Albero dei cachi, Magnano - Foto tratta da commmons.wikimedia.org

OMNIA PROBATE


(Vagliate tutto / Ritenete il buono)

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SULLA FRONTIERA


Alessandro Leogrande




di Guido Dotti

Alessandro Leogrande - foto tratta dalla rete, il nostro giornale resta a disposizione di eventuali aventi diritti d’autore

È la frontiera.

Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze.

La frontiera corre sempre nel mezzo.

Di qua c'è il mondo di prima. Di là c'è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.

Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2015, p. 296.

Ci sono alcuni versi del poeta Robert Frost, riferiti a banali questioni di vicinato, che mi paiono dialogare con il pensiero di Alessandro Leogrande nel definire limiti e potenzialità delle frontiere:

“Prima di fare un muro dovrei chiedermi

quello che intendo riparare o escludere,

e a chi potrei recare danno”.

Questi interrogativi hanno attraversato la vita, il pensiero e l’agire di Leogrande: la sua fatica nel cercare di riparare i danni di una società ingiusta, la sua volontà di non escludere nessuno, il suo intento di non recare danno ad alcuno, di dare un nome e un volto alle persone e alle ingiustizie. Nessun fortino da difendere, ma piuttosto la ricerca di mondo a venire che sappia conservare il bonum del mondo di prima e lo dilati a dimensione universale, al di là di ogni frontiera.

È questa etica laica di responsabilità che dovrebbe interrogare la chiesa, le chiese su cosa intendono a loro volta per “frontiera”. Trasposizione teologica della dimensione geografica del limes, propria dell’impero romano, l’adagio “extra ecclesia nulla salus” impone di stabilire in ogni epoca e in ogni luogo cosa è e dove si colloca l’extra, cosa determina i limiti, cosa caratterizza l’identità, l’appartenenza, se ha senso pensare in termini di noi e loro, di mio e tuo, se è lecito concepire di avere uno spazio da difendere.

Così la consapevolezza di possedere un patrimonio umano e spirituale che si moltiplica dividendolo con gli altri e non rinchiudendolo in recinti, dovrebbe portare i cristiani ad ascoltare quanti – come Leogrande – dall’esterno, e senza nemmeno chiamarli in causa esplicitamente, li sollecitano ad aprire le porte a quel “di là che deve ancora venire”. Questo “oltre” veniente per i cristiani ha il nome e il volto del Signore Gesù e la frontiera è il limite tra il già e il non ancora, la soglia sulla quale sostare solo un istante per meglio riprendere il cammino verso quell’umanità di cui già fanno parte e che tanto stava a cuore a persone rette come Alessandro. Un’umanità riconoscibile a partire dagli ultimi: “gli schiavi nelle campagne del Sud”, i migranti, le vittime delle dittature, delle guerre e dei naufragi, come quello della motovedetta “Kater i Rades”, avvenuto emblematicamente un Venerdì Santo.

Alessandro Leogrande (Taranto, 20 maggio 1977 – Roma, 26 novembre 2017) ha fatto del giornalismo e della scrittura lo strumento comunicativo di una sollecitudine per la dignità di ogni essere umano. Come dirà suo padre dopo la morte prematura, si è battuto “in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati nei più diversi contesti: nell'ambito del caporalato, degli immigrati, dei desaparecidos in Argentina, e ovunque ci sia stato un sopruso”.


Chiesa monastica di Bose - foto tratta da commons.wikimedia.org

Numero 667 - 26 giugno 2022