Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano
Se agápe fagocita éros
di Stefano Sodaro
Foto di Basile Morin - tratta da commons.wikimedia.org
Questa domenica nelle chiese cattoliche la liturgia di rito romano prevede la lettura di un passo evangelico dal capitolo 6 di Marco, il cui verso 31, nell’originario testo greco, riporta testualmente: καὶ λέγει αὐτοῖς· Δεῦτε ὑμεῖς αὐτοὶ κατ’ ἰδίαν εἰς ἔρημον τόπον καὶ ἀναπαύσασθε ὀλίγον. ἦσαν γὰρ οἱ ἐρχόμενοι καὶ οἱ ὑπάγοντες πολλοί, καὶ οὐδὲ φαγεῖν εὐκαίρουν.
Se volessimo pronunciare le parole greche, il suono sarebbe più o meno il seguente: “kài lèghei autòis: Dèute hymèis autòi kàt idìan èis èremon tòpon kài anapàusesthe olìgon. Èsan gàr hòi erchòmenoi kài hòi hypàghontes pollòi, kài oudè faghèin eukàirun.”.
La traduzione invece è: “E disse loro: venite proprio voi in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’. Infatti erano molti coloro che andavano e venivano e non trovavano neanche il momento giusto per mangiare.”.
Il verbo greco usato per “mangiare” corrisponde, appunto, a φαγεῖν – “faghèin” -, da cui il nostro “fagocitare”.
Esiste una dialettica mai ricomposta – a tratti addirittura una vera e propria polemica, a volte invece una più raffinata discussione filologica – tra due concetti d’amore: uno, di senso comune e immediatamente afferrabile nei suoi comunque misteriosi contenuti di coinvolgimento unico, éros, ed un altro, invece, quasi un’invenzione terminologica neotestamentaria, che ad esso si oppone, o comunque porta ad esiti molto diverse, agápe. Un amore, quest’ultimo, meno turbinoso e turbolento, più “calmo”, più simile al “voler bene” che all’ “amare”. In effetti “ti voglio bene” è una cosa, “ti amo”, un’altra.
Il primo – eros – sostanzialmente inutile, volto solo ad esperimentare fortissime sensazioni di piacere. Il secondo, invece, - agape -, utile per far funzionare bene l’armonia dei sentimenti e delle priorità affettive, ordinandole in un quadro dove nessuno e nessuna toglie niente a nessuno e nessuna, ma tutti e tutte si ritrovano solidali nello stesso reciproco affetto, assai meno disordinato delle passioni di eros.
Eppure quello scarno versetto odierno dal vangelo di Marco riporta un invito del rabbi di Nazaret semplicemente a venire in disparte e a riposare. Un invito, anch’esso, in realtà abbastanza inutile: non è funzionale a null’altro che a far riposare i compagni (e del tutto verosimilmente pure le compagne) della vita errabonda di Gesù. “Riposatevi un po’.”. In un ἔρημον τόπον, “èremon tòpon” – un luogo solitario (un “eremo”…) -, dove stare da soli, senza intrusi, esattamente così come eros non tollera spettatori e terze presenze, mentre agàpe si immerge nella folla e vi si distingue per la sua benevolenza, predilezione, dedizione.
Di più. L’evangelista si cura di precisare che le persone attorno al Nazareno erano ormai nella materiale impossibilità di trovare un momento per “mangiare”, “faghèin”. Mangiare è attività del tutto necessaria, non solo utile, ma la devozione adorante e sublimante resta un po’ indispettita dalla concessione, che si permette l’evangelista, ad una annotazione, in apparenza, del tutto superflua dal punto di vista religioso. Che c’interessa che gli apostoli – o chi per loro e con loro – non avessero tempo per mangiare? Ma chi se ne importa!
E invece no. “Fàghein”, un “mangiare” che è in sé anche molto piacevole, oltre che necessario, si accompagna al riposo. Ed anche per l’amore erotico si ricorre comunemente al lessico del nutrimento. “Ti mangio di baci”, “ti amo tanto che ti mangerei”. “Ti mangio tutto”, o “tutta”. E mangiare l’amore e riposarsi disegnano un contesto di forte colorazione erotica.
Dunque non è affatto vero che vi sia una specie di guerra permanente tra eros e agape. Non, almeno, per l’estensore del Vangelo che convenzionalmente si indica come di Marco.
E però non esiste una riflessione teologica compiuta, né una spiritualità, né una liturgia, che si incarichino di mettere finalmente pace tra i due contendenti. Tra i due amori.
L’improvvisa accentuazione, non mediata da alcuna riflessione critico-teologica, sull’erotismo ha portato ad esplosioni – molto spesso devastanti – di emotività incontrollata in ambienti clericali sessuofobi. E la gigantografia di una malcompresa “carità” - traduzione, purtroppo, molto comune di “agape” - come sublimazione, per appunto, di ogni pulsione erotica, ha portato, d’altro canto, a quel rattrappimento dei sensi e dei sentimenti, spesso lamentato dall’attuale Pontefice.
Che fare? Dove muoversi? Dove cercare? Perché il terrore dello sbaglio può farsi paralisi e impedire di scandagliare qualunque ulteriore discesa nelle profondità dell’animo umano.
Bisogna fermarsi? Tornare indietro? Tornare ai “sani princìpi”, quelli di “una volta”? Quelli “sacri” e indiscutibili? Quelli “non negoziabili”?
Ecco. Anche no.
Scrisse molti anni fa Eugen Drewermann (proprio in Funzionari di Dio, sì, un volume che ha segnato un’epoca) che Gesù di Nazaret viveva l’amore ad un livello di intensità tale da non conoscere ancora la polarizzazione di monastero e matrimonio.
Già.
Ma tornare a quell’intensità è proprio la sfida evangelica, per chi ci crede.
Una sfida verso possibili approdi ancora lontani.
Buona domenica.