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Foto Diocesi di Cremona, per gentile concessione


Cremona, don Enrico Trevisi ordinato Vescovo di Trieste


di 

Stefano Sodaro

 

E così la Chiesa di Trieste torna a vivere. Torna a sognare, a sperare, ad amare. Pure – non sembri blasfemo – a credere.

Si dovrebbe aggettivare e specificare Chiesa “cattolica”, come a dire “altolà, piano e bene, mica questa cosa riguarda tutti”? In realtà anche no.

E perché?

Perché l’κκλησία – in greco, l’ekklesía – è semplicemente l’assemblea. Tutto qui.

Riduttivo? Altro temibile e terribile relativismo ecclesiologico in tempi di tremebondi presunti svarioni pastoralisti bergogliani davanti ai quali “silere non possum”?

La si pensi un po’ come si vuole e si preferisce. Fatto sta che la Chiesa delle origini si componeva – “semplicemente”, appunto – di sinagoga, ripetutamente frequentata, così come il Tempio, da un certo Gesù di Nazaret, e di case, “semplici” case, rieccoci qui, case dove abitavano uomini e donne. Non chiese.

Abbiamo paura degli assemblearismi? Chissà.

Il numero dei parlamentari, in effetti, lo abbiamo voluto ridurre.

Ma la Chiesa, pur “ekklesía”, non è un parlamento.

E non perché non si decida a maggioranza, anzi – il Conclave non è forse un’assemblea di elettori? -, ma perché non si fanno, in Essa, nella Chiesa, primariamente leggi di contenuto tecnico-giuridico. Ci si pone, piuttosto, dentro la Chiesa – con difficoltà invece dentro le chiese, quelle con la minuscola - in ascolto della Legge, che è faccenda completamente diversa, perché coincide con la Parola. Succede, nella Chiesa Cattolica, l’inverso di ciò che accade nelle assemblee parlamentari: le rivoluzioni si fanno dall’alto e non dal basso. Ma perché c’è, appunto, qualcuno che intercetta le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini doggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sapendo che esse sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore

Le nostre vite o sono assembleari, cioè capaci di spendersi dentro – e non fuori – la comunità composta da chi ci vive attorno nella concretezza feriale di ogni giorno, oppure sono povere esistenze individuali, “private”, “privatistiche”, con un tasso di solitudine che fa star male.

Ma c’è un’altra meraviglia delle assemblee. L’assemblea mette a tacere i profondismi vocazionali, un tempo esaltati in casa cattolica al punto da pensare che o la va o la spacca, o quella mia vocazione di prete, frate, suora si realizza così come mi aspetto e si aspettano, oppure ho fallito clamorosamente. Di nuovo: invece no. Ma manco per niente.

Il Vescovo, appena ordinato, di Trieste ha forse avuto una “vocazione episcopale”? Viene da ridere solo a pensarci.

Ambrogio fu ordinato vescovo a clamor di popolo, lo volesse oppure no: non era questo che importava al “santo e fedele Popolo di Dio”, che necessitava oggettivamente di un Pastore, volente o nolente che egli fosse.

Naturalmente oggi nessuno, e nessuna, otterrebbe un incarico ministeriale di guida religiosa contro la propria volontà, si finirebbe addirittura davanti a qualche giudice molto terreno. Ma noi – sempre in casa cattolica – siamo caduti nell’esatto opposto: solo chi sente la vocazione può farsi prete, frate e suora. Invece proprio no. E siamo al terzo no, contro derive ideologiche che hanno purtroppo segnato secoli e millenni.

È la Chiesa – l’Assemblea appunto – che decide.

E come decide – non certo per assecondare una vocazione personale – chi farà il Vescovo di una Chiesa locale, così dovrebbe anche decidere, senza troppa melassa vocazionale, chi farà il prete e il diacono.

Insomma il ministero episcopale riconduce alle origini “oggettive” del ministero di presidenza nella Comunità di Gesù confessato come il Cristo. Il titolo di una famosa opera di Edward Schillebbeckx è emblematico al riguardo: “Il ministero nella Chiesa. Servizio di presidenza nella Comunità di Gesù Cristo”. Una Chiesa – questa volta dobbiamo precisare: “cattolica” – senza vescovi non può esistere, mentre senza preti teoricamente anche sì, perché il ministero del prete, così come quello del diacono, esiste solo perché esiste un vescovo. Siamo ai rudimenti dell’ecclesiologia del Vaticano II.

Qualcosa cambia per sempre nella Chiesa di Trieste.

C’è un nuovo Vescovo, appena ordinato sacramentalmente, che non parla di valori negoziabili, che non si è messo a puntare il dito delle reprimende contro aborto, divorzio, gender, don Gallo, Comunità di Base, i pretonzoli di strada, i prodotti bio che sarebbero da condannare, e bla bla bla, tutta una retorica che annoia, fa addormentare, non produce alcun frutto, non fa silenzio davanti alla Parola la cui forza pretende di ingabbiare.

Dice, invece, nel suo primo saluto da vescovo mons. Enrico Trevisi: «Benedetto sei tu Signore, per la tua Chiesa qui riunita, tuo popolo al servizio di tutti i popoli. Popolo bisognoso della tua cura e della tua tenerezza, della tua misericordia e del vigore del tuo Spirito

(...) al popolo di Dio, di Trieste e di Cremona, chiedo di essere coraggiosi nel collaborare gli uni con gli altri e fantasiosi nell’incarnare il Vangelo; chiedo di accompagnarmi a cogliere la presenza di Dio dentro le ferite della storia passata e presente.»

Don Enrico Trevisi è il Vescovo che ha voluto per Trieste Papa Francesco, non un altro papa.

“Grazie a Dio”, verrebbe subito da aggiungere.

Il nuovo Vescovo di Trieste compirà sessant’anni il prossimo 5 agosto.

Per la Chiesa di Trieste (questa volta senza aggettivi), sono all’orizzonte almeno quindici anni di Primavera dello Spirito.

Buona domenica.