la parte più istintiva, più animalesca. Nel branco comanda l’animale alfa, quello più forte e predominante. Questo istinto di predominio, di soddisfazione nel vedersi serviti, riveriti, abita ciascuno di noi. Lo stesso avviene nel campo del piacere: a tutti piace vivere in uno spumeggiare di forti e piacevoli emozioni, per cui per essere sempre al top si passa freneticamente da una all’altra: in realtà viviamo frammentini di piacere. Spesso, molti giovani scambiano per amore questi frammentini di piacere erotico. Oppure pensiamo al picco di energia ed entusiasmo, che però subito svanisce, che dà la droga. Evidente che scegliendo questa strada si sceglie una via che alla fine termina nell’insoddisfazione: il potere viene sempre insidiato e spesso scalzato; ogni piacere finisce troppo presto. Chi segue questa linea di vita la spreca normalmente in mille illusioni. Come un’ape passa da un fiore all’altro, un ragazzo pensa di essere libero saltando da una ragazza all’altra. Non si accorge che sta diventando schiavo: se uno s’abitua al piacere quotidiano ma momentaneo, non è capace di progetti a lungo respiro e diventa schiavo di un meccanismo infernale, che alla fine rende vuoti e insoddisfatti. Prevale il caos.

         2) La seconda proposta di salvezza, quella che viene da Gesù, è completamente diversa dalla prima, perché gioca sull’amore, e si stacca dal potere e dal piacere egoistico. Per Gesù questa via è l'unica che dà senso ad ogni vita. Gesù ci ha mostrato che la vera libertà non vuol dire andare in ogni direzione, cambiando di continuo. La vera libertà sta nel trovare la propria strada, e poi nel seguire fedelmente questo percorso. Gesù è liberatore (Redentore) perché ci dà la capacità di scegliere e poi di rimanere fedeli, uscendo dalle gabbie delle false libertà dell’avventura, dell’infedeltà. Anche la strada indicata da Gesù è una strada che porta alla salvezza, ma non è affatto semplice. Nel suo caso, questa linea di fedeltà lo ha portato ad accettare anche di finire la sua vita sulla croce, che allora va intesa come un grandioso esempio di mantenimento della rotta stabilita fino alla morte, e non un sacrificio indispensabile per la salvezza dell’umanità peccatrice[14].

Vista da fuori, al momento dell’ultima cena, sembra che la sua missione si stia concludendo con un totale e clamoroso fallimento:[15] la sua morte fisica, la dispersione dei suoi discepoli, e l’ennesima vittoria del potere costituito. Chi gliel’ha fatto fare andare in giro ad annunciare la Buona Novella se ancora una volta è il gioco dei potenti a vincere? Gli resta un’ultima possibilità: regalare la vita, accettando fedelmente fino in fondo la missione che il Padre gli ha affidato. È questo il suo esodo: la rinuncia alla logica del successo per la logica del dono, l’affermazione che la vita non vale per quanto di realizzazione esterna si riesce ad ottenere, per la misura di potere che si conquista, ma per la misura di dono di cui si diventa capaci. La sua è la libertà da questa prigionia che cattura la vita degli uomini e li spinge a diventare qualcuno, a credere che la vita ha senso solo quando è piena di successi. Gesù non è in quel momento immune dalla delusione, dalla paura, dalla solitudine. Sa che non può liberarsi dai nemici. Può solo mettere la sua vita, che sembra ormai senza senso, nelle mani del Padre con un atto di fiducia così completo, che rovescia la storia del mondo. Decisione difficilissima da prendere e da mantenere, che dimostra una fede incrollabile[16].

Eppure quella sera le due strade, la strada del potere dell’uomo e la strada dell’amore gratuito di Dio si dividono per sempre. Appare chiaro che le vecchie Scritture, persino loro, quando avevano cantato l’onnipotenza di Dio con le logore immagini della potenza umana, avevano sbagliato[17]. Sulla croce non muore il sogno di un uomo, non muore un uomo che espia colpe altrui per un misterioso volere di un dio tremendo e vendicativo, ma muore proprio l’immagine del dio onnipotente, quello che garantisce sempre la vittoria e il successo dei suoi adoratori. In effetti, oggi ci si è resi conto la parola greca Pantokràtor (che noi abbiamo sempre tradotto con Onnipotente) vuol dire colui che sostiene tutto con la sua mano, non colui che può fare tutto quello che vuole, come credono ancora molti credenti dopo aver studiato il vecchio Catechismo (art.26 del Catechismo Maggiore di Pio X), dimenticando che nelle Scritture Dio non viene mai definito onnipotente[18].

È evidente che la morte di Gesù può essere interpretata da due punti di vista: o Gesù è un peccatore castigato da Dio, e in questo senso la vedono i religiosi giudei, per i quali il crocifisso era un maledetto da Dio, e la conferma l’hanno nel fatto che Gesù non riesce a salvare sé stesso scendendo dalla croce; oppure dobbiamo necessariamente cambiare l’idea che ci siamo fatti di Dio, perché se si crede che Gesù ha seguito fedelmente il progetto di Dio, viene mostrata non l'onnipotenza ma la debolezza di Dio,[19] che non s'impone mai sulla libertà degli uomini, che assiste impotente al male che si verifica nella storia, che nega in radice la massima "non si muove foglia che Dio non voglia". Sono solo gli uomini che possono collaborare al progetto di Dio che possono lottare contro il male nella storia. Solo la risurrezione dimostra che Dio stava dalla parte di Gesù, e per questo Paolo afferma che vana è la fede se Cristo non è risorto (1Cor 15, 17).

«Che nessuno s’illuda: nel Vangelo non c’è traccia di vittoria secondo la visione comune del mondo. Nessun trionfo, nessun cavallo bianco, nessun acuto di tromba: neanche nelle pagine della Trasfigurazione, che per un attimo ti danno l’impressione di un trionfo di Gesù (tanto che gli apostoli dicono: ‘stiamo così bene, restiamo qui’). Anche la Trasfigurazione ha il segno della sofferenza e del fallimento. Ma proprio nella Trasfigurazione si vede che questo candidato alla sofferenza, alla morte sulla croce, è stato scelto da Dio[20]. La sua vita, allora, nonostante la sua morte raccapricciante non sarà un fallimento, perché niente di esterno può togliere il senso della vita. La vita ha un senso perché è nelle mani di Dio, e nessuno – qualunque cosa ci facciano – può rubare questo senso. È questa la speranza da cogliere nel Vangelo»[21]. Nella lotta per la vita fallisce tutto quello che se ne va da essa senza lasciare speranza: in Gesù si può vedere alla fine non il fallimento della sua vita, ma la fonte della nostra speranza[22].

L’onnipotenza di Dio, se vogliamo usare questo termine, si rivela in un altro ordine: quello dell’amore che si regala senza pretendere di vedere risultati, ma proprio per questo è sempre fecondo di nuovo amore; quello del chicco di frumento che sembra morire sotto terra, ma solo così genera frutto (Gv 12, 24). Luca (Lc 14, 27) parla di una croce che si porta ogni giorno, perché comunque vivere aprendosi ogni giorno agli altri costa fatica.

Invece, di fronte al problema della salvezza così come interpretato dalla Chiesa, il problema si complica, e di molto. Basta pensare al principio non negoziabile sopra richiamato secondo cui fuori della Chiesa non c’è salvezza. Il che è come dire non solo che il cristianesimo è superiore a tutte le altre religioni del mondo, ma anche che è l’unica vera religione. E se è l’unica vera religione, da qui deriva una conseguenza fondamentale: per assicurarsi questa salvezza era assolutamente necessario accettare una retta dottrina, sottomettersi a determinate norme e adempiere ai rituali prescritti. Naturalmente la retta dottrina, le norme stabilite e i rituali prescritti sono necessari per mantenere la comunione nella fede. Ma, in ogni caso, questo va fatto in modo che la comunione mai si converta in pretesto o argomento per produrre esattamente l’effetto contrario: la divisione, lo scontro e le mille fratture che hanno generato l’autoritarismo di coloro che, con la rigida argomentazione di mantenere unita la comunità, realmente dividono e provocano ferite e fratture che mai si curano e mai si risolvono[23].

Ora, se prendiamo atto che la Chiesa non ha mai formulato una definizione conciliare né ha fornito una nozione dogmatica, per cui non esiste un concetto preciso di salvezza che sia vincolante per la fede cristiana,[24] oggi si può senz’altro affermare che i cristiani non sono i depositari esclusivi della salvezza. La nostra conoscenza della salvezza è una delle tante. La nostra luce è una luce particolare, ma non l’unica ad esserlo: tutte le luci dell’arco multicolore che Dio offre sono speciali, e la nostra non è superiore alle altre. Le altre religioni non sono semplici partecipazioni alla salvezza cristiana. La fonte da cui nasce la nostra luce è la stessa da cui nascono tutte le altre luci, ma le altre luci non provengono dalla nostra, ma direttamente dalla fonte. Tutte le luci possono contribuire all’arcobaleno multicolore della luce totale, e ogni luce può arricchirsi accogliendo il contributo altrui. Smettiamo di accarezzare quel presupposto incosciente per il quale noi staremmo con Dio al centro[25]. 

Quella che in realtà la gente si aspetta dai seguaci di Gesù, dalla Chiesa, è un’alternativa a questa società che tutti intuiscono deve poter essere migliore; una modalità di vita diversa. Se la gente vede che il messaggio di Gesù, magari accolto a parole, non viene poi messo in pratica, o viene imposto con la violenza, rimane delusa e lo lascia perdere. E quanta responsabilità abbiamo noi in questa decisione della gente che ci vede andare a messa, ci guarda ma poi ci lascia perdere se vede che non siamo coerenti quando si esce dalla chiesa?

Forse oggi la Chiesa è in difficoltà proprio perché sempre meno gente crede alla sua versione della salvezza, dopo aver visto come si comportano i sedicenti credenti, e anche perché nel mondo orami interconnesso si sono aperte altre vie di salvezza.


NOTE

[1] Gnilka J., Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 1992, cap.8-Paolo, 85s.

[2] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 372.

[3]Schelkle K., voce sôtér, in Balz H. e G. Schneider, G., Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 2004.

[4] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 373.

[5] Vedi l’articolo Extra ecclesiam nulla salus, o anche no, al n.475 di ottobre 2018 di questo giornale.

[6] La dottrina della redenzione, da sōtēria che in greco significa “salvezza”. Se la cristologia ci spiega chi fu Gesù, la soteriologia ci dice perché Gesù venne al mondo.

[7] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 75s.

[8] Spong J.S., Incredibile, Mimesis, Udine, 2020, 174.

[9] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 419.

[10] Idem, 422.

[11] Idem, 382.

[12] Spong J.S., Incredibile, Mimesis, Udine, 2020, 101e 173-181.

[13] Chiesa S., Gesù il Salvatore, riflessioni per la Quaresima 1997, nella parrocchia di Madonna di Campagna (VB).

[14] Contra, ovviamente la dottrina ufficiale, a cominciare da san Paolo.

[15]  Si può comprendere la frustrazione e la disperazione di Giuda: la missione di Gesù sta concludendosi in un fiasco totale, ed egli l'ha capito: il popolo lo ha abbandonato perché è divenuto troppo rischioso seguirlo, la sinagoga lo ha dichiarato eretico, anzi blasfemo, i rappresentanti politici lo disprezzano, e i suoi non lo capiscono. Egli non ha lasciato nulla di durevole, nessuna istituzione, nessun patrimonio; non ha battezzato, né ordinato. Ha solo lasciato sé stesso quale silenziosa presenza dell’azione eucaristica (Panikkar R., La pienezza dell’uomo, ed. Jaca Book, Milano, 2000, 158).

[16] Questa è la vera fede; non credere ai dogmi e alle dottrine.

[17] Dice la Bibbia (Prv 16, 3): affida al Signore i tuoi cammini e così i tuoi piani si realizzeranno. Non è vero.

Scrive Bonhoeffer, richiamato in “Famiglia Cristiana”, n.41/2013,146, che Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi.

Moingt J., Dio che viene all'uomo, 1. Dal lutto allo svelamento di Dio, ed. Queriniana, Brescia, 2005, 435, fa notare che l'idea dell'onnipotenza di Dio non appartiene alla rivelazione di Gesù.

[18] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 1989, 99.

[19] La chiave di lettura del Vangelo di Luca (Lc 23, 35ss) è tutta in quell’inquietante affermazione della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il dover dipendere dagli altri.

Il potente, così come ce lo immaginiamo, è in effetti colui che salva se stesso, che ha i mezzi per essere soddisfatto senza avere bisogno degli altri. Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Per dimostrare di essere veramente Dio, Gesù deve mostrarsi egoista perché, nel nostro mondo piccino, Dio è il Sommo egoista bastante a se stesso, beato nella sua perfetta solitudine. Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell’uomo politico riuscito, ricco e sicuro, allora cerchiamo di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.

Invece il nostro Dio non salva se stesso, salva noi. I due ladroni sono la sintesi del diventare discepoli. Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso (di nuovo!) e noi, e me”. Concepisce Dio come un re di cui essere suddito. Però a certe condizioni, ottenendo in cambio ciò che desidera: una redenzione in extremis. Non ammette le sue responsabilità, semplicemente tenta il colpo. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda egoismo. Come - spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo? L’altro ladro, invece, è solo stupito. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua. Innocente e pura quella di Dio. Ecco l’icona del discepolo: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione e che il vero volto dell’uomo è la tenerezza e il perdono. Ma lo vogliamo davvero un Dio così?

Quando si parla di evangelizzazione non s’intende un generico annuncio di fede, ma l’annuncio di Gesù Cristo crocifisso. Noi annunciamo un Dio crocifisso, il che significa un Dio impotente (altro che onnipotente), apparentemente sconfitto, l’antipotere, sì che nessun capo della comunità può servirsi di questa immagine di Dio per dominare e controllare gli altri. Se Dio rivela il suo amore nella debolezza della morte in croce, allora chi nella chiesa ha un carisma più prestigioso non ha il diritto di dominare gli altri, ma solo il dovere di servire ed aiutare i più deboli, perché se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui (1Cor 12, 24-27): nessuno è inutile nella comunità dei credenti che formano il corpo di Cristo. C’è dunque una contrapposizione nel cristianesimo e c'era già ai tempi di Paolo quando ha scritto ai cristiani di Corinto che avevano la tendenza a dividersi in gruppi in nome del loro capo-corrente. Paolo denuncia questo fatto in termini severi: “Cristo è stato forse diviso?” L’identità del cristiano non dipende dal maestro spirituale, ma dipende dalla relazione vitale con Cristo, il quale è morto per tutti e ha fatto di tutti i battezzati una comunità sola, facendo sparire le divisioni fra giudei e pagani, uomini e donne. liberi e schiavi (Gal 3, 26-28) (Fabbris R., La Chiesa nel Nuovo Testamento, ed. Centro Diocesano di Pastorale Universitaria, Trieste,1997, Quaderno n.2/1992-1993, 79, 73 e 69s.).

[20] Schillebeeckx E., Per amore del Vangelo, ed. Cittadella, Assisi, 1993, 167: la trasfigurazione è un anticipo della resurrezione.

[21] Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, 39.

[22] Castillo José M., Teología Popular (III), ed. Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2013, 75.

[23] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 68.

[24] Idem, 372.

[25] Vigil J.M., Tomita L.E., Barros M., Per i molti cammini di Dio, vol. III, Pazzini, Villa Verucchio (RN), 2010, 181-184.