L’eremita coniugato, o coniugata
Il canone 603 §1 del Codice di Diritto Canonico riconosce la vita eremitica come forma di vita consacrata, vissuta da chi si dedica alla lode di Dio e alla salvezza del mondo attraverso la solitudine, la preghiera e la penitenza. Questa formulazione, volutamente essenziale, apre uno spazio interpretativo che consente di pensare l’eremitismo al di fuori degli istituti religiosi, e persino al di fuori del celibato.
Il presente editoriale propone una lettura del canone 603 §1 che considera la possibilità di una vocazione eremitica personale vissuta da una persona sposata, il cui coniuge non partecipa alla condizione eremitica. Non si tratta di una coppia contemplativa, né di una vocazione condivisa, ma di una figura singola che vive la propria solitudine spirituale all’interno di un vincolo matrimoniale.
Il testo del canone 603 §1 è il seguente:
“La vita eremitica, come forma di vita consacrata, è vissuta da coloro che, nel loro isolamento, nella preghiera e nella penitenza, si dedicano alla lode di Dio e alla salvezza del mondo.”
Questa definizione non impone né la vita comunitaria né l’appartenenza a un istituto religioso. Non menziona il celibato, né richiede la professione pubblica dei consigli evangelici (prevista invece dal §2). Si tratta di una descrizione fenomenologica, che riconosce una forma di vita spirituale nella sua essenza, senza sovrastrutture.
L’eremita coniugato è una persona che vive una vocazione alla solitudine, alla preghiera e alla penitenza, pur essendo unito in matrimonio. Il coniuge non condivide questa vocazione, né la ostacola: semplicemente, non vi partecipa. La vita quotidiana può essere condivisa in parte, ma la dimensione spirituale dell’eremitismo resta personale e non comunicata.
Questa figura non è una contraddizione, ma una possibilità concreta che il canone 603 §1 non esclude. Essa testimonia che la vocazione alla solitudine può coesistere con legami affettivi e civili, senza che questi vengano negati o dissolti.
La solitudine dell’eremita coniugato non è isolamento sociale, ma scelta spirituale. Essa si realizza nella discrezione, nella gestione del tempo, nella separazione degli spazi interiori. Il coniuge può essere presente fisicamente, ma non spiritualmente. La convivenza non è condivisione, ma rispetto reciproco.
Questa condizione richiede maturità, equilibrio e chiarezza. Non è una fuga, né una forma di superiorità spirituale, ma una modalità di vivere la propria interiorità in modo radicale, senza imporla all’altro.
La proposta dell’eremita coniugato solleva alcune questioni:
- È compatibile con la visione ecclesiale del Vaticano II, che valorizza la vocazione battesimale di ogni fedele?
- Può essere riconosciuta come forma di vita spirituale autentica, pur non essendo istituzionalizzata?
- Quali criteri possono aiutare a distinguere una scelta autentica da una forma di isolamento problematico?
La risposta non può essere normativa, ma pastorale e teologica. La Chiesa è chiamata a osservare e comprendere le forme di vita spirituale che emergono nel vissuto concreto dei fedeli, senza irrigidirsi in modelli predefiniti.
L’eremita coniugato invita a pensare l’eremitismo non come separazione dal mondo, ma come orientamento interiore. Non è necessario vivere in una grotta o in un eremo: la solitudine può essere vissuta nella città, nella casa, nel quotidiano, purché sia autentica e coerente.
Questa figura non cerca riconoscimenti, né ruoli ecclesiali. Vive la propria vocazione nel silenzio e nella sobrietà, senza rivendicazioni. È una forma di spiritualità non spettacolare, ma profonda.
Nel contesto della riflessione sull’eremitismo laico coniugato, la figura di Allia Potestas può essere evocata non come modello, ma come contrappunto simbolico. La sua epigrafe, che la descrive come vissuta tra due uomini, ha suscitato interpretazioni moralistiche che la escludono dal mondo cristiano antico. Tuttavia, una lettura più libera e attenta alla pluralità delle esperienze spirituali suggerisce che la sua dimensione erotica, pur non convenzionale, non escluda una possibile appartenenza cristiana.
Una suggestione ulteriore riguarda l’abbigliamento dei suoi due amanti, probabilmente vestiti con abiti romani come la paenula o la casula, che in seguito furono assunti sacralmente tra i paramenti liturgici cristiani. Questo dettaglio apre una riflessione sulla continuità simbolica tra eros e sacro, tra la corporeità vissuta e la corporeità ritualizzata. La casula, oggi indossata dai presbiteri nella celebrazione eucaristica, potrebbe avere radici in un contesto relazionale e quotidiano, non separato dalla vita reale.
Nel contesto dell’eremitismo laico coniugato, anche l’abbigliamento assume un significato non secondario. L’eremita, pur non appartenendo a un ordine religioso né esercitando un ministero liturgico, vive una vocazione personale che può esprimersi anche visivamente, senza cadere né nel clericalismo né nell’anonimato.
L’abito può essere quotidiano ma trasfigurato, semplice ma evocativo. In questo senso, si può pensare a una laicizzazione dell’abito liturgico, dove elementi come la casula o la tunicella vengono reinterpretati non come paramenti, ma come richiami simbolici a una tradizione spirituale incarnata.
L’obiezione secondo cui una persona sposata, genitore e magari anche impegnata professionalmente, non possa vivere una vocazione eremitica, ripropone uno stereotipo ecclesiale infondato, già ampiamente smentito dalla prassi delle Chiese orientali cattoliche, dove i presbiteri sposati vivono pienamente il ministero sacerdotale, la vita familiare e una profonda spiritualità personale.
Questa obiezione, inoltre, non coglie il senso profondo del canone 603 §1, che non prescrive uno stato di vita, ma descrive una forma spirituale: isolamento, preghiera, penitenza, lode di Dio e salvezza del mondo. Nulla in questo paragrafo esclude che tali elementi possano essere vissuti da un laico, da un coniugato, da un genitore, da un lavoratore.
Anzi, si potrebbe dire che il canone 603 §1 descrive la vita cristiana nella sua radicalità, indipendentemente dallo stato di vita. In questo senso, il monachesimo delle origini non era un’eccezione, ma l’analogatum princeps del cristiano stesso.
La figura dell’eremita coniugato, alla luce del canone 603 §1, rappresenta una possibilità reale e significativa per il nostro tempo. Essa mostra che la vita spirituale può assumere forme nuove, non previste dai modelli tradizionali, ma coerenti con la visione ecclesiale del Vaticano II, che valorizza la libertà, la responsabilità e la pluralità delle vocazioni.
Questa proposta non chiede approvazione, ma attenzione. Non cerca istituzionalizzazione, ma riconoscimento discreto. È un invito a pensare la spiritualità come spazio personale, vissuto con rigore, rispetto e apertura.