Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Antagonismo e alternativa - disegno di Rodafà Sosteno

Amoris custodes, alternativa e antagonismo

di Stefano Sodaro

Varrebbe la pena - tanto più in piena estate - pensare al tempo che si spreca nell’accelerare il vortice antagonista dentro le nostre vite, equivocando tragicamente tra alternativa e antagonismo.

Ancora una volta l’Io primeggia, o ci prova. Enorme, smisurato, gigantesco, incontenibile.

E prende, tocca, afferra; pretende, ritocca secondo uggia propria, riafferra per trattenere.

Costruire la vita sull’antagonismo porta ad una perenne contrapposizione, ad un continuo, sfiancante, confronto tra chi deve vincere e chi perdere. E senza alcun abbraccio, né preventivo, né successivo, come invece abbiamo visto accadere agli Europei tra i giocatori.

L’alternativa non ha nulla da spartire con l’antagonismo.

Proviamo ad esemplificare.

Esiste un amore antagonista ed esiste un amore alternativo. Il primo predica l’esclusione come marchio indelebile e sicuro di fedeltà amorosa: ama davvero chi non ammette altri – ed altre – nel cerchio degli affetti cui non è consentito dilatarsi. Ogni preteso universalismo è una finzione. Io sono io e tu non puoi mettermi accanto ad altri (altre). Il secondo si fa carico della complessità delle storie con i suoi intrecci e pure con le sue contraddizioni, non lavora a favore di alcuna esclusione, scava percorsi nuovi su terra che sembrerebbe arida, ambisce ad immaginare ascese alpinistiche di possibili comunioni affettive per vie nuove, inedite, mai tentate prima, dove mancano chiodi e scalette.

L’amore antagonista finisce per odiare il mondo – 1, forse 2, difficilmente 3.

L’amore alternativo finisce per non capire più quale sia la tanto celebrata differenza tra amare e voler bene. E dunque + 1, + 2, + 3.

Nell’introduzione di Franco e Franca Basaglia al volume di Robert Castel Lo psicanalismo (Giulio Einaudi editore 1975, pp. VII-VIII) si leggono parole che potrebbero sembrare terribili: «Il mondo dei bisogni non è nemmeno sfiorato dalla psicanalisi. Essa, come ogni branca delle scienze umane, si muove essenzialmente sul piano dei desideri, o dei bisogni indotti e stimolati che esistono quando i bisogni primari sono soddisfatti, o che servono a coprirli occultando il piano della necessità. Lo stesso codice di riferimento necessario all’accesso alla psicanalisi, è estraneo al mondo dei bisogni, lo ignora, perché la psicanalisi nasce e si sviluppa all’interno di una classe e di un sistema di valori in cui i bisogni primari sono automaticamente soddisfatti. Tutta la cultura borghese – in particolare per quanto riguarda le scienze umane – si muove sul piano dei desideri, ed è in questo senso che essa agisce come uno strumento di oppressione e di distanza nei confronti della classe che è costretta a muoversi sul piano dei bisogni. Proletariato e sottoproletariato sono completamente esclusi da questo mondo, perché finché i bisogni primari non sono soddisfatti, i desideri non si sa neppure cosa siano o, se si stimolano (come ad esempio attraverso il consumo), lo è a scapito dei bisogni.»

Se ritenessimo ancora valide le affermazioni dei coniugi Basaglia, potremmo schematicamente ricondurre l’amore antagonista al soddisfacimento dei desideri e l’amore alternativo al soddisfacimento dei bisogni.

Eppure, proprio all’interno di simile critica così netta e tagliente verso la cultura dei desideri e dunque – nell’elaborazione basagliana – verso l’esaltazione della psicanalisi, si legge anche: «Le istituzioni (e con questo termine ci si riferisce non solo alle istituzioni assistenziali, ma a tutte le istituzione della nostra organizzazione sociale, comprese la cultura e la scienza come istituzioni), sono amministrate e gestite dalla classe dominante, secondo i propri valori ed il proprio codice di riferimento. Questo codice è accessibile a chi lo condivide e lo comprende, perché fa parte di lui, della sua vita: non si tratta solo di un problema di linguaggio, quanto di un insieme di valori che sono perfettamente coerenti tra chi li produce, chi li rappresenta e chi li utilizza. Esso non può contenere i bisogni e le risposte ai bisogni della classe che è esclusa a priori da questi valori, quindi la presunta universalità delle misure adottate come risposte ai bisogni dell’uomo è già implicitamente negata dalla qualità stessa delle risposte.» (Op. cit., p. VIII).

Abbandoniamo il terreno dell’amore e parliamo, per un attimo, di cronache giudiziarie, sorprendentemente vaticane.

Inizierà il prossimo 27 luglio un processo penale – con udienze dibattimentali vere e proprie – all’interno dello Stato della Città del Vaticano. E per quanto il Pubblico Ministero si chiami, in quell’ordinamento – ordinamento vaticano, appunto – “Promotore di Giustizia”, il codice applicato è il Codice Zanardelli del 1889 (ovviamente con ampie successive modifiche) e non già il codice di diritto canonico. Che significa? Significa che il linguaggio istituzionale vaticano adotta il medesimo assetto valoriale di riferimento proprio di ogni istituzione. E sia il giudice, sia l’accusa, sia la difesa – sì, anche la difesa - restano di necessità del tutto all’interno di tale perimetro istituzionale.

In sé è il processo stesso, in effetti, qualunque processo, a non disegnare ed indicare alternative, bensì a dover tenere a freno, nelle maglie del diritto, gli antagonismi più risoluti. La sentenza non è il trionfo dell’alternativa, ma il riconoscimento di un antagonismo vittorioso e di uno soccombente.

Il processo penale che inizierà in Vaticano il 27 luglio andrà incontro ad un bisogno o ad un desiderio di giustizia? La domanda non ha risposte pronte e resta aperta, con la sua inquietudine. Resta aperta proprio perché rimane interna alla cornice istituzionale, non apre ad un’alternativa culturale - più prossima al codice della Santa Sede, quello cioè di diritto canonico, che a quello del Vaticano, quasi fotocopiato su un consueto codice di qualunque Stato -. Ma è possibile un’alternativa istituzionale? Sì, ma solo a costo di “deistituzionalizzare”.

L’alternativa deistituzionalizza, l’antagonismo istituzionalizza od anche reistituzionalizza.

L’amore è un’istituzione?

Però avevamo detto di non insistere sull’amore, dunque torniamo in fretta in Vaticano. In fretta perché è stato appena pubblicato – in data 16 luglio 2021 – il nuovo Motu Proprio di Francesco papa “Traditionis Custodes” (https://www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/20210716-motu-proprio-traditionis-custodes.html) «Sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970.».

Due articoli sono di contenuto eclatante e vale riportarli per intero.

“Art. 3. Il vescovo, nelle diocesi in cui finora vi è la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970:

§ 1. accerti che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici;

§ 2. indichi, uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali);

§ 3. stabilisca nel luogo indicato i giorni in cui sono consentite le celebrazioni eucaristiche con l’uso del Messale Romano promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962. In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali;

§ 4. nomini, un sacerdote che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli. Il sacerdote sia idoneo a tale incarico, sia competente in ordine all’utilizzo del Missale Romanum antecedente alla riforma del 1970, abbia una conoscenza della lingua latina tale che gli consenta di comprendere pienamente le rubriche e i testi liturgici, sia animato da una viva carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale. È infatti necessario che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli.

§5. proceda, nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valuti se mantenerle o meno.

§ 6. avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi.”

“Art. 4. I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica.”

Per quanto riguarda la prima disposizione, risaltano il divieto di utilizzare chiese parrocchiali per la celebrazione secondo il cosiddetto Vetus Ordo ed il divieto di nuovi gruppi richiedenti l’utilizzo del Messale del 1962. Nessun nuovo “coetus fidelium” potrà più sorgere che richieda la celebrazione della messa tridentina.

La seconda disposizione poi – art. 4 – blocca la propensione di un cospicuo numero di neo-ordinati ed ordinandi preti a veder salire i gradini dell’altare per rivolgere le spalle ai fedeli ed officiare in lingua latina secondo le rubriche preconciliari.

La tradizione è alternativa o antagonista? Senza ombra di dubbio, la tradizione è alternativa, mentre il tradizionalismo è antagonista. La tradizione evolve per essere fedele a se stessa, il tradizionalismo si oppone alle evoluzioni. E per la liturgia questo è un vero dramma che si è consumato a lungo e sembrava non se ne potesse uscire in alcun modo: la sovrapposizione, indebita e perniciosa, tra tradizione e tradizionalismo, tra alternativa e antagonismo, è stata finalmente cassata dal Papa. Roma locuta, causa finita.

D’amore non parliamo, si è detto, d’accordo. Ma di matrimonio? L’onnigamia di Rodafà è un’evoluzione della tradizione fourierista (da Charles Fourier, il primo che usò il vocabolo)? Sì e no. Sì, perché l’utopia è stata sempre un reale orizzonte alternativo, giacché piena di ideali e di passioni coinvolgenti. No, perché le forme non possono certo essere quelle di fine Settecento, primi Ottocento, ma la forma è sostanza e dunque è la stessa sostanza a dover essere ripensata completamente, pena dover essere annoverati tra i tradizionalisti.

Quale alternativa insegue allora l’onnigamia di Rodafà? Scrive il pressoché dimenticato Eugen Drewermann: «Gesù viveva l’amore a un livello d’energia dell’esistenza che non conosceva ancora la scissione nei due poli di matrimonio e di monastero» (p. 502, Funzionari di Dio. Psicogramma di un ideale, Edizioni Raetia, Bolzano 1995).

Lo “psicogramma”, scrittura agita da uno “psicografo” – vale a dire un rilevatore delle reazioni del corpo a fronte di emozioni psichiche -, è capace di illuminare quali alternative vere e quali false la nostra corporeità registri ed assuma: vi sono posture, gesti, che, probabilmente scandalizzando, aprono spiragli di luce mai lasciata prima filtrare e vi sono risposte fisiche che avvertono invece di dover impedire al corpo di ascoltare “lo spirito”, o “la psiche” se preferiamo.

L’alternativa ci farà sorridere, l’antagonismo disperare e piangere. La prima accarezzerà il corpo, la seconda lo metterà in tensione, lo contrarrà in uno spasmo di pace non conclusa.

Quando si farà sera, l’alternativa alla morte non sarà la vita ma l’amore.

E così, nonostante ogni nobile sforzo, è ancora sempre Lui a comparire. Del resto qualcuno aveva già compreso che non si può stare senza “ragionar d’amore”.


Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento

e messi in un vasel, ch’ad ogni vento

per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento,

anzi, vivendo sempre in un talento,

di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi

con quella ch’è sul numer de le trenta

con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,

e ciascuna di lor fosse contenta,

sì come i’ credo che saremmo noi.


Felice onnigamia dell’Alighieri.

Alternativa assoluta.

Buona domenica.