Tutto torna


di Miriam Camerini

L’ultimo Shabbat dell’anno ebraico: all’inizio della prossima settimana finisce il 5781 e inizia il 5782esimo anno “dalla creazione del mondo”, come ritualmente diciamo in questa occasione, non per negare conteggi storicamente più scientifici, ma per quella capacità tutta ebraica di vivere in diverse realtà contemporaneamente e senza compromettere sulla fedeltà ad alcuna di esse.

Un po’ come quando a una cena o a una festa io seguo tre o quattro conversazioni allo stesso tempo, senza perdere una parola di alcuna: tutto mi interessa e tutto vive nel suo mondo.

Lo scorso anno Rosh-Hashana (capodanno, letteralmente) era nella seconda metà di Settembre, un poco più “basso” (credo sia “alto” quando è presto rispetto a quello solare, ma è una cosa che dicevano le nonne, e andrebbe controllata), io tornavo a Milano essendone partita all’inizio di Marzo, pensando di stare a New York con il mio compagno di allora una decina di giorni per poi tornare ai lavori italiani: nello specifico il primo impegno era una bella residenza artistica a Venezia di quasi un mese. Saltata la residenza per la pandemia avevo deciso di non tornare in Italia, ma andare invece a Montreal, dove vive l’uomo con cui ero a New York. Credevo di starvi una settimana o due, tornare “appena tutto torna normale”.

Sappiamo com’è andata, “tutto normale” non è ancora più stato niente, io sono rimasta in Canada fino alla fine di luglio, quando ho trovato un volo per la Grecia, passato una decina di giorni al mare (quanto mi era mancato il mare!), da lì ho proseguito per la Germania e dalla Germania sono tornata in Italia.

A Rosh-Hashana sono tornata a Milano, per la prima volta a casa in quasi sette mesi: era stato emozionante, aveva il sapore antico di un romanzo pieno di avventure.

Una delle cose più sorprendenti del “tornare” è la sua prevedibilità: quando si torna solitamente si trova tutto esattamente com’era, o quasi: piccoli cambiamenti, percettibili solo a chi in quella casa vive o ha vissuto a lungo, sono lì a ricordarci che il tempo ha compiuto un giro.

Anche quest’anno sono partita per lunghi mesi, ma in modo un po’ più previsto e deciso, ancorché in maniera sempre piuttosto vaga.

Marsiglia, Parigi, Gerusalemme, Zurigo, pochissimi giorni a Milano, lo stretto necessario, poi il mare a Levanto, Genova, Salerno, Vicenza, il Veneto, Camaldoli, Ferrara, Bologna, Trieste, ancora il Veneto, questa volta in montagna, e poi Berlino e da lì Weimar.

Da Weimar sono venuta in treno direttamente a Viterbo, per un week-end appena di lavoro.

Da lì a Istanbul, da Istanbul in Datça, nel sud-ovest della Turchia, di nuovo finalmente al mare!

E ora?

Ora sono qua, con un nuovo anno che si apre davanti, pieno di speranze e promesse, di impegni e progetti, un po’ spaventata di non essere in grado di onorarli tutti. Con un anno che si chiude ricco di tantissimi incontri e moltissimi luoghi scoperti, di lavori diversi dai soliti, di solidarietà e aiuto nuovi.

L’ultimo Shabbat dell’anno lo trascorro a Istanbul, in una delle sinagoghe del quartiere Besiktas in cui sono ospite da amici; per pranzo vengo invitata a casa del rabbino americano che è qui da vent’anni assieme alla moglie e a molti figli nati tutti in Turchia.

Sono una famiglia Lubavitch, ossia di un gruppo chassidico che manda giovani coppie a popolare comunità ebraiche in giro per il mondo.

Quando chiedo loro perché sono qua, mi rispondono: “Perché ci è stato chiesto di venirci”; non fa una piega.

Oltre ai sei figli e figlie più giovani della famiglia, cioè quelli ancora in casa, e alla moglie, alla tavola di Rav Mendy siedono un giovane imprenditore ebreo turco, nato e cresciuto a Istanbul, e due giovani uomini - padre e figlio, ma la distanza fra i due è di vent’anni e sembrano fratelli - appartenenti a un’altra comunità chassidica, molto diversa per provenienza e usanze da Lubavitch: quella di Satmar (gli stessi di Unorthodox, per chi avesse visto la serie TV), che ha oggi il suo centro a Williamsburg, Brooklyn. I due sono in viaggio da New York verso Kiev da dove si recheranno in pellegrinaggio a Uman, città dell’Ucraina dove è sepolto il maestro fondatore di un altro gruppo chassidico ancora: Breslav. Rabbi Nachman di Breslav, considerato l’ispiratore di alcuni racconti di Kafka, è un rebbe chassidico importante e venerato da molti, che si recano sulla sua tomba durante il periodo dell’anno ebraico che sta fra il Capodanno e Kippur, il Giorno dell’Espiazione, dieci giorni dopo.

I due Satmar sono in viaggio verso la tomba del maestro, il padre ci è già stato, per il figlio quattordicenne è la prima volta: oggi è anche il suo compleanno e a tavola festeggiamo la sua emozione.

Si parla yiddish, con pronunce molto diverse perché i Lubavitch sono originari del nord, fra Russia e Paesi Baltici, mentre Satmar era una città dell’Ungheria.

Ricordiamo due parole yiddish che provengono dal turco: quella per copricapo, yarmalka e quella per pregare, daven, da dua, secondo alcuni. Quando esco sono un po’ frastornata, ma anche emozionata come ogni volta che incontro persone tanto diverse e interessanti.

Cammino nel sole del pomeriggio dello Shabbat – ancora alto – e mi dirigo a piedi giù per il parco di Macka fino al Bosforo, attraverso il ponte di Galata (dove un pescatore rugoso mi dice, in italiano: “Gallina vecchia fa buon brodo”: per un minuto considero l’ipotesi di offendermi, poi passo oltre), vado a farmi offrire the, baklava e halva per merenda al mercato delle spezie, visito un paio di moschee e poi proseguo sul mare fino al Fener Balat, quartiere greco sede del bel seminario di mattoni rossi che troneggia e scintilla nel sole delle sei di sera.

La zona è diventata molto trendy ed è piena di baretti e localini dove giovani turchi e qualche raro turista sorseggiano aperitivi e caffè sulle terrazze che guardano il mare.

Al tramonto i muezzin richiamano i fedeli di qua e di là dal Corno d’Oro alla preghiera, dall’Europa all’Asia, da Marmara al Mar Nero. Io inizio a tornare verso casa: lo Shabbat sta per finire e ho già camminato più di sette ore, oggi.

Riattraverso il Bosforo, il pescatore sfacciato non c’è più: sarà andato a pescare galline altrove.

Passo dalla torre di Galata, salgo il corso Istiklal, arrivo a piazza Taksim. Lì sono stanca, le stelle scintillano, la luna non c’è: sta infatti proprio finendo il nostro mese di Elul, che anche qui si chiama così. Non è più Shabbat, posso prendere un taxi, ma non ho soldi con me: fermo un giovane, l’unico che parla inglese, e gli chiedo se può aiutarmi a trovare un taxi e spiegare al suo conducente che dovrà aspettarmi sotto casa mentre salirò a prendere i soldi per pagargli la corsa. Il ragazzo è stupito del fatto che io sia a passeggio senza soldi né telefono. Per un momento sono tentata di spiegargli che era Shabbat quando sono uscita e non potevo prendere con me nulla, ma taglio corto e sorrido. Il ragazzo è gentile, dice che è felice di darmi lui le poche lire che servono e certo, mi accompagna a cercare un taxi: iniziamo a chiacchierare, si chiama Yussuf, gli chiedo da dove viene: “Palestina”, mi dice: “Hebron”. “Siamo vicini di casa!” esclamo felice: “Io sono nata a Gerusalemme, siamo vicinissimi!”. “Ah, ecco perché eri senza soldi e telefono: era Shabbat!” dice lui.

Lo saluto e salgo sul taxi, ci scambiamo i contatti: la prossima volta a Istanbul lo cercherò.

Foto di Paola Cazzaniga