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L’anima di Gesù


di Dario Culot

Cristo morto, di colore, vegliato da una pia donna - Chiesa di Sant’Onofrio dei Vecchi, Napoli – foto tratta da commons.wikimedia.org

Ancora oggi ci vien detto che abbiamo ricevuto direttamente dal Signore un dono prezioso: l’anima[1] immortale. Ora, se ogni uomo è composto da anima e corpo, e se Gesù era vero uomo, necessariamente anche lui era composto da anima e corpo, e questo è effettivamente l’insegnamento ancora impartitoci fino al papa emerito [2].

Ma se è vero che nessuno ha mai visto Dio, è anche vero che nessuno ha mai visto un’anima,[3] che è quindi solo un’idea, esattamente come Dio.

C’è poi da dire che anche su quest’idea la Chiesa ha a lungo discusso, in particolare nei primi secoli; soprattutto in Oriente veniva da molti negata in Cristo la presenza di un'anima umana, sostituita dal Logos divino nella funzione di dirigere il corpo. Altri invece sostenevano che soltanto Dio può salvare l’uomo dal peccato e dalla morte assumendo in sé l'umanità. Ma per essere operante, tale assunzione doveva essere intrinseca e strettissima: questo non poteva avvenire se Cristo non fosse stato un uomo completo anche di anima. Del resto, poiché Adamo aveva peccato integralmente con l'anima e col corpo, Cristo, per poter redimere l'uomo dalle conseguenze di questo peccato, ha rivestito anche lui un'umanità completa, cioè anima e corpo.

Ora, prima di perdersi in tutte queste dotte disquisizioni sembra necessario affrontare un problema a monte: esiste veramente nell’uomo questo dualismo di anima e corpo? Sappiamo, infatti, che questa dualità separabile anima-corpo è un concetto tipicamente occidentale, anche relativamente moderno, mentre non è né conosciuto, né accettato in moltissime altre culture che si basano su un pensiero più unitario. In altre culture, cioè, l’uomo viene pensato come unità: c’è un unico principio vitale per cui tutto esiste, dal filo d’erba, all’animale, all’uomo. Se il principio vitale viene meno, l’erba, l’animale o l’uomo muoiono[4]. Sotto questo influsso culturale, oggi, anche da noi in teologia, più di qualcuno comincia a sostenere che ciò che sopravvive al momento della morte biologica non è una parte dell’uomo (l’anima immortale), ma l’intera sua identità umana nella sua nuova condizione di esistenza, libera da ogni forma di limitazione spazio-temporale[5].

Non è neanche facile rispondere come e perché è nata quest’idea dell’anima immortale. Forse l’idea di questo dualismo, di due realtà distinte, cioè di un corpo sicuramente mortale (visto che tutti potevano vedere il suo disfacimento dopo la morte) e di un’anima dichiarata immortale, è nato da una triste constatazione: nasciamo per vivere, ma poi tutti moriamo. Ma allora che senso ha la nostra vita? È come se ci sentissimo in credito di qualcosa, qualcosa che – al momento della morte - la vita doveva ancora darci. Perciò abbiamo come l’impressione che la parte migliore di noi sia ancora nascosta, non si sia ancora realizzata. Intuiamo che le nostre possibilità vanno ben oltre ciò che siamo. Possibile che questa energia nascosta non possa avere altri sbocchi? Da qui l’idea che in noi ci deve essere un’essenza diversa dal corpo che non si dissolve con la morte. Se diciamo che tutto finisce con la morte ci sentiamo in qualche modo defraudati di qualcosa.

L’idea che Dio non possa permettere di essere defaraudati della vita era nata in Israele in tempi abbastanza recenti[6]. Quando il re Antioco IV Epifane impose sacrifici pagani ai giudei (168 a.C.), Mattatia[7] provocò una ribellione armata degli ebrei che non tolleravano di veder la loro religione amalgamata ad altre religioni politeiste con la forza, e vedevano questa imposizione come una persecuzione religiosa. La violenta repressione di re Antioco causò ovviamente molte vittime, e conseguentemente si cominciò a pensare - a livello teologico - che questi morti fossero dei martiri ai quali era stata tolta ingiustamente la vita. Gli ingiustamente uccisi (per la loro obbedienza all’unico vero Dio) dovevano per forza essere richiamati in vita, perché a torto essa era loro stata tolta, e si sapeva che Dio era infinitamente giusto. Gli ebrei pensavano però a una risurrezione come ritorno alla vita terrena di prima, ma non parlavano di anima. Invece, in precedenza, immaginavano la morte come un lungo sonno (2Sam 7, 12: Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri…). Ai tempi di Gesù, a differenza dei farisei, i sadducei ancora non credevano alla risurrezione (At 23, 8).

L’idea di anima ci è giunta invece dalla Grecia, ma nel passato più lontano neanche nell’antica Grecia si pensava all’esistenza di un'anima immortale capace di sopravvivere alla morte dell’uomo: dopo morto il corpo del defunto restava un'ombra, fumosamente impalpabile, che pur avendo le sembianze dell'uomo vivo, poteva solo vagare angosciata nel regno delle ombre (cfr., ad es.  Omero[8] – siamo nell’VIII secolo a.C., al cap.11 dell’Odissea, quando Ulisse scende agli inferi). L’uomo era considerato dagli antichi greci un essere mortale che non può risorgere. In Omero il termine psichè[9] non significava ‘anima’ nel senso che noi oggi intendiamo, ma significava ‘respiro’ qualcosa che caratterizza ogni singolo individuo vivo e che abbandona il corpo, fuoriuscendo dalla bocca, quando si esala l’ultimo respiro.

Dunque, quella che noi– sotto l’influsso della filosofia greca - abbiamo in seguito chiamato anima, non era tale nell’antichità. Per la Bibbia l’uomo è un essere vivente nella sua carne, vivente nella sua totalità, e non esiste un’anima separata e distinta dal corpo. Infatti, nella Bibbia ebraica originale, la parola che verrà più tardi tradotta con psichè nella Bibbia greca dei 70, e anima nelle nostre Bibbie, è nefeš, che significa “vita” e ciò che scorre con la vita. Ad es., in Levitico 24,18 si legge che chi percuote a morte un capo di bestiame dovrà risarcire nefeš per nefeš che chiaramente non sta a significare anima per anima, ma vita per vita. Così, infatti, si legge della traduzione della Bibbia di Gerusalemme. In Deuteronomio 12,23, si legge che il sangue è la nefeš. Si compie cioè un’identificazione sangue e vita, il che spiega la prescrizione enunciata in Levitico 17, 10s. ove si vieta il consumo di sangue, essendo chiarito che la nefeš della carne sta nel sangue. Si era partiti dalla constatazione visiva: se uno si dissangua, muore. La celeberrima frase di Sansone: «Che io muoia con tutti i Filistei!» (Gdc 16,30) porta nel testo greco la parola psichè, ma nell’originale testo ebraico di nuovo c’è la parola nefeš, e quindi “muoia la mia nefeš con tutti i filistei = perda io la vita, il mio sangue, con tutti i filistei”.

Corollario teologico biblico: in mancanza di anima responsabile della condotta di ogni singolo individuo, non essendoci neanche alcuna anima da salvare o condannare, si può anche capire perché nella Bibbia vien detto che le colpe dei padri ricadranno sui figli per varie generazioni,[10] cosa che per noi suona assurda.

Dunque questa idea di un’anima nell’uomo viene dalla cultura greca. Questo insieme di due parti separabili, fra le quali vige comunque una specie di accordo, si trova chiaramente esposto, per la prima volta, in Platone (circa 428-347 a.C.). Questo filosofo greco (in Fedone, XXXVIII d), di fronte alla limitatezza e corruttibilità del corpo cercava un base incorruttibile e duratura su cui fondare la conoscenza universale, che doveva essere definitiva ed eterna. Nella discussione sull’anima, Socrate aveva spiegato perché, secondo lui, l’anima sopravvive alla morte del corpo. Quindi, ben prima di Cristo già si discuteva se l’anima fosse divina o meno, eterna o temporale destinata a dissolversi.

Gesù ha in seguito portato questa grande speranza di continuare a vivere dopo la morte (vincendo così la stessa morte) garantendoci il compimento della vita. Per Gesù, il nemico del Dio vivente che sempre crea e genera vita, non è il peccato: è la morte; e la Buona Novella è che Cristo sconfigge la morte offrendoci una vita indistruttibile (cd. eterna). Gesù porta la buona notizia che non siamo nati per morire, ma per essere Figli di Dio. Non avendo avuto Gesù altro scopo nella vita che quello di comunicare vita agli altri, perché così fa – a suo dire - anche il Padre (che è il Dio della vita e non della morte), ci viene assicurato che, quando uno muore, Dio lo sottrae alla morte. La Buona Novella ci dice che la morte non ferma la vita. Ma neanche Gesù ha parlato espressamente di una distinzione fra anima e corpo.

Più tardi, nella Chiesa, è riemersa l’idea platonica dell’anima immortale, ormai consolidatasi nella cultura greca, però è stato cambiato il senso originario: in Grecia l’anima serviva per la conoscenza. Nel cristianesimo sarà sant’Agostino[11] a utilizzare questo dualismo platonico, ma con una finalità del tutto nuova: l’anima non serve più per conoscere, bensì per salvarsi, visto che Gesù ha detto che la vita continua dopo la morte. Noi abbiamo allora pensato che il corpo corruttibile imprigioni l’anima incorruttibile dove subisce una specie di pena. Questa nuova idea, sviluppata da Agostino, si è consolidata nel cristianesimo giungendo fino ai giorni nostri.

La religione ha privilegiato l’interiorità come salvezza (l’anima rispetto al corpo), mentre il corpo non aveva grande interesse per la salvezza, ma solo per il peccato. La religione ha dunque preferito accompagnare le persone verso la perfezione dell’anima e la santità, mentre ha guardato sempre con estremo sospetto il corpo materiale.

E mentre per i greci l’identità dell’uomo è il prodotto del riconoscimento altrui (al bambino si dice: “Sei buono, sei cattivo” e questo incide sulla sua personalità), sì che il sociale si pone in quella società prima dell’individuo, con l’anima individuale che deve salvarsi singolarmente sant’Agostino ha di fatto affermato la superiorità dell’individuo rispetto alla società. La cosa più importante è la salvezza dell’anima, che è strettamente individuale perché esclusiva del singolo individuo[12]. Ne consegue che, nella visione cristiana, la società non deve perder tempo a interessarsi del bene comune della collettività: basta che tolga gli impedimenti alla salvezza dell’anima individuale. Ricordiamoci di come ancora papa Benedetto XVI parlando dei principi non negoziabili attaccava le eventuali leggi dello Stato che li contrastavano, per il fatto che ostacolavano la salvezza dell’anima del singolo.

Ricordiamoci anche che così la religione si fonda su due pilastri: bisogno di protezione (salvezza) e al tempo stesso paura della punizione perché si è peccato, cioè si è violata la legge divina[13]. Questo pensare per prima cosa alla salvezza della propria anima, calcando quindi sull’individualità, ha però portato anche a conclusioni estreme ed eccessive, e nel nostro mondo occidentale ha sicuramente contribuito all’individualismo esasperato di cui oggi tutti si lamentano. L’individuo non si interessa più della comunità, del mondo, ma al più deve essere il mondo a occuparsi dell’individuo, dei suoi diritti[14]. C’è allora da chiedersi quanto il cristianesimo abbia contribuito a questa mentalità individualistica oggi imperante, perché proprio questo suo insistere sull’individuo ha portato dapprima a disinteressarsi degli altri, della materia (e quindi del mondo);[15] oggi ci si disinteressa anche di Dio. Il tragico dell’egoismo individuale è che cerca di accumulare tutti i vantaggi per sé e scaricare tutti i costi sugli altri.

Curioso anche notare che, fino a Freud, nessuno aveva mai parlato delle malattie dell’anima,[16] per cui quando la psicanalisi ha cominciato a sostenere di poter curare le malattie dell’anima (anche se non conosceva e tuttora non conosce le cause delle malattie psichiche[17]) è stata subito combattuta dalla Chiesa. Parlare di malattia dell’anima escludeva che essa fosse incorruttibile, cosa che invece era stata insegnata per secoli.

Ma a questo punto emerge in tutta linearità che, con una simile finalità di salvezza individuale, a Gesù non serviva minimamente un’anima. Gesù uomo, infatti, non aveva sicuramente bisogno di salvezza individuale.

                                                                                                                               (continua)

 



NOTE

[1] Il termine viene, tanto per cambiare, dal greco: ánemos, che significa soffio, vento (Dizionario etimologico della Lingua italiama Zanichelli, Bologna, 2015).

[2] Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008, 28.

Ma nello stesso senso già i Concili di Efeso del 431 e di Calcedonia del 451. Cristo ha un'anima che è stata creata (K. Rahner, Saggi di cristologia e di mariologia, ed. Paoline, Roma, 1965, 173). P. Casaldàliga e J. M. Vigil, La spiritualità della liberazione, ed. Cittadella, Assisi, 1995, 20. Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008, 28 e 211: come l’uomo è unità di corpo e anima anche Gesù aveva sicuramente un’anima umana. Idem Parente P., L’Io di Cristo, ed. Morcelliana, Brescia, 1951, 66. Anche secondo l’art. 83 del Catechismo Maggiore di S. Pio X, il Figlio di Dio si è fatto uomo prendendo un corpo e un’anima, come abbiamo noi, e poi sappiamo che l’anima vive in eterno (art.52). Curtaz P., La festa dei defunti, in “BenEssere”, nov. 2023, 114. 211.

[3] Il metallo dell’anello è materia. Ma l’idea non ha bisogno della materia. L’anello è reale nella mente, ma non deve esistere per forza. Nella mente non reca fastidio. L’anello può continuare ad esistere anche dopo che l’oggetto fisico è stato sepolto, o portato lontano. La mente traduce la forma in ricordo, significato, conoscenza. Non ci serve l’oggetto di metallo per custodire l’anello nel nostro bagagliaio di conoscenze: l’oggetto continuiamo a possederlo solo nella mente (Doody M., Aristotele e la Montagna d’Oro, Sellerio, Palermo, 2021, 294). Si può tranquillamente anche dire che, più che la materia, sono le idee ad aver fatto progredire l’uomo.

[4] Ad es. così avviene nella cultura cinese, leggasi il saggio di Pisu R., Né Dio né legge, Laterza, Bari, 2013. Anche la Bibbia vede l’uomo come un tutt’uno senza separazione di anima e corpo (Schillaci G, Cosa succede a corpo e anima subito dopo la morte?, “Famiglia cristiana” n. 10/2023, 10).

[5] Ancora G., Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia, 2013, 324.

[6] Senza figli, non si creava alcun futuro, e quindi si era maledetti. Essere benedetti voleva dire morire vecchi e sazi di giorni (Gn 25, 8) ed essere sepolti perché ci doveva essere un luogo della memoria. All’inizio non si pensava ad alcun tipo di risurrezione.

[7] Sacerdote ebreo, iniziatore del movimento detto dei Maccabei. Il nome Maccabei deriva dall’aramaico ‘martello’ nome di battaglia dato a un figlio di Mattatia, il primo leader dell’insurrezione.

[8] E nell’Iliade, definito come il poema della morte perché la morte alla fine vince su tutti, torna spesso la domanda sul senso della vita umana destinata a finire nel nulla: “Come le foglie, così le stirpi degli uomini: alcune vengono alcune vanno” (Iliade, VI, 146). Solo la gloria rende immortali, e per questo occorre conquistare fama finché si è in vita.

[9] Il termine greco psichè, in seguito da noi utilizzato sempre per parlare dell’anima, significava in origine il soffio, il respiro vitale che proviene dalle Acque cosmiche (Dizionario etimologico comparato, Palombi, Roma, 2010, 223). Quando l’uomo non respirava più, era morto. Del resto, per far vivere l’uomo, Dio aveva soffiato un alito vitale nelle sue narici (Gn 2,7).

[10] Nella Bibbia si comincia a leggere di un Dio terribile che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione (Es 34, 7: «non lascio senza punizione chi pecca, e lo castigo sui suoi figli fino alla terza e alla quarta generazione»).

[11] Sant’Agostino è vissuto a cavallo fra il IV-V secolo (è morto nel 430 d.C.). Egli aveva ripreso da Platone l’immagine del nocchiero (anima) che guida (o meglio usa) la nave (corpo). Oggi, con un esempio più moderno potremmo far riferimento al computer: il corpo è l’hardware; l’anima è il software, cioè l’interiorità che fa funzionare il corpo.

Ma il Credo apostolico, che ancora oggi si recita in chiesa, risale al II secolo, e si dichiara che si crede nella risurrezione dei corpi: non si parla di anima. Del resto Gesù si era incarnato in un corpo per venire a redimere l’umanità, non è venuto a salvare nessuno acquisendo solo un’anima.

C’è dunque questa discordanza, e per coordinare le due idee si è arrivati a questa conclusione: appena morti l’anima viene giudicata; ma alla fine dei tempi si riunirà al corpo per il giudizio finale. Ma se l’anima dell’individuo è già stata giudicata, a che serve un nuovo giudizio?

Comunque, nel 1979, la Congregazione per la Dottrina della Fede, con la sua Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia, al punto 1) confermava di credere alla risurrezione dei morti; al punto 2) affermava la Chiesa intende tale risurrezione come riferentesi all’uomo tutt’intero; e al punto 3) chi sopravvive e si separa dal corpo, per poi ricongiungersi ad esso al momento della risurrezione finale. Col termine anima s’intende l’elemento spirituale mancante intanto del corpo che costituisce l’«io» umano. In altre parole, al momento della morte biologica l’anima si separa dal corpo, sopravvive e infine si ricongiunge al corpo nella risurrezione finale.

San Paolo aveva già capito la contraddizione, tanto che scrive che gli uomini risorgeranno non con l’anima ma con corpo spirituale (1Cor 15, 45). Forse voleva arginare la cultura greca dell’anima prigioniera nel corpo. Sta di fatto che la Chiesa ha denigrato il corpo, elemento inferiore e secondario dell'uomo. Così, disprezzando tutto ciò che era corporale, si invitava a un'ascesi esasperata, affinché tutte le forze si concentrassero nel saziare l'anima.

[12] In un terribile libro si racconta la storia di una bella ragazza, rinchiusa forzatamente in un bordello di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale; fra i tanti uomini che la frequentano, entra nelle simpatie di un ufficiale tedesco e riesce, con i regali in cibo che questi le fa, non solo a mangiare lei, ma anche a dar da mangiare ad altre disgraziate chiuse nel campo di concentramento, che altrimenti sarebbero morte di fame. “Sbagliatissimo!” tuonerà il cattolico intransigente, “perché usando peccaminosamente il suo corpo la ragazza condanna sé stessa: ha scelto volontariamente il male, e perciò sarà condannata all’inferno. A costo di farsi uccidere subito la ragazza avrebbe dovuto rifiutare di prostituirsi!” Doveva pensare innanzitutto alla sua anima! Evidente che in tal modo si tende alla ricerca della propria perfezione isolandosi o per lo meno staccandosi dagli altri. In effetti la religione ci ha sempre insegnato che il nostro traguardo deve essere Dio; il vero credente deve fare tutto per Dio; lo stesso amore per il prossimo è indiretto: uno vede Gesù nel prossimo in difficoltà, e quindi se fa il bene del prossimo sta sempre mirando a Gesù, lo sta facendo per Gesù, e sa bene che Dio lo vede e poi gli darà la giusta ricompensa; ma prima deve pensare alla salvezza della sua anima, per cui prima deve evitare di offendere Dio violando le sue leggi. Ma da notare che i benedetti del giudizio finale (Mt 25, 37s.) non hanno affatto visto Gesù nel dare da mangiare a un affamato o da bere a un assetato: Proprio non pensavano a Gesù, ma all’individuo che avevano davanti.

[13] L’ateismo cerca di liberare da simile religione, che è una rappresentazione culturale di questi due presupposti.

[14] Molte comunità islamiche sovente non capiscono la nostra smania di avere sempre più diritti individuali. Un musulmano nigeriano o afghano vive inserito in una rete di relazioni e rapporti completamente diversa da quella di un occidentale. Riconoscere a queste popolazioni i diritti dell’uomo in quanto singolo individuo significa privarli di un’esistenza nella collettività o, addirittura, contrapporli a essa. In altre parole: il conferire diritti indipendenti al singolo individuo non rientra nella tradizione di quelle culture, che vedono nell’individualismo non la possibilità di diventare pienamente sé stessi ma, forse in conseguenza delle esperienze di vita in condizioni desertiche assai difficili, solo la certezza di perire. Non per niente i musulmani non hanno sottoscritto la nostra Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo.

Racconta il missionario Kizito Sesana (in “7 – Corriere della sera, 22.12.23) che la Chiesa diceva una volta ai missionari “va’ e salva un’anima”. Ma in Africa la cosa più importante è la comunità, il gruppo. I bambini di strada noi non li possono mai prendere da soli, li si accoglie con i loro compagni: hanno già dentro una gerarchia. Li si accoglie in blocco perché è solo in comunità che si salveranno.

[15] Il filosofo Galimberti Umberto spiega dove è nata l’idea dell’anima, in https://www.youtube.com/watch?v=2lV0L9J-ssY.

[16] Ma pur non parlando espressamente di malattie dell’anima, già Epicuro, filosofo greco considerato godereccio e poco virtuoso, le aveva inquadrate. In realtà Epicuro aveva ben chiarito che la felicità deve passare attraverso il benessere del corpo, visto che siamo innanzitutto corpi. Poi, però, aggiungeva che anche l’anima va curata, perché l’anima ha desideri. Ma non tutti i desideri sono legittimi. Ci sono i desideri necessari e naturali (come mangiare), ma anche i desideri che non sono né necessari né naturali (come l’ossessione per il potere e il denaro). Se ci preoccupiamo di problemi che non sono problemi saremo frustrati e infelici: i soldi sono importati per vivere una vita dignitosa, ma se l’obiettivo della nostra vita diventa accumularne sempre di più, non saremo mai sazi e instaureremo relazioni di puro interesse e non di amicizia, il che non ci porterà mai alla felicità. È essenziale ripristinare il valore delle relazioni umane. A ben vedere, Gesù – considerato dai suoi detrattori un mangione e un ubriacone, - ha detto cose simili.

[17] La psichiatria non conosce le cause della malattia. L’anima viene ancora detta psiché, ma non basta conoscere l’anima se non si conosce il mondo di quella persona. Quanto influisce il mondo sulla vita di una persona? La fenomenologia (Brentano, Husserl) ha perciò lasciato perdere la parola anima, come del resto fa la scienza; poiché c’è relazione fra corpo e mondo, all’anima si sostituisce il mondo. Questo perché, ad es., a livello organico non tutte le sfumature sono identiche: la mia depressione ha un significato diverso dalla tua, mentre tutte le anime dovrebbero essere uguali. Se definiamo perciò anima solo la relazione fra il nostro corpo e mondo, se ne può fare a meno.