Come tutti i popoli
di Miriam Camerini
La Torah parla di una Terra (adamah) che l’uomo (Adam) deve riempire, conquistare e governare in Genesi 1:28; coltivare e custodire in Genesi 2:15.
Da questa Terra, che è l’Eden, l’Adam - creato maschio e femmina - viene mandato via per aver mangiato l’unico frutto che gli era stato interdetto: d’ora innanzi dovrà scegliere dove abitare, e avrà molto da lavorare perché la Terra, “maledetta a causa sua” lasci trapelare spighe e germogli, fra un rovo e una spina. Anche la donna farà fatica a dare il suo frutto, che uscirà dal suo corpo con sforzo, pericolo, fatica e duro lavoro. Abitare una Terra appare dunque da subito sottoposto alla condizione che ce lo si meriti con la giustizia e l’obbedienza a regole che sono forse poche ma certo fondamentali: rispettare i limiti, non trasgredire i confini.
Sempre nella Torah, in Deuteronomio (17:14-20) Dio “concede” al popolo, quando si sarà stabilito nella Terra d’Israele, di designare un monarca: “Qualora tu dica: Io porrò su di me un re come fanno tutte le nazioni che mi stanno intorno metterai sopra di te un re che il Signore tuo Dio sceglierà (...) solo egli non dovrà aumentare il numero dei suoi cavalli per non far tornare il popolo in Egitto per procacciarsene molti, mentre il Signore vi ha detto di non tornare per quella via”.
La divinità prosegue e spiega che l’eventuale re non dovrà accumulare nemmeno molte donne, né molto argento o oro, per non “distrarre il suo cuore”. Come antidoto all’ingiustizia, alla corruzione, all’ingordigia di soldi, donne e mezzi di trasporto (non cambia mai nulla!) il re ha a disposizione una sola cosa: la Torah, di cui deve di sua mano acquisire – addirittura vergare – una copia che gli faccia da guida “tutti i suoi giorni”: solo così saranno infatti molti, questi suoi giorni sul trono.
Questa è la prescrizione divina per un futuro che ancora non è presente né certo, nelle vite nomadi dei figli d’Israele in marcia nel deserto, guidati da Mosè.
Nel I libro di Samuele (capitolo 8:4 e segg.) i figli di Israele - oramai stanziati nella Terra promessa e divenuti sedentari sotto la guida dei Giudici e dei Profeti - si radunano di fronte a Samuele, cui dicono: “Vedi, tu sei diventato vecchio e i tuoi figli non seguono le tue norme. Nomina dunque un re che sia nostro capo come hanno tutti gli altri popoli”. Il testo prosegue: “La cosa spiacque a Samuele in quanto avevano detto dacci un re per giudicarci e così si rivolse al Signore. Dio disse a Samuele: - Ascolta la voce del popolo in tutto ciò che ti diranno, poiché non di te si sono stufati, bensì di Me, che non vogliono più regni su di loro (...) Ora fai quello che chiedono, ma avvertili e spiega come si comporterà il re che li governerà”. Così allora dice Samuele al popolo che gli chiedeva un re: “Questo sarà il modo di procedere del re che vi governerà: i vostri figli li prenderà e metterà nei suoi carri, nella sua cavalleria e correranno davanti alle sue carrozze. (...) farà loro arare e mietere i suoi campi e fabbricare le sue armi e quello che occorre per la sua cavalleria. Prenderà le vostre figlie per farne delle profumiere, cuoche e fornaie. Il meglio dei vostri campi, delle vostre vigne e dei vostri uliveti prenderà per darlo ai suoi ministri, (...) prenderà i migliori dei vostri schiavi, delle vostre schiave, dei vostri giovani e dei vostri asini per farli lavorare per lui (...) e voi sarete ridotti in schiavitù. Allora griderete a Dio a causa del vostro re che vi sarete scelti, ma non vi risponderà Dio in quel giorno.” Il popolo rifiuta di ascoltare Samuele e risponde: “Sì, sì, ma noi vogliamo un re, così saremo anche noi come tutti i popoli, ci giudicherà il nostro re e uscirà davanti a noi (in battaglia) e combatterà le nostre guerre.” Samuele riferisce a Dio, che gli conferma: “Dai retta e nomina loro un re”. Samuele li manda a casa e si appresta ad eseguire: deluso, preoccupato, ferito; con la morte nel cuore, immagino.
Il resto è storia: Da Saul a Davide, da Salomone ai suoi eredi e successori, la storia della monarchia in Israele è una valle di lacrime e sangue come qualunque altra, con pochi episodi luminosi e melodiosi (penso ai salmi cantati, all’arpa / radio-sveglia di Davide, al Tempio, al Cantico e al palazzo di Salomone), conclusi appunto tutti fra il semplice regno di Davide e quello sontuoso di Salomone.
Non perché sia peggio di tutte le altre monarchie del mondo, passate e presenti, ma precisamente perché è come il popolo l’ha voluta, ossia: come tutte le altre.
In nessun luogo della Bibbia (né della letteratura rabbinica) si parla di popolo eletto, privilegio che nessuno, nemmeno Israele ha, bensì di una Nazione di sacerdoti e di un popolo santo (Esodo 19:6), responsabilità imposta a Israele e da questo accettata “a scatola chiusa” con il faremo e ascolteremo (i precetti, la Torah) pronunciato sotto la suggestione del Sinai (Esodo 24:7).
Dio dice infatti al suo popolo: “Siate santi perché santo sono io, il Signore vostro Dio” (Levitico 19:2 e altri luoghi). L’indicazione è utopica, l’imitatio dei una spinta a cercar di fare sempre il meglio possibile, un fine a cui tendere che mantiene tutte e tutti sempre nella tensione messianica ma non può esser raggiunto mai.
Scrive Amos Luzzatto, forte studioso di testi (anche) ebraici e medico recentemente scomparso che ho avuto la grande fortuna di conoscere, nella sua introduzione alla raccolta dei testi Lezioni sulle Massime dei Padri e su Maimonide (Giuntina 1999, in Italia) dell’immenso pensatore ebreo Yeshayahu Leibowitz (1903 – 1994) , nato a Riga nell’Impero zarista, vissuto in Palestina (dove si trasferì prima della fondazione dello Stato) e morto in Israele: “L’aspirazione prima, la realizzazione poi della forma-Stato, esaltata da Ben Gurion e indicata come un valore riconquistato e al quale dedicare il meglio delle proprie energie, era vista da Leibowitz come una pericolosa sostituzione di valori estranei a quelli propri della tradizione ebraica. Peggio ancora quando Ben Gurion cercava di fondare sul Tanakh, sulla Bibbia (“trascurata” dai tradizionalisti-talmudisti e “recuperata” dai laici) il suo patriottismo e quella che Leibowitz definiva la sua statolatria. Ancora peggio quando i partiti “religiosi”, facendo politica, contrattavano fette di potere per garantirsi privilegi, finanziamenti, compromessi legislativi, come si fa, facendo politica in tutto il mondo (nda: torniamo al come tutti gli altri popoli). Leibowitz sosteneva che proprio per questo la guerra dei sei giorni era stata perduta il settimo giorno, quando cioè l’esaltazione della vittoria militare e della riconquista del Paese fino al Giordano aveva fornito a una precisa fase politica (cioè tutta terrena, nda) una coloritura messianica, stravolgendo sia il concetto ebraico di messianismo sia deviando dalla via che poteva condurre a uno Stato ebraico”.
Valeva la pena di aspettare due millenni per costruire una Nazione come tutte le altre, mi domando: con tutti i detriti di traumi, le malvagità, le ingiustizie e la corruzione trascinati dalla storia dell’Uomo per millenni di Storia? Si poteva avere uno Stato, ma farlo altrimenti? Era meglio non averlo? Si può redimere la Terra su cui si risiede, qualunque e ovunque essa sia, come proponevano i bundisti lituani e polacchi, socialisti ebrei, lavoratori e operai, intellettuali e sognatori atei e infinitamente fiduciosi, credenti nel cammino dell’uomo (Martin Buber)?
“Mir blaybn do!” Dicevano: “Noi restiamo qua e qua dove siamo, questa terra è promessa, redenta da noi con la giustizia dell’uomo e la sua lotta”. I bundisti sono morti nelle camere a gas con e come tutti gli altri, solo – in alcuni casi – con le armi in pugno, indicando ai compagni di massacro una via di resistenza grandiosa, perché minuscola e disperata.
Provando a immaginare una via d’uscita dall’impasse (teo/logica, geografica, escatologica, politica) in cui ci siamo – tutte e tutti – ficcati con questi due opposti desideri, quello di essere come tutti gli altri e quello di essere santi a imitazione di una divinità che però nel mondo non sta, non – quantomeno – con quel dolore e quella fatica cui siamo confrontati e confrontate noi, tutto il tempo – temo che l’unico modo sia - ammesso che funzioni - quello di Gotthold Ephraim Lessing e della sua Parabola degli anelli, come raccontata dall’ebreo Nathan, eroe protagonista dell’ultimo testo teatrale del filosofo, drammaturgo e teologo luterano morto nel 1781, Nathan il saggio (1779): “Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che esso è autentico. (...) Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello. E aiuti la sua virtù con la dolcezza, con indomita pazienza e carità e con profonda devozione a Dio. Quando le virtù degli anelli appariranno nei nipoti, io li invito a tornare in tribunale, fra mille e mille anni. Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me; e parlerà. Andate!”.