Foto di Gianni Passante

The Rabbi is in


Dopo Sukkot


di Miriam Camerini


Un mese fa era venerdì ed ero sulla spiaggia di Levanto, tornata da molte settimane di fine estate e lavoro intenso per festival e piazze d’Italia; guardavo il mare. Pensavo all’anno ebraico che si sarebbe concluso di lì a due giorni appena, e a quello che stava per incominciare. Avevo comprato dal rigoglioso verduraio di Via Garibaldi dei funghi porcini e li avevo messi in padella per cenare con mia zia Mara e festeggiare con lei l’arrivo dell’autunno e di quell’ultimo Shabbat dell’anno, un anno fra i più difficili che mi sia finora capitato di vivere, che avrei salutato senza rimpianti, pronta ad abbracciare il nuovo.

Avevo deciso che avrei trascorso le feste ebraiche dell’autunno facendo esattamente ciò di cui avevo voglia, cioè viaggiare per le città d’Europa che amo e visitare amiche e amici che non vedevo da tempo. Poter frequentare una sinagoga, partecipare a una funzione religiosa nella quale mi sento coinvolta, in cui non sono – in quanto donna – relegata alle ultime file, alla “piccionaia” del matroneo, era però il vero e principale obiettivo che mi ero data. Lo scorso anno avevo trascorso le feste di Kippur e di Sukkot in Nord America, a Montreal prima e a New York poi, danzando con i rotoli della Torah in una palestra dell’Upper West Side, proprio vicino al Parco a Simchat Torah, il giorno in cui si termina la lettura dei primi cinque libri della Bibbia e si danza di gioia con il rotolo vestito a festa come fosse uno sposo. Avevo portato un caro amico, non ebreo, ad assistere al rito e – forse per il suo distinto e serio abbigliamento da professore universitario, molto italiano, per quell’aria un po’ straniera in tutti i sensi, con la sua giacca di lana e i pantaloni di velluto – era stato immediatamente onorato con l’invito a portare uno dei rotoli, danzare con esso mentre gli altri attorno cantavano e battevano le mani. Anche io, dalla parte delle donne, avevo danzato con un piccolo Sefer vestito di bianco, che avevo poi riposto nel suo armadio, finito l’ultimo giro e l’ultimo canto. Ci eravamo divertiti poi a camminare per l’Upper West Side pieno di sinagoghe e di ebrei più e meno giovani, che camminavano in gruppo, spostandosi da una festa all’altra, da una cena a una funzione religiosa. Avevamo finito la serata bevendo vino kashèr nella capanna, nella Sukkà allestita sul marciapiede da un ristorante kashèr che aveva offerto ai suoi avventori, per tutta la settimana precedente, di onorare la prescrizione biblica consumando i propri pasti in una capanna di frasche, portando un po’ di Medioriente e di Sinai fra i marciapiedi di West Broadway e Columbus Ave. Un picnic a Central Park aveva onorato il Sabato dell’inizio della lettura della Torah nell’ultimo mio giorno nel Nuovo Mondo: in principio Dio creò il cielo e la terra. La settimana precedente, Sukkot, avevo pranzato con alcuni amici nuovi nella loro sukkà, capanna, costruita per la festa fra due vicoli pedonali di un quartiere residenziale di Montreal, fra le foglie d’acero già autunnali e gli scoiattoli curiosi.

In tutte queste esperienze, ciò che per me era stato fondamentale era il rendermi conto, ancora una volta e sempre di più, che non sono più interessata al ruolo che l’ebraismo ortodosso - come è praticato nella comunità in cui sono cresciuta – propone alla donna, cioè nessuno. Esistono e fioriscono, in Nord America, in Israele e pian piano anche in Europa, comunità indipendenti, piccoli gruppi o sinagoghe già ben stabilite, minyanim – gruppi di preghiera – che restano dentro all’ortodossia per quanto riguarda l’osservanza dei precetti e l’approccio allo studio della Torah, come per la forma e i testi e la lingua della liturgia, ma che lavorano da dentro la tradizione – è questa la novità - per fare spazio alle donne all’interno della funzione religiosa, della vita della sinagoga, della lettura e dello studio dei testi biblici e di quelli rabbinici. Se questo è per me importante ogni giorno, e da un Sabato all’altro, diventa fondamentale nel periodo delle feste d’autunno, da Capodanno a Kippur, da Sukkot a Simchat Torah: lì l’esclusione da ciò che per quasi un mese è la vita pulsante della comunità, della famiglia e di ogni ebreo o ebrea è diventata per me intollerabile fino a farmi arrabbiare, intristire e preoccupare all’avvicinarsi del mese di Tishre, invece che rallegrarmi nell’attesa di un periodo che dovrebbe essere di intensità spirituale per i “giorni del giudizio” seguita da gioia pura per l’anno iniziato e il “raccolto” finito. Uno degli insegnamenti più importanti delle ricorrenze ebraiche di questo mese, e forse di tutti i mesi, è però quello della responsabilità individuale e collettiva, per cui ognuna di noi ha il dovere e il diritto di “riparare il mondo” e di farlo per sé e anche per gli altri. Ognuno può e deve scegliere dove può sentirsi a suo agio e dove può dare di più alla comunità, essere sé stesso nella miglior versione possibile per star bene con gli altri. Parlando con Emma, la mia amica fra poco psicologa, a Parigi l’altra sera in un caffè, dicevamo che l’ebraismo è libertà: “Libertà dentro a 613 precetti?” le chiedevo. Forse l’ebraismo è questo: una continua giostra fra regola e libertà, una tensione collettiva e personale che aspira a trovare l’equilibrio perfetto tra il devo e il voglio, ma che a ben guardare funziona benissimo: le regole e i precetti dell’ebraismo liberano la persona, costringendola ad assumere responsabilità.


Le belle bandiere, Teatrino Franco e Franca Basaglia - Trieste, 2 ottobre 2022 - foto di Gianni Passante

Foto, qui, di Stefano Sodaro durante il Concerto Caffè Odessa tenutosi a Matera il 19 maggio 2022 e durante la rappresentazione Le Belle Bandiere, tenutasi al Castello di Casalgrande (RE) il 7 luglio 2022.

Foto di Stefano Sodaro, spettacolo Le Belle Bandiere, Trieste - 2 ottobre 2022